sabato 22 agosto 2009

Thanr


La dea etrusca Thanr compare spesso sulle scene incise sugli specchi del IV e del III secolo a.C.. La si riconosce facilmente perchè è sempre indicato il suo nome e la divinità è raffigurata in scene di gineceo, in relazione con i bambini. Poche iscrizioni votive documentano, però, anche l'aspetto funerario ed infero di Thanr.
Due specchi provenienti da Arezzo e da Palestrina, recano la raffigurazione di Thanr come dea-levatrice, nell'atto di aiutare Menrva a nascere dalla testa di Tinia. Menrva balza fuori completamente armata e dotata di elmo nel primo caso, quello dello specchio di Arezzo. In quello di Palestrina, Thanr è raffigurata nell'atto di fasciare il capo di Tinia. In entrambe le scene, la dea è aiutata da un'altra figura femminile, chiamata una volta Thalna ed un'altra Ethau va.
Come in molti casi, anche in questo l'iconografia e la mitologia etrusca risente di modelli greci: la coppia di divinità che interviene per aiutare la nascita di Menrva corrisponde alle Ilizie (Eleithyiai), divinità connesse strettamente al parto.
Da uno specchio inciso proveniente da Orvieto viene un'ulteriore prova della connessione tra Thanr e l'infanzia: la dea è raffigurata nell'atto di accogliere un bambino dalle mani di Hercle, alla presenza della sua compagna Thalna. Il significato di questa scena mitologica è tuttora oscuro. Una coppia di specchi, di cui non si sa con certezza la provenienza, risalenti al IV secolo a.C., mostra Thanr insieme ad altre divinità femminili della cerchia di Afrodite, in un contesto che è associato comunemente al saluto d'addio di una sposa. Una fanciulla di nome Alp(a)nu abbraccia una figura materna che, nel primo caso, è chiamata Thanr, nel secondo Achvizr. Ma, anche in questo caso, Thanr è presente alla scena, seduta in disparte, con indosso vesti matronali. Essa sembra rappresentare la madre della dea-sposa Alp(a)nu.
Accanto alle iconografie degli specchi vi sono, però, anche delle testimonianze di documenti epigrafici che attestano il culto di Thanr in diverse regioni dell'Etruria. In un caso almeno la dea è adorata come protettrice di un bambino, raffigurato in un graffito tardo-arcaico molto lacunoso ritrovato nell'abitato di Spina, presso la foce del Po. In questo graffito sono menzionati un Vepe ed un Vepele, forse padre e figlio. In altri contesti, invece, il nome di Thanr è strettamente legato all'ambito funeario.
Su un cippo tombale perugino, trovato nel suo contesto originario presso il castello di S. Valentino, Thanr è invocata come garante dell'appartenenza del terreno (cehen cel) e del cippo (penthna) ad una tomba (thauru).
Il lato B del Piombo di Magliano, testo rituale del V secolo a.C. inciso su un disco di piombo, riporta in apertura un'invocazione al dio degli inferi Calus ed alla sua compagna. Il nome della signora dell'Ade non è menzionato ma, per definirla, si usa un aggettivo eufemistico (mlach, "la buona dea") ed uno teonimico (thanra, "appartenente alla cerchia di Thanr").
Thanr ha il suo posto anche nel calendario liturgico tardo arcaico della Tegola di Capua, che ha notevoli valenze funerarie. In questo contesto la dea è titolare di un rituale che deve compiersi nel mese di giugno e che si è proposto di confrontare con i Matralia di Roma, celebrati l'11 giugno in onore di Mater Matuta.

venerdì 14 agosto 2009

Un antico centro religioso


A Trezzo D'Adda, in provincia di Milano, sono stati portati alla luce dei reperti che testimoniano la presenza di una comunità cristiana.
La cittadina rivestiva una certa importanza già nel V secolo d.C.. I reperti riportati alla luce testimoniano che in questa località, in prossimità di un casello autostradale, tra il 500 e fino al 1500 ha vissuto una comunità abbastanza numerosa che incentrava il suo vivere attorno all'edificio di culto.
Le ricerche hanno evidenziato la presenza di due edifici di culto. I ricercatori stanno attualmente lavorando per misurare esattamente il luogo dell'antico culto. Sul sito sono state rinvenute delle tombe con, al loro interno, delle ossa umane e degli oggetti che fanno risalire alla presenza di una comunità nel basso Medioevo. Lo scavo è particolarmente concentrato su una grande struttura tombale, ubicata all'interno dell'edificio religioso. Probabilmente si tratta della sepoltura di un dignitario, lo stesso che, forse, commissionò la costruzione della chiesa.
Gli studiosi pensano che la comunità sia stata fiorente e presente fino al XIV secolo. I documenti del IX secolo parlano di una località Sallianense. Ricognizioni e scritti si susseguono fino al 1566, quando Carlo Borromeo fa visita alla pieve di questa località, oramai in rovina.

La storia su un pavimento


Il pavimento del Duomo è, senza dubbio, una delle meravigile custodite dalla città di Siena. E' un capolavoro unico al mondo, costituito da moltissimi pannelli scolpiti, ben 52 tarsie a colori e a graffito.
L'esecuzione di questo capolavoro ha richiesto la bellezza di sei secoli, dal XIV al XIX, che hanno intrecciato strettamente al pavimento la storia della città e della sua arte. Il Vasari attribuisce la paternità del pavimento marmoreo al caposcuola dell'arte senese, Duccio da Boninsegna (XIII-XIV secolo), ma le prime testimonianze risalgono, addirittura, al 1369 e sono legate a nomi di artigiani pressocchè sconosciuti agli storici dell'arte.
Alla fase più antica della decorazione appartengono i riquadri della Ruota della Fortuna e della Lupa Senese (1373), entrambi posti all'ingresso della cattedrale, e quello della Fortezza (1406), posto dinanzi alla Sacrestia (tutti e tre interamente rifatti nell'Ottocento perchè rovinati dal continuo passaggio dei fedeli). Per evitare che gli altri riquadri si ronvinino, è stata disposta la copertura del pavimento mediante appositi pannelli.
Nel Quattrocento i disegni dei pannelli furono realizzati da noti artisti senesi, quali Domenico di Bartolo, Urbano da Cortona (seguace di Donatello), Francesco di Giorgio Marini, architetto di Federico da Montefeltro, Bernardino Pinturicchio.
Le immagini più suggestive, però, risalgono al Cinquecento e sono opera di Domenico Beccafumi, caposcuola del manierismo senese, che realizzò, con tecniche innovative per l'epoca, "Le Storie di Elia", "Le Storie di Mosè" ed "Il Sacrificio di Isacco".

Scopertura straordinaria del Pavimento Cattedrale di Siena
dal 18 agosto al 30 ottobre
Orario: tutti i giorni dalle ore 10.30 alle ore 19.30
Info: Opera della Metropolitana - Tel. 0577.283048
e-mail: operaduomo@operaduomo.siena.it - http://www.operaduomo.siena.it/

giovedì 13 agosto 2009

La Casa dei Putti Danzanti


E' stata ritrovata un'enorme domus, che si estende, forse, su un intero isolato a nord-est del foro di Aquileia. Questa domus è stata battezzata la Casa dei Putti Danzanti, a causa di un raffinato mosaico che decorava gli ambienti di rappresentanza.
La campagna di scavi è curata dal Dipartimento di scienze dell'Antichità dell'Università di Trieste. La domus appartiene al IV secolo d.C., ma ha origini più antiche, rintracciate dagli archeologi nelle fasi di III secolo ed in quelle di epoca tardo repubblicana sottostanti l'edificio.
La domus non è stata ancora riportata completamente alla luce, poichè pare che le sue strutture si espandano addirittura sotto alcune botteghe, nelle vie limitrofe a via Gemina, luogo del cantiere di scavo.
Dell'edificio si è potuto, finora, studiare l'impianto verticale, la planimetria ed anche le varie fasi costruttive. Nel III secolo d.C. furono rifatti i mosaici, i pavimenti, un muretto-tramezzo, i pilastrini che sostenevano l'intercapedine per il riscaldamento di un settore riservato, con tutta probabilità, alle terme. L'ingresso principale era affacciato su via Gemina. I primi ambienti erano tappezzati di un mosaico fiorito. Seguiva un'ala di rappresentanza che, però, era residenziale ed un'area privata con vani di disimpegno.

sabato 8 agosto 2009

Antichi medici


Il primo medico della storia si chiama Hesyra e vive al tempo di Djoser, faraone della III Dinastia (2630-2611 a.C.). Hesyra è un personaggio assai importante, è un ur sunu, un capo dei medici, ed anche un ur ibhy sunu, un capo di dentisti.
Il primo livello della professione medica in Egitto è il sunu. Medico generico, lo chiameremmo noi. Il più grande centro dove la professione medica si svolgeva era, sicuramente, il palazzo reale, chiamato per aa, Grande Casa, dal quale deriva la stessa parola "faraone". Sunu per aa è il medico della Grande Casa. Ovviamente al servizio del faraone c'è un'intera equipe medica, formata dai migliori professionisti del regno. Il medico personale del re è colui che occupa, all'interno del palazzo, la posizione principale. Si chiama ur sunu mehu shena, vale a dire "capo dei medici del nord e del sud". Egli ha autorità su tutti i medici, sia quelli interni al palazzo che quelli esterni.
Il dentista è uno dei medici che, forse, ha più da fare, nell'antico Egitto. Il cambiamento delle abitudini di vita alimentari, infatti, porta ad un aumento delle carie, nel paese del Nilo. I denti, poi, si usurano molto a causa delle scorie alimentari presenti nelle farine del pane. In Egitto si tentano anche delle cure dentarie, come risulta dalle prescrizioni presenti su alcuni papiri.
Chi si occupa degli occhi è il sunu irty, il "medico dei due occhi". Gli antichi egizi soffrono molto di infezioni oculari. Negli affreschi molte persone vengono raffigurate cieche.
Il medico ha diritto ad un compenso che, però, non è in denaro ma è basato, almeno fino alla XXX Dinastia, sul baratto, regolato dallo Stato. Alcuni documenti ritrovati nel villaggio degli operai di Deir el-Medina, a Tebe Ovest, ci informano in merito: il minimo salariale è costituito da razioni degli elementi base della dieta, frumento, orzo, pane e birra. Un ostrakon della XX Dinastia (1187-1075 a.C.) informa che i medici ricevono un pagamento supplementare rispetto agli altri lavoratori del villaggio: un quarto di khar di grano ed un khar di orzo in più. Ma i medici possono anche ricevere pagamenti in rame e natron (carbonato idrato di sodio, la soda, insomma), che si aggiungono allo stipendio mensile.
Ad incidere sulla corresponsione della parcella è, ovviamente, anche la condizione economica del malato. Nella tomba del medico Nebamon, vissuto sotto Amenhotep II (1428-1397 a.C.), il titolare del sepolcro è raffigurato mentre riceve da un principe siriano e dalla di lui consorte, un onorario in schiavi, bestiame, rame e natron.
Le fonti parlano di ben 150 medici, con le loro cariche e le relative specializzazioni. Ma i medici non si limitano alla razionale e semplice pratica della medicina, nel loro operato entra anche la magia, messa in atto attraverso formule ed amuleti, alla quale gli antichi egizi sono sensibilissimi. Tra gli amuleti quello che, certamente, ha più successo è l'occhio udjat, che rappresenta l'occhio umano con elementi dell'occhio di falco, perchè era l'occhio del dio falco Horo, ferito da Seth e guarito da Thot, che lo rese integro e lo trasformò in udjat. Tra gli amuleti più diffusi vi è anche lo scarabeo, creati in pasta smaltata azzurra e prodotti per uso funerario. Vengono cuciti sulle bende che avvolgono la mummia od inseriti nelle reticelle, appoggiate sul corpo per proteggere il defunto.

La peste nella storia antica


Non si sa quando, esattamente, la peste fece il suo ingresso nella storia. Se ne hanno tracce nel bacino del Mediterraneo molto prima della romanità. Omero menziona la peste nell'Iliade, durante la guerra di Troia.
Sicuramente la peste non era una novità quando, nel IV secolo d.C., comparve in modo devastante nella penisola italiana. In un caldo ottobre del 541, durante il regno dell'imperatore Giustiniano (527-565 d.C.), il porto di Pelusio, sulla foce orientale del delta del Nilo, fu sconvolto da una terribile notizia: era arrivata la peste. Le imbarcazioni che facevano quotidianamente scalo nel porto egiziano, avevano portato il triste carico di contagio e di morte.
Probabilmente la peste era partita dall'Etiopia, secondo quanto ci tramanda lo storico bizantino Egravio Scolastico, e si era diffusa a causa del numero elevato di ratti in città e nell'area portuale, che, a loro volta, erano stati contagiati da altri ratti infetti giunti con le imbarcazioni.
Da Pelusio la peste si diffuse in tutto l'Egitto, la Siria e la Palestina. Nella primavera del 542 sbarcò a Costantinopoli dove, in quattro mesi, avrebbe mietuto trecentomila persone, un terzo della popolazione della città. Lo storico bizantino Procopio narra, ma è notizia da accertarsi, che lo stesso imperatore Giustiniano ne fu colpito. Sicuramente, però, la peste prese proprio nome dall'imperatore.
Tra il periodo Tardo antico e l'alto Medioevo, numerose furono le epidemie, almeno diciotto colpirono il vicino Oriente ed undici l'Occidente. La peste del IV secolo, però, fu particolarmente virulenta, con ondate cicliche di nove-tredici anni. La terza ondata, quella che colpì in modo maggiore l'Italia, arrivò nel 570, forse veicolata dai porti di Marsiglia e Genova. Anche la quarta ondata (dal 580 al 582) e la quinta (dal 588 al 591) interessarono particolarmente l'Occidente, colpendo in modo virulento la Spagna, la Gallia e l'Italia. Gli effetti di quest'epidemia di peste finirono per sommarsi a quelli di una violenta epidemia di vaiolo, che, anch'essa nel 570, colpì gran parte dell'Europa continentale.
La descrizione più cruda degli effetti della peste del IV secolo, ce la dà Procopio che, al seguito di uno dei generali di Giustiniano, Belisario, viaggiò durante la pandemia per le regioni mediterranee: "...febbre violenta, buboni e pustole in ogni parte del corpo, delirio e morte anche per suicidio. Normalmente la malattia aveva un brusco peggioramento... Alcuni morivano improvvisamente, mentre altri rimanevano vivi in uno stato di violento delirio".
La peste colse la penisola italiana in un momento particolarmente critico, che seguiva la disgregazione dell'impero d'Occidente e l'arrivo di popolazioni dal nordest. La qualità della vita, nel nostro paese, era precipitosamente decaduta e tutti i servizi di pubblica utilità erano stati progressivamente smantellati, soprattutto le strutture igieniche e sanitarie. Inoltre la guerra greco-gotica aveva stremato e molto ridotta la popolazione. In alcune zone della penisola, la peste si andò a sommare, inoltre, ad un'altra terribile malattia: la lebbra.

giovedì 6 agosto 2009

Le navi romane di Ventotene


Nel mare di Ventotene sono state ritrovate ben cinque imbarcazioni romane, risalenti ad un periodo compreso tra il I secolo a.C. ed il IV secolo d.C., e con le imbarcazioni è stato rinvenuto il loro carico di vasellame ed anfore.
L'archeologa Annalisa Zarattini, che opera presso il Nucleo operativo di archeologia subacquea, ha affermato che si tratta di un ritrovamento eccezionale, che dimostra l'importanza dell'isola come crocevia di antiche rotte. Inoltre, la dottoressa Zarattini ha rivelato che nelle acque che circondano l'isola è arenato un notevole patrimonio subacqueo che attende di essere valorizzato.
Le imbarcazioni di Ventotene sono state individuate con la parte lignea dello scafo intatta, ad una profondità di cento metri. Sono stati riportati alla luce, per meglio studiare la tipologia del carico e delle navi, alcuni reperti: un'anfora e quattro ciotole per rimescolare il cibo.
L'imbarcazione più antica, che gli studiosi fanno risalire al I secolo a.C., è lunga 18 metri e trasportava anfore italiche. Il relitto più carico, risalente al I secolo d.C., misurava 15 metri e trasportava anfore spagnole della Betica (Andalusia) che sono ancora tutte lì, nella stiva e paiono persino integre. Le altre tre navi misuravano 13, 20 e 25 metri e trasportavano, rispettivamente, anfore e mortuaria la prima, cilindri di piombo, anfore e frammenti di vetro la seconda e anfore africane la terza.

mercoledì 5 agosto 2009

Il Medioevo al Campidoglio



Recentemente è stata restaurata la Sala del cinquecento Archivio Capitolino del Palazzo dei Conservatori. Proprio questa sala ospita, ora, l'allestimento di uno spazio dedicato al Medioevo.
Elemento centrale del nuovo spazio è una statua che si deve allo scultore toscano Arnolfo di Cambio. Originariamente l'opera era dipinta con colori brillanti ed impreziosita da dorature che ne facevano l'elemento più significativo di un monumento onorario dedicato al Carlo I d'Angiò, negli anni 1275-1277. Costui era il fratello di Luigi IX di Francia e fu incoronato a Roma re di Sicilia nel1266. L'anno precedente era stato nominato, per la prima volta, Senatore di Roma, carica che rivestì a più riprese tra il 1268 ed il 1278 e, nuovamente, tra il 1281 ed il 1284.
Il monumento a lui dedicato, secondo recenti studi, fu realizzato negli anni tra il 1268 ed il 1278, probabilmente per esere collocato all'interno della grande aula medioevale al primo piano del Palazzo Senatorio (attuale Aula Giulio Cesare), dove il Senatore o il suo vicario amministravano la giustizia civile e penale.
La monumentale scultura del re, fu ricavata da un frammento di trabeazione antica ed ora è visibile accanto ad un frammento marmoreo di arco gotico, poco conosciuto, decorato con una figura a rilievo di un trombettiere.
Carlo I è raffigurato seduto su un faldistorio, trono pieghevole e privo di schienale, decorato con due protomi di leone. Il sovrano indossa una lunga veste ed un ampio mantello che, in origine, era dipinto di azzurro e decorato di gigli dorati, emblema della casa di Francia e d'Angiò. Sul capo ha una corona, solo in parte conservata. Nelle mani, prima che i restauri del tardo Quattrocento ne alterassero il modellato, impugnava uno scettro ed il globo simbolo del potere.
Nella sala del Medioevo è possibile ammirare altre opere che hanno l'intento di offrire una panoramica del Campidoglio durante l'Età di Mezzo. Ci sono unità di misura dell'olio che risalgono al Duecento, per esempio, che attestano la presenza sul colle di un importante mercato che si estendeva tra l'antico Palazzo Senatorio e la chiesa e convento di Santa Maria in Aracoeli. Un pannello cosmatesco proveniente dal pulpito, ora smembrato, dell'Epistola della chiesa di Santa Maria in Aracoeli, opera di Lorenzo di Tebaldo e del figlio Jacopo, invece, testimoniano la raffinata cultura dei marmorari romani tra la fine del XII ed i primi anni del XIII secolo.

martedì 4 agosto 2009

Gli sconosciuti pittori dell'antica Roma


Dal 24 settembre 2009, alle scuderie del Quirinale, a Roma, sarà possibile ammirare il fasto del colore nell'antica Roma.
Grandi affreschi, ritratti sul legno e sul vetro, decorazioni, fregi e vedute provenienti dalle domus patrizie e dalle botteghe dei più importanti siti archeologici e musei di tutto il mondo, per una mostra per la prima volta interamente dedicata alla pittura della Roma antica. Pittura romana che non fu seconda nè debitrice passiva di quella greca, questo è l'intento che si ripropone di dimostrare questa esposizione.
Il mondo antico era un mondo in cui il colore aveva un'estrema importanza ed era largamente utilizzato per riprodurre eventi storici e mitologici ma, anche, la natura e la vita quotidiana. I monumenti pubblici e le statue erano tutti policromi ed i marmi utilizzati dai Romani erano tutti colorati. Il bianco veniva utilizzato come complemento di un modo fatto di accese policromie.
Il tempo e le intemperie hanno finito, ovviamente, per cancellare quei colori vivaci, per polverizzare il legno che li supportava, per sbiancare i marmi. Neanche l'eccezionale scoperta di Ercolano e di Pompei ha permesso di restituire, all'immaginazione, il vero di quei colori.
La mostra di Roma documenta e disegna lo sviluppo della pittura romana nei secoli, che costituì sostanzialmente un continuum di quella greca. I visitatori potranno rendersi conto di quanto fosse alto il livello qualitativo della pittura romana. I pittori romani utilizzavano una pittura rapida, a macchia, giocata su tocchi di colore che sottintendevano una visione "distanziata". Nel contempo essi non erano molto interessati al problema della prospettiva lineare a fuoco unico. Distribuivano, piuttosto, gli oggetti nello spazio assai liberamente, senza rigide costrizioni prospettiche.
I soggetti prediletti dai pittori romani erano scenografie parietali, paesaggi bucolici ed agresti, vedute di ville e di santuari rurali, vedute di giardini. Per quanto riguarda la ritrattistica, la mostra permette, per la prima volta, di ammirare in confronto diretto, alcuni esempi di ritrattistica ad affresco, a mosaico o su vetro, rinvenuti in Italia, accanto ai più celebrati ritratti ad encausto (a cera fusa su tela di lino o tavola di tiglio) dell'oasi egiziana di El Fayyum.
L'arte romana, però, non ha artisti, poichè vi era, nell'antica Roma, un forte disprezzo per coloro che svolgevano attività artigianale nella quale rientravano anche scultori e pittori.
I pezzi esposti sono oltre cento ed arrivano dai più importanti siti archeologici e musei del mondo: il Louvre, il British Museum, gli Staatliche Museen di Berlino, L'Antikensammlung di Monaco, il Liebighaus di Francoforte, il Museo Archeologico di Napoli, gli Scavi di Pompei, il Museo Nazionale Romano, i Musei Vaticani ed i Musei Capitolini solo per citarne alcuni.
Sede: Roma, Scuderie del Quirinale - Via XXIV Maggio, 16
Periodo: dal 24 settembre 2009 al 17 gennaio 2010
Orari: da domenica a giovedì 10.00-20.00; venerdì e sabato 10.00-22.30
Info: 06.39967500
Biglietto: € 10,00 (intero), € 7,50 (ridotto)

sabato 1 agosto 2009


Il busto della regina Hatchepsut è stato acquistato, da un museo berlinese, con un grande dispendio economico ed ora rischia di rivelarsi un falso.
La statua è in granito scuro e raffigura la notissima regina che regnò per ben 22 anni sull'Egitto.
Gli scienziati della Technical University di Berlino hanno appurato, di recente, che la pietra con cui è stato realizzato il busto di Hatchepsut è ricchissima di minerali quali la magnesite e la siderite. Nessun altro busto della valle del Nilo contiene questi minerali. Questo porta gli studiosi a credere che la statuetta, alta solo 16,5 centimetri, sia un falso moderno.
Dieter Wildung, ex direttore del museo, ha dichiarato di non essere al corrente degli studi in questione. Il prezzo, si dice in giro, si aggira intorno al milione di marchi. La statuetta fu acquistata nel 1986 dal commerciante inglese Robin Symes.
Lo stesso museo berlinese, in precedenza, era stato aspramente criticato dalle autorità egiziane per essersi rifiutato di restituire il busto di Nefertiti, che gli egiziani considerano un tesoro nazionale.

Esecuzione in massa di antichi guerrieri vichinghi?


Ben 51 corpi, nudi, decapitati ed ammassati in una sorta di fossa comune, sono stati ritrovati a Weymouth, nel sud dell'Inghilterra.
La fossa nella quale sono stati ritrovati gli scheletri risale ad almeno mille anni fa. Le teste sono state accatastate con cura su un lato della fossa comune. Molti scheletri presentano di tagli profondi sul cranio, sulla mascella e sul collo, come se avessero ricevuto più colpi.
Non sono stati riscontrati altri traumi sui corpi. Una delle vittime sembra come aver alzato una mano per difendersi. I corpi sono quelli di giovani uomini sani, robusti e molto forti, la classica tipologia del guerriero. Ma potrebbe darsi anche che siano stati dei rematori di navi vichinghe. Gli esami al radiocarbonio datano l'evento ad un periodo compreso tra l'890 ed il 1034 d.C.
A quei tempi i Sassoni combattevano i Danesi e le incursioni vichinghe erano assai frequenti. Quando le analisi sui denti saranno completate, si potrà capire la regione di provenienza di questi uomini.

L'uomo di Torre Astura


Una scoperta archeologica davvero eccezionale è stata fatta a Torre Astura, nei pressi di Nettuno (Roma). Si tratta di un guerriero, forse ucciso da una mareggiata. La scoperta è del maggio di quest'anno ma è stata resa nota solo in questi giorni.
Lo scheletro del presunto guerriero è stato trovato a dieci metri dalla riva, sulla spiaggia della località chiamata "Osservatorio Cortese". A ritrovarlo i Carabinieri della Sezione Archeologica e dai funzionari della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio. L'intervento aveva un particolare carattere di urgenza, visto che la sepoltura era praticamente assediata dal mare che già molti danni aveva causato.
Il guerriero era sepolto in una tomba a fossa di forma ovale, lunga 1,70 metri e larga 0,85. Era stato deposto supino e completamente immerso nell'acqua marina. Al guerriero mancavano i piedi. All'altezza della gabbia toracica è stata rinvenuta la punta di una freccia, forse la causa della sua morte. Lo scheletro era circondato da vasi, tazze e due lame di pugnale in selce. Proprio questo corredo costituisce un unicum, in quanto finora non erano state mai ritrovate sepolture a ridosso della zona di Torre Astura appartenenti all'Eneolitico (Età del Rame). Si potrebbe, quindi, essere in presenza della prima necropoli Eneolitica rinvenuta lungo la costa di Nettuno.
Lo scheletro è stato battezzato Nello dal nome dell'ufficiale che ha guidato il team di tecnici e funzionari che lo hanno salvato dalle acque

Turchia, gli "inviti" di Antioco I di Commagene...

Turchia, l'iscrizione di Antioco di Commagene (Foto: AA) Un'iscrizione trovata vicino a Kimildagi , nel villaggio di Onevler , in Tu...