lunedì 30 novembre 2009

Misteri d'Armenia

Gli archeologi che lavorano nel villaggio di Gogoran, nella provincia armena di Lori, hanno recentemente riportato alla luce un mausoleo, unico del suo genere in Armenia. Questo mausoleo si distingue dagli altri, scoperti nella regione, in quanto costruito in pietra invece che in mattoni. La struttura è di 14 metri di diametro e si crede appartenesse ad un locale principe, vissuto durante l'Età del Bronzo, nel IX secolo a.C..
Il mausoleo è circondato da un fossato semicircolare, con grandi pietre e bordato con pietre più piccole. Gli archeologi sono particolarmente interessati ad una lastra scudo del mausoleo e alla piccola buca bordata con un piccolo cerchio che comprende simboli tipici dei riti funebri.
La famiglia del principe ha sepolto il defunto con uno speciale rito funebre, con il nobile sono stati sepolti anche il suo pugnale, piccoli e grandi recipienti in ceramica, un piatto dello stesso materiale ed una collana che, forse, è di onice. A questo si aggiungono dei bovini, altre specie di animali ed uno scudo decorato in oro su ciascuna delle sue estremità, che contiene la raffigurazione di due cervi affrontati con un albero al centro, come sigillo.
Il ricercatore Hrachik Marukyan spiega la singolare struttura architettonica del mausoleo e la varietà dei disegni geometrici su delle grandi pietre del cerchio e la croce formata da queste ultime: "La croce indica le quattro parti del mondo ed è il simbolo del sole all'interno del cerchio, cosicchè essa diventi una croce uncinata, considerata il simbolo di eternità e potere".
Aram Kalantaryan, membro e corrispondente dell'Accademia Nazionale delle Scienze, ritiene che il principe fosse un capo villaggio ed appartenesse all'antica popolazione che precedette e diede origine agli armeni, malgrado siano in fase di completamento gli studi sul DNA dei resti. Molti studiosi sono concordi, invece, nell'affermare che il territorio presenti insediamenti di una cultura pre-cristiana, non necessariamente armena. L'ipotesi si basa sulla presenza di numerose grotte con tracce di questa presenza pre cristiana ma anche sulla recente scoperta di antichissimi tubi di pietra tra i villaggi di Gogaran e Shirakamut. Ancora si conosce molto poco del popolo armeno e si spera che i recenti e continui ritrovamenti archeologici possano fornire una risposta. Gli studiosi, in proposito, sperano che anche la chiesa di San Astvatsatsin riservi sorprese. Nonostante, infatti, sia stata attribuita al XVII secolo, molti studi sembrano retrodatarla al IV secolo.

Sorprendenti Incas

Nel novembre del 2009 è stata annunciata la scoperta di tre sepolture nel sito di Sacsayhuamàn, nella regione di Cusco, all'interno del parco archeologico. Le tre sepolture sono state ritrovate separate, si tratta di un uomo anziano, seppellito con un coltello cerimoniale, un ragazzo ed un Quechua, un recipiente di grandi dimensioni, in ceramica, che conteneva tre teste mozzate, accompagnate da un paio di recipienti più piccoli chiamati tikachamas.
Gli archeologi spiegano queste sepolture con l'usanza, da parte degli Incas, di decapitare i loro nemici per poi utilizzarne le teste come offerte nei rituali religiosi. Le teste ritrovate a Sacsayhuamàn appartengono agli Huarichacas, un gruppo etnico che ha tentato di invadere luoghi sacri in territorio Inca. L'imperatore inca Pachacùtec ordinò la decapitazione dei capi dell'invasione.
Le ultime scoperte nel territorio sono state nove tombe, di cui due appartenenti a bambini posti in posizione fetale, che erano stati anch'essi sacrificati nel corso di cerimonie religiose. Sono stati anche individuati i resti di una serie di costruzioni in materiale misto, adobe e pietra, a terrazze, che seguono un modello in scala in pietra ritrovato nelle vicinanze.
L'area all'interno del distretto di Cusco è in gran parte inesplorata, perchè la si riteneva protetta, negli scorsi decenni. Ora è invasa dalle baraccopoli.
Il nome del luogo, Sacsayhuamán, significa "falco soddisfatto", la città fu costruita tra il 1438 ed il 1500. Ad ogni solstizio d'estate vi si festeggia l'Inti Raimi, la festa di Inti, dio del sole.
Le pietre con le quali fu costruita la città sono incastrate le une alle altre con sorprendente precisione. La città era cinta da una triplice cerchia di mura costruita di enormi blocchi di andesite e di porfido collocati con estrema precisione.

domenica 29 novembre 2009

La stele di Heracleion

L'Oxford Centre for Maritime Archaeology ha rilasciato una monografia di una stele di pietra.
La stele è stata scoperta ad Heracleion, nella città sommersa ed è datata al regno del faraone macedone Tolomeo VIII, cioè prima del 116 a.C..
La stele è incisa in greco ed in geroglifico, è lunga 5 metri e mezzo e di essa si è conservata solo un quarto.
La stele descrive le regole religiose che stanno alla base del recupero di oggetti saccheggiati e l'asilo offerto dai sacerdoti ai penitenti.

sabato 28 novembre 2009

La fine dell'Impero


Per spiegare la caduta dell'impero romano, gli storici hanno avanzato molte ipotesi. Una tra tutte continua a tornare, malgrado le accuse di inconsistenza: l'avvelenamento da piombo. La teoria risale a qualche decennio fa e vuole che la maggior parte della società romana, soprattutto le classi privilegiate, fossero afflitte da saturnismo, vale a dire da una forte concentrazione di piombo nel sangue.
Il saturnismo provoca gravi problemi psichici ed infertilità oltre che tumori. Questo spiegherebbe i comportamenti di certi personaggi definiti, nella migliore delle ipotesi, "stravaganti", come Caligola, imperatore dal 37 al 41 d.C., che fece nominare senatore il suo cavallo e che ebbe sostanzialmente una vita piuttosto dissoluta.
Radiografie fatte su alcuni scheletri dell'epoca hanno rivelato un'alta concentrazione di piombo nelle ossa. Più alta di quella considerata oggi pericolosa. Il piombo ha una struttura chimica simile a quella del calcio. Una volta ingerito, il corpo lo confonde facilmente con quest'ultimo e lo accumula nella struttura delle ossa, inserendolo in molte funzioni vitali tra le quali il pensiero e la riproduzione.
Ma come ingerirono, i Romani, questo dannosissimo elemento? Il piombo è facile sia da estrarre che da lavorare ed era, pertanto, onnipresente nella vita quotidiana dell'epoca. Molte stoviglie contenevano piombo, come anche i cosmetici delle matrone romane. Commercianti con pochi scrupoli, inoltre, avevano l'abitudine di aggiungere polvere di piombo alle spezie per truffare sul peso. Soprattutto erano di piombo le tubature per l'acqua potabile.
Gli effetti negativi del metallo erano noti. Nel I secolo a.C. Vitruvio, nel "De Architectura", scrive che l'acqua potabile avrebbe dovuto essere trasportata in tubature di terracotta, perchè il piombo era dannoso per la salute. Come prova egli porta quella del colorito pallido dei plumbarii, gli idraulici dell'epoca. Gli studiosi di oggi, invece, sostengono che il continuo scorrere dell'acqua nelle tubature portava alla formazione di strati di calcare che, sostanzialmente, impedivano all'acqua di contaminarsi. Pertanto le cause del saturnismo sono da ricercarsi altrove.
Probabilmente fu l'amore eccessivo per cibo e vino dolce, la causa dell'avvelenamento della popolazione romana. I Romani, infatti, avevano l'abitudine di insaporire piatti e bevande con sapa e defrutum, sciroppi dolci ottenuti facendo bollire il mosto fino a ridurne il volume iniziale della metà (defrutum) o di due terzi (sapa). La preparazione della ricetta suggeriva di utilizzare contenitori di piombo o di stagno (una lega tra rame e piombo) perchè in tal modo lo sciroppo acquistava un sapore più dolce e gradevole, dovuto all'acetato di piombo o zucchero di piombo che, in tal modo, si formava. Il vino, poi, si conservava più a lungo proprio perchè il piombo fermava la fermentazione.
Gli studiosi hanno calcolato che per ogni litro di vino addolcito ci fossero oltre 20 milligrammi di piombo. Sapa e defrutum, poi, erano alla base di quasi tutte le salse preparate dai più famosi cuochi di Roma. Apicio (I secolo a.C. - I secolo d.C.), autore del più apprezzato e celebre ricettario romano, utilizzava entrambe per condire ogni pietanza.

Una sconosciuta, antica città portoghese

In Portogallo, vi è un'ex città romana, Conimbriga, sorta sul terreno dei Lusitani e distante 17 chilometri da Coimbra.
Sono in molti a ritenere che Conimbriga romana tragga le sue origini da un più antico insediamento celtico, anche se la sola cosa certa è che fu conquistata dai Romani nel 139 a.C., durante la campagna condotta da Decimo Giunio Bruto.
Durante il regno dell'Imperatore Ottaviano Augusto, la città si sviluppò notevolmente, con la costruzione di terme e foro. Alla fine del IV secolo, quando l'impero romano era già in declino, la città venne cinta di mura per oltre 1500 metri, che sostituivano o rinforzavano le mura del tempo di Augusto. La tecnica costruttiva denota una certa urgenza nella realizzazione dell'apparato difensivo, dovuta, probabilmente, all'imminenza di attacchi da parte di barbari. Nel 468 gli Svevi assaltano la città, distruggendo parte delle mura. Da questo momento inizia il declino di Conimbriga che, poi, finirà per determinare il trasferimento della Diocesi a Coimbra, che garantiva una migliore sicurezza.
Nel corso degli scavi archeologici del 1913, emerso alcuni reperti risalenti all'Età del Ferro, che testimoniano l'esistenza di insediamenti umani nel territorio in quel periodo storico. Alcune fonti letterarie, poi, descrivono la Lusitania e la valle del Souro: Caio Plinio Secondo cita proprio la città di Conimbriga; l'Itinerarium di Antonino menziona, invece, un insediamento fra Olisipo, Lisbona e Bracara Augusta Braga.
Le invasioni barbariche non spopolano del tutto la città, che subì dapprima il dominio dei Visigoti e poi quello degli Arabi, come testimoniato da un'iscrizione del VI secolo. Le prime campagne di scavo sistematiche hanno inizio del 1899, ma soltanto nel 1955 viene alla luce la città vera e propria, in tutto il suo splendore. La cinta muraria di Conimbriga è praticamente triangolare. Una grande villa romana conserva notevoli mosaici pavimentali, un peristilio centrale ed una notevole planimetria. Un altro edificio di una certa importanza, ritornato alla luce, sono le terme con le classiche suddivisioni tra tepidarium, calidarium e frigidarium. Tutto il materiale estratto, nel corso degli scavi, dal terreno, è stato disposto nel museo di Conimbriga.
Tra gli edifici privati spicca la Casa Dos Repuxos (Casa delle fontane), che copre un'area di 569 metri quadrati, pavimentata a mosaico e con un giardino centrale con vasche e fontane dotate di 500 cannelle. Vi è, poi, una lussuosa abitazione con terme priva, il foro, le terme pubbliche.
Il foro augusteo fu demolito durante la dinastia Flavia, epoca in cui la città di Conimbriga ricevette uno statuto comunale. Si costruì, al suo posto un foro più grande. Non lontane dal foro, sono state rinvenute abitazioni del periodo Claudio, appartenenti quasi sicuramente a degli artigiani. Un acquedotto di 3 chilometri trasportava, da una fonte vicina, l'acqua nella città.

martedì 24 novembre 2009

Etruschi e Fenici sul mare


Al Complesso del Vittoriano a Roma è stata inaugurata la mostra dedicata agli Etruschi ed ai Fenici ed al loro rapporto con il mare.
Sia gli Etruschi che i Fenici avevano estrema dimestichezza con le vie di mare, dove si incontravano e condividevano le medesime esperienze. Entrambi i popoli fondarono empori, colonie, santuari e strinsero alleanze, sottoscrissero trattati, delimitarono sfere d'influenza.
Gli scavi di Pyrgi, iniziati nel 1956, hanno permesso di meglio sottolineare il particolare rapporto degli Etruschi con il mare. Pyrgi (attuale Santa Severa) era l'antico porto della città di Cerveteri, in essa viveva una consistente comunità punica, dedita agli scambi commerciali. Il "re su Caere" Thefarie Velianas, ricordato nelle tre famose lamine auree rinvenute nell'area sacra di Pyrgi, dedicò un tempio ad Uni, la Giunone etrusca gemellata, nello stesso luogo di culto, con la fenicia Astarte.
La mostra vuole essere anche uno spunto per la ricerca e l'approfondimento dei rapporti tra questi due importantissimi popoli ed il mar Mediterraneo. Gli Etruschi controllavano gran parte del Tirreno e si spinsero oltre l'Egeo e, forse, addirittura oltre le Colonne d'Ercole. Costruirono navi veloci, con le quali praticavano la pirateria, ma anche grandi navi onerarie che consentivano loro di esportare i prodotti etruschi sino in Africa, Grecia, Asia Minore e Gallia.
I Fenici ed i loro continuatori in Occidente, vale a dire i Cartaginesi, appartengono ad una civiltà ancora da scoprire, per il grande pubblico. Anche costoro erano navigatori provetti e segnarono la storia del mondo antico per oltre un millennio. Furono tra i primi a circumnavigare il continente africano ed a navigare nell'Oceano Atlantico, fondando città sule coste africane e raggiungendo le isole Azzorre per arrivare, forse prima di Colombo, addirittura in America.
La mostra si serve di pannelli illustrativi, plastici e modelli ricostruttivi per mostrare oggetti ed ambienti di vita antica, con l'intento di guidare il visitatore attraverso un itinerario didattico attento ai temi generali della vita antica "sul mare e per il mare".

Localizzazione: Roma, Complesso del Vittoriano
Durata: fino al 13 dicembre
Orario: lunedì-giovedì 9.30-19.30; venerdì e sabato 9.30-23.30; domenica 9.30-20.30
Info: tel. 06.6780664

L'origine della Bibbia


I manoscritti del Mar Morto contengono una versione dell'Antico Testamento che, forse, è diversa da quella ufficiale.
Analizzando un frammento originale delle pergamene, James Charlesworth, professore di Lingua e Letteratura Neotestamentaria del Princeton Theological Seminary, ha scoperto il discorso originale di Mosè al popolo ebraico contenuto nel Deuteronomio ed ha individuato differenze rispetto a quello pervenuto ufficialmente a noi.
L'Università californiana di Azusa Pacific ha acquistato, da un antiquario, cinque frammenti dei Rotoli del Mar Morto, ciascuno grande come una mano, e li ha messi a disposizione degli studiosi. Il passaggio "incriminato" è del XXVII libro del Deuteronomio, quando Mosè ordina a chi avrebbe raggiunta la Terra Promessa di costruire un altare di pietra sul Monte Gerizim, oltre la riva destra del Giordano. Nelle versioni successive della Bibbia, il luogo indicato non è il Monte Gerizim ma il Monte Ebal. Secondo il professor Charlesworth la differenza tra le due versioni conferma che il frammento, antecedente ad ogni altra versione della Bibbia, contiene il testo originale del libro sacro, che poi è stato modificato nel corso della storia dalle fazioni giudaiche in lotta tra loro.

lunedì 23 novembre 2009

Sull'orientamento dei templi greci


Il professor Alun Salt, dell'Università di Leicester, sostiene che gli antichi Greci costruirono volutamente i loro templi rivolti verso il sole, forse per motivi astronomici (calendario religioso), forse per ragioni pratiche, dal momento che un edificio rivolto verso est sarebbe stato meglio illuminato all'alba.
Sebbene è universalmente noto che la maggior parte dei santuari sia rivolto verso est, alcuni studiosi ritengono che questo allineamento fosse del tutto casuale, dal momento che ci sono anche templi orientati diversamente. Salt sostiene, invece di aver scoperto che 40 dei 41 templi da lui analizzati in Sicilia sono orientati verso est e questo, ovviamente, non può essere un caso. L'unica eccezione è il tempio dedicato ad Ecate, che, secondo Salt, venne costruito in onore della dea della Luna. Salt afferma che i Greci di Sicilia costruirono i templi rivolti verso est per meglio ossevare i precetti della madrepatria dalla quale erano, oramai, lontani.
Efrosyni Boutsikas, dell'Università di Kent, contesta le conclusioni del professor Salt, sostenendo che solo il 58% dei templi analizzati in Grecia si rivolge ad Est. Boutsikas aggiunge che la religione greca non era uniforme ed aveva molte manifestazioni locali.

sabato 21 novembre 2009

Il ritorno delle Dee


Gli acroliti di Demetra e Kore, risalenti al V secolo a.C., provenienti da scavi clandestini a Morgantina e finiti negli Stati Uniti, saranno restituiti alla Sicilia ed il 13 dicembre prossimo saranno esposti nel Museo Archeologico di Aidone, ad Enna. Saranno vestiti da Marella Ferrera.
Questi acroliti sono ritenuti gli esemplari più antichi finora conosciuti di statue eseguite con le estremità in marmo ed il corpo in terracotta o legno.
I reperti di Kore e Demetra sono a grandezza naturale, con occhi a mandorla privi di pupille. Fanno parte di una serie di reperti che la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Enna ha intenzione di riportare in Sicilia nell'ambito del progetto "Morgantina 2009-2011. Il ritorno delle Dee". Tra di loro anche la Venere di Morgantina, ora esposta al Paul Getty Museum, in California.

martedì 17 novembre 2009

Mummie separate


Gli studiosi non sono ancora sicuri di aver trovato la mummia di Paakhntof, marito di Djedmaatesankh. Lei era musicista presso il tempio di Amon Ra, nel complesso templare di Karnak a Tebe; lui era il custode dello stesso tempio.
Le ricercatrici Gayle Gibson e Stephanie Holowka hanno portato le prove per cui la mummia di Paankhontof (questo il nome scritto sulla bara della moglie) sia in realtà quella di Paankhenamun, oggi all'Art Institute of Chicago. La mummia custodita nell'Art Institute porta il nome di Paankhenamun, mentre sulla bara di Djedmaatesankh il nome del marito è scritto Paankhntof, forse una forma abbreviata.
Per gli studiosi le bare sono entrambe di Tebe, sono datate allo stesso periodo (850 a.C.) e sono notevolmente somiglianti. Entrambe le figure sui sarcofagi hanno simili pettinature (bande dorate all'estremità dei capelli), l'immagine della divinità Benu sotto la gola, ali e visi dorati. Inoltre entrambi i sarcofagi possiedono, effigiate, due coppie di serpenti-leoni.
Le scansioni della TAC hanno dimostrato che entrambe le mummie hanno le braccia incrociate all'inguine, posizione comune per coloro che erano membri di templi; scarabei sacri ed amuleti sono disposti nello stesso modo; vi sono involucri nella cavità cerebrale e l'età delle mummie è per entrambe compresa tra i 30 ed i 40 anni.

La primitiva Riccione


A settembre 2009 si è conclusa la campagna di scavi sul terreno della Coop di Riccione. Questa campagna ha permesso di portare alla luce, a qualche metro sotto il livello del suolo, due villaggi, uno più antico dell'altro, risalenti alla preistoria.
Attualmente i reperti si trovano ospitati temporaneamente al locale Museo del territorio, dove attendono ulteriori analisi.
Gli scavi sono iniziati lo scorso anno sotto la guida della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia Romagna. Monica Miari, direttrice scientifica degli scavi, ha dichiarato che la maggior parte dei villaggi risale alla fine del II millennio a.C., vale a dire all'Età del Bronzo. La Soprintendenza già conosceva la presenza, in loco, di resti archeologici dell'Età del Bronzo, scavati tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, nel vicino podere Spina. Il fatto sensazionale è che, sotto il primo insediamento, ne sia stato scoperto un altro, più antico, databile a 4-5000 anni fa.
Tra i resti recuperati vi sono reperti lignei pertinenti, forse, ad un'abitazione, ossa animali, piani di focolari, vasellame, pozzetti, pietre ed utensili. I resti dei villaggi più antichi verranno analizzati con il Carbonio 14.

lunedì 16 novembre 2009

I sarcofagi romani (2)


I cristiani cominciarono a servirsi dei sarcofagi a partire dal III secolo d.C. per tutto il V secolo d.C.. La cessazione delle persecuzioni aprì, per i cristiani, un lungo periodo di pace che diede modo alla nuova dottrina di diffondersi nell'esercito, nelle alte cariche amministrative e persino nella cerchia imperiale.
I sarcofagi cristiani, perlomeno i primi, sono prodotti per alcuni personaggi di origine provinciale e si configurano in una corrente artistica denominata "arte plebea", caratterizzata da maggiore espressività ed individualismo, pur conservando forti legami con la tradizione artistica ellenistica. Le forme si semplificano e si schematizzano. Stesse caratteristiche assume la prima manifestazione della scultura cristiana. Sovente una stessa officina produce opere cristiane ed opere pagane.
Il marmo necessario a ricavare i sarcofagi era quello estratto a Carrara (marmo lunense) anche se continuava ad importarsi anche marmo greco. E' difficile stabilire in quale momento storico le forme d'arte funeraria si caratterizzano come manifestazioni di fede cristiana. In alcuni casi ricorre il medesimo repertorio tradizionale: motivi bucolici possono evocare la pace eterna del paradiso, il pastore crioforo (portatore di agnello) che allude, nell'arte pagana, alla filantropia, diventa il buon pastore. Oppure il tema di Orfeo che incanta gli animali può simboleggiare, anch'egli il Cristo. Ancora la figura femminile con le braccia alzate che i pagani interpretano come Pietas, viene letta come simbolo della preghiera cristiana e della fede del defunto.
Altre volte i modelli iconografici esistenti vengono modificati e ricombinati, legati ora ai tempi biblici. Inizialmente dominano i temi dell'Antico Testamento unitamente a scene pastorali e bucoliche. Dagli inizi del IV secolo, invece, si affermano i temi tratti dai Vangeli e riguardanti, soprattutto, i miracoli di Cristo, il Battesimo nel Giordano e la Natività. Si inseriscono, anche, elementi tratti dai Vangeli Apopcrifi, presto compare la raffigurazione di Pietro e la rappresentazione di scene della vita degli apostoli e del ciclo della Passione.
Le scene ed i personaggi sono collocati, senza un nesso consequenziale tra loro, sui lati del sarcofago. Tra i sarcofagi più noti, vi sono quelli di Elena e di Costantina (madre e figlia di Costantino I) che, nell'iconografia, seguono ancora temi aulici. Il sarcofago di Elena, in particolare, sembra non essere stato eseguito appositametne per la madre dell'imperatore quanto, piuttosto, per un uomo. Il sarcofago di Costantina (foto), conservato nel mausoleo di Santa Costanza a Roma, ha carattere naturalistico e decorativo.
Il Sarcofago di Santa Maria Antiqua, conservato presso l'omonima chiesa a Roma e datato 260-280 a.C., reca una serie di raffigurazioni simboliche legate al culto cristiano: da sinistra Giona sdraiato sotto la vigna, un filosofo che legge un rotolo (al centro), il Buon Pastore ed una scena di battesimo (a destra). La rappresentazione, al centro, dell'orante allude alla sapienza intesa come vera filosofia della rivelazione. L'orante è anche simbolo dell'anima del defunto.
Il Sarcofago di Stilicone si trova a Milano, nella basilica di Sant'Ambrogio, inglobato in un ambone medioevale. Fu scolpito nella seconda metà del IV secolo. Al centro delle raffigurazioni vi è Cristo in trono, rappresentato frontalmente e benedicente, con in mano il libro della legge, che anticipa la figura di Cristo-giudice propria dell'iconografia bizantina.
Il Sarcofago del Buon Pastore è conservato nel Museo Pio Cristiano a Roma e risale alla seconda metà del IV secolo. Vi è raffigurato, centralmente, il buon pastore posto su un piedistallo, alcuni angeli vendemmiatori (laddove la pianta di vite assume il significato di rinascita). Questo sarcofago segna il passaggio nella cosiddetta "dissoluzione dell'arte classica" nell'iconografia più prettamente cristiana.
Il Sarcofago di Giunio Basso (il cui originale, in marmo, è custodito nel Tesoro di San Pietro mentre una riproduzione in gesso si trova nel Museo Pio Cristiano) risale al IV secolo e reca la divisione delle scene in schemi rigorosi scanditi dalle colonnine che, a loro volta, definiscono due piani di lettura, due registri di cinque scene ciascuno. Un'iscrizione è datata al 359 e ricorda l'ex console Giunio Basso, convertitosi al cristianesimo. Tra una colonna e l'altra vi sono rappresentazioni tratte dal Vecchio e Nuovo Testamento senza una consecutio narrativa.

I sarcofagi romani (1)


L'uso dei sarcofagi a Roma si diffuse a partire dal II secolo a.C., quando si cominciò ad inumare i defunti, piuttosto che bruciarli. Si conoscono rari esempi di sarcofagi romani anteriori al I secolo a.C., uno di questi è il sarcofago di Lucio Cornelio Scipione Barbato, conservato nei Musei Capitolini. Questo sepolcro è stato ricavato dal peperino e presenta una sobria decorazione che riprende alcuni elementi degli ordini classici greci e l'iscrizione con il nome del defunto.
L'esempio più antico di sarcofago in marmo con decorazione scolpita ritrovato a Roma, è il Sarcofago Caffarelli, del I secolo a.C., conservato nel Museo di Berlino. E' a forma di cassone, con sottile incorniciatura, ornato, sui lati lunghi, da ghirlande pendenti da bucrani con in mezzo boccali e patere.
Un cambiamento nel rituale si verifica nella tarda età traianea (98-117 d.C.) e l'inizio dell'età di Adriano (117-138 d.C.), quando l'incinerazione venne sostituita dall'inumazione, in concomitanza con i sempre più stretti rapporti con l'area del Mediterraneo orientale, dove alcune discipline religiose incentrate sull'immortalità dell'anima richiedevano la cura e la conservazione del corpo in vista della rinascita a vita futura.
Durante il regno di Adriano, poi, si creò un clima artistico e culturale che prendeva a modello la Grecia classica che portò all'importazione di sarcofagi in marmo pentelico prodotti sia ad Atene che a Proconneso ed in Asia Minore. Essi erano di diversi tipi: a klinè, con le figure dei defunti distese sul coperchio; asiatici ad edicole e colonne; a cassone parallelepipedo, con coperchio a frontone; a lenòs (od a tinozza o a vasca).
Il sarcofago era un bene di lusso, commissionato da famiglie con notevole disponibilità economica. Esso giungeva a destinazione semilavorato, con la decorazione solamente abbozzata. Le officine romane, poi, che impiegavano artigiani originari dei paesi di provenienza dei sarcofagi, si occupavano di completare la decorazione. I sarcofagi prodotti in Italia sono lavorati su un lato lungo e sui due brevi; quelli di fabbrica greca ed orientale sono, invece, decorati su tutti e quattro i lati, perchè venivano posti al centro della camera sepolcrale o dellheroon.
Parallelamente all'importazione di sarcofagi dalla Grecia, si sviluppò una produzione di sarcofagi in marmo di Luni, recanti cicli pittorici del IV secolo a.C.. Il più antico sarcofago romano, oltre al Sarcofago Caffarelli di età giulio-claudia, è il sarcofago di Caius Bellicus Natalis Tebanianus, al Camposanto di Pisa, risalente al 110 d.C..
La mitologia offre un ricco campionario per raffigurare la morte: Meleagro, Medea, Alcesti. Compaiono anche scene di lotta quali la gigantomachia, il ratto delle Leucippidi mentre le gioie ultraterrene sono raffigurate con il thiasos di Bacco ed Arianna, mentre un corteo di Tritoni e Nereidi accompagna l'anima del defunto. Sui sarcofagi ricorrono spesso le strigliature a "S" e le protomi leonine agli angoli. Le decorazioni che raffigurano la fermentazione dell'uva richiamano soggetti dionisiaci connessi all'immortalità dell'anima.
Il Sarcofago di Velletri (II secolo) è l'esempio classico del sincretismo religioso alla base delle credenze escatologiche cristiane del periodo. Vi è raffigurata la storia della regina Alcesti, moglie di Admeto, che sacrificò la sua vita per il marito morendo al suo posto ma che, proprio in virtù di questo gesto, poté tornare in vita.
Il regno di Commodo (180-192 d.C.) porta un mutamento decisivo nell'arte ufficiale romana, si introducono gli effetti ottici ed illusionistici, il cassone si sviluppa in altezza e si crea uno stile baroccheggiante, con figure grandi e disposizione centralizzata delle stesse. Questa fase di produzione continua fino al 240 d.C., la segue una fase detta del classicismo gallienico, che dona corposità e volume alle forme. A questo momento di transizione appartiene il più grande e splendido dei sarcofagi romani, il Sarcofago Ludovisi (foto), con la raffigurazione di una battaglia in cui fu coinvolto, forse, Ostiliano, figlio dell'imperatore Decio, morto nel 251 d.C.. Dopo la metà del secolo si cominciò a raffigurare, sui sarcofagi, effigi di filosofi e Muse. Il defunto, specie se di nobile famiglia, preferiva raffigurare se stesso come un antico filosofo.

domenica 15 novembre 2009

Per difendere la pace di Aton


Si è sempre ritenuto che Akhenaton, il cosiddetto "faraone eretico", fosse un pacifista ad oltranza, ma una ricerca del prof. James Hoffmeier al simposio sull'Egitto di Toronto ha fatto emergere un altro aspetto. Pare, infatti, che Akhenaton ed i suoi dignitari abbiano costruito ed armato una fortezza di una certa grandezza nel deserto del Sinai.
Il bastione difensivo si trovava a Tell el-Borg e misurava 120x80 metri di grandezza. Le mura erano spesse 4 metri e parzialmente circondate da un fossato probabilmente asciutto.
Il forte venne utilizzato fino alla fine della XVIII Dinastia, quando venne abbandonato in favore di un forte nuovo, costruito poco lontano. Hoffmeier crede che i blocchi di pietre utilizzate per riempire il vecchio fossato fossero parte di un tempio di Aton, il cui culto era decaduto proprio in quel periodo.
Sembra che la fortezza di Tell el-Borg potesse ospitare fino a 250 uomini. Vi è stata ritrovata una stele religiosa dedicata ad un "responsabile dei cavalli" ed anche resti di asino e cavallo che suggerirebbero l'esistenza di un'unità di cocchi. E' stato ritrovato anche un cartiglio reale per tutti i faraoni, inclusi la regina Tyi, Akhenaton, Tutankhamon e Nefertiti, forse un raro scritto della splendida regina nella sua veste di co-reggente.
Il sito ha restituito anche giare di vino e nomi dissacrati di Amon. Tutto questo mostra che Akhenaton mantenne una robusta presenza nel deserto del Sinai per difendere la pace di Aton. Tuttavia la fortezza di Tell el-Borg non sembra aver subito assedi o distruzioni violente, al contrario della sua "gemella" costruita poco più in là, definitivamente distrutta durante la XX Dinastia, forse dai popoli del mare.

La città perduta sull'Eufrate


Una spedizione archeologica spagnola diretta da Jean Luis Montero ed operante sulle sponde del fiume che, con il Tigri ha determinato la nascita della civilizzazione in Mesopotamia, a Tell Qabr, ha scoperto una città dalla pianta circolare risalente al 2600 a.C., soprannominata la città resuscitata dell'Eufrate.
Sono ritornati alla luce due giacimenti, corrispondenti ad un periodo che va dal IV millennio sino al I millennio a.C.. L'area in cui è venuta alla luce la sorprendente città era chiamata Collina della Tomba dal 2008. La città risalirebbe a 4500 anni fa, la fortezza di cui sembra fosse dotata, invece, risale al 1300 a.C.. Tra i reperti venuti anch'essi alla luce, ci sono numerose ceramiche, che permetteranno agli studiosi come doveva svolgersi la vita in un periodo sul quale si possiedono scarse informazioni, ed un tubo di forma cilindrica che somiglia molto ai sigilli usati dai dignitari. Quest'ultimo reperto potrebbe anticipare la scoperta dell'archivio della città che farebbe luce sulle relazioni diplomatiche e politiche dell'epoca.
La città è stata scoperta anche grazie all'utilizzo del geo-radar, tecnica che permette di trovare un giacimento evitando di scavare. L'unica città a pianta circolare scoperta nella Valle dell'Eufrate, finora, si trova a 200 chilometri di distanza dal nuovo ritrovamento. finora si pensava fosse un'eccezione.
A Madrid verrà presto organizzato un convegno per discutere degli eccezionali risultati della spedizione che potrebbero anche portare ad una riscrittura dei libri di storia. La missione aveva, come scopo, di stabilire quale fosse il concetto di frontiera dal IV millennio a.C. fino al periodo bizantino e la città appena venuta alla luce potrebbe testimoniare la fondazione delle prime citta della storia che "segnavano" il confine con il territorio della città di Mari, rivale di Babilonia.

sabato 14 novembre 2009

Rioni di Roma: Campo Marzio


Oggi il Campo Marzio è la parte settentrionale di una vasta pianura che, originariamente, era delimitata dal Campidoglio, dal Quirinale e dall'altura dei Parioli. Questa pianura era utilizzata come piazza d'armi, per le esercitazioni dell'esercito, anche se era comunemente frequentata anche dai semplici cittadini per allenamenti individuali, profittando delle strutture fisse che vi erano predisposte.
Oltre all'attività fisica strettamente intesa, il Campo Marzio era attrezzato per esercitazioni con il cavallo e ci si poteva anche incontrare per motivi politici. La zona abbondava di culti, anche se non erano culti dedicati al dio della guerra, dal quale il luogo sembra aver derivato la denominazione. Il più curioso dei culti era dedicato a fenomeni post-vulcanici che, in epoca storica, ancora si verificavano nella zona che, oggi, è occupata dalla chiesa dei Fiorentini. Il culto aveva qualcosa di ctonio, sotterraneo ed, in qualche modo, vi entrava Proserpina ed il Tartaro, regno delle ombre.
Nel 431 a.C. nel Campo Marzio si iniziò la costruzione del tempio di Apollo che fu, in seguito, chiamato Sosiano, tra l'attuale piazza Campitelli ed il Monte Savello. Agli inizi del III secolo a.C. vi fu installato anche il tempio di Bellona, presso la chiesa di S. Marco. Tra il IV e gli inizi del I secolo a.C. fu la volta dell'area di Largo Argentina, del Tempio di Ercole e delle Muse, dei portici di Ottavio e del Teatro di Pompeo.
Notevoli sono le costruzioni, in Campo Marzio, di teatri ed anfiteatri: il Flaminio, il Marcello ed il Balbo fino alle opere "sponsorizzate" da Agrippa quali le terme, il Pantheon, l'acquedotto dell'Aqua Virgo, le cloache ed i portici. Questo vasto insieme fu diviso da Augusto in più regioni.
Sul finire del Medioevo il rione acquisì una caratteristica internazionale. Sorse un borgo chiamato "Borgo Schiavonia", prevalentemente abitato da gente dalmata ed illirica. In particolare l'area dove sorse in seguito l'ospedale di S. Giacomo, era abitata da comaschi e caravaggesi. I Greci dettero il loro nome ad una contrada dove Gregorio XIII fece costruire un fabbricato tutto per loro. I Bretoni si stabilirono intorno alla chiesa di S. Ivo alla Scrofa.
In questo rione avevano anche casa molte note famiglie romane: gli Orsini (a piazza Nicosia e via dei Prefetti), i Colonna (attorno al Mausoleo d'Augusto), i Conti, gli Amati (di origine napoletana), i Benzoni, gli Astalli, i Margani, i Vitelleschi, i Della Valle. Non si hanno, però, notizie di torri e fortificazioni al di fuori di quella degli Orsini all'Augusteo ed a Villa Malta.
La Porta del Popolo era il cardine dei traffici da e per l'Urbe. Esistevano anche degli scali fluviali in corrispondenza delle scomparse posterule tiberine, ai quali affluivano i prodotti dell'entroterra. Per collegare il Campo Marzio al Vaticano portò al ripristino, nel 1518, di un'antica via romana che, in un atto del X secolo, era detta della Pila o della Pigna. Questo antico tracciato avrebbe collegato il Mausoleo d'Augusto con le terme Alessandrine, ubicate nei pressi di S. Luigi dei Francesi. Questo nuovo tracciato, che ricalcava l'antico, dal papa che ne fu il promotore, Leone X, assunse inizialmente il nome di via Leonina ma che sarà più nota con il nome successivo, via di Ripetta. L'apertura della strada valorizzò tutta la zona, anche se i nobili, inizialmente, non si interessarono alle nuove prospettive aperte dallo sviluppo urbanistico.
La densità abitativa del luogo pose dei problemi igienici, dal momento che la popolazione beveva l'acqua del Tevere. Per arginare le epidemie, fu necessario ripristinare, almeno in parte, uno degli acquedotti di Marco Vipsanio Agrippa, quello dell'Aqua Virgo.
Nel 1574 Gregorio XIII costruì la nuova sede pontificia sul Quirinale. Dieci anni più tardi Sisto V tracciò la via che, dal suo nome, verrà detta via Felice e che collega il Pincio con il Laterano passando attraverso la basilica di S. Maria Maggiore.

giovedì 12 novembre 2009

I misteri di Pavlopetri


Pavlopetri è una città sommersa di tremila anni fa, della quale sono perfettamente conservati e visibili quindici edifici, cinque strade, due cimiteri e trentasette tombe. Le acque sono quelle del Mediterraneo, che lambiscono la propaggine più meridionale del Peloponneso.
La città fu fotografata, per la prima volta, nel 1968 da studiosi dell'Istituto di Oceanografia dell'Università di Cambridge e poi mai esplorata, almeno fino all'estate scorsa. Archeologi inglesi, infatti, si sono tuffati nel bu dell'Egeo, al largo delle coste della Laconia ed hanno ripreso immagini di quello che è considerato il primo porto del Mediterraneo. Gli studiosi hanno potuto constatare che Pavlopetri è più grande di quanto si credesse quarant'anni fa e, soprattutto, è più antica.
Nel 1968 gli archeologi avevano datato Pavlopetri al periodo Miceneo, 1600-1000 a.C., ora gli archeologi inglesi hanno avuto la certezza che l'abitato urbano risalirebbe al tardo Neolitico, vale a dire al 2800-1100 a.C.. La quasi certezza proverrebbe da alcune ceramiche risalenti a 5000 anni fa. Non solo, le nuove ricerche hanno permesso di scoprire nuovi edifici per una superficie di 150 metri quadri, tra i quali ve n'è uno che potrebbe essere il primo esempio di cripta con pilastri della Grecia continentale. Vi è anche un megaron, ampia stanza tipica dei palazzi micenei, due tombe in pietra dall'aspetto imponente ed un pithos, una giara funeraria dell'età del Bronzo.

Patria dimenticata di un imperatore


Italica era il nome di una città della regione spagnola chiamata Betica. Divenne municipium nel I secolo a.C. e, al tempo di Adriano, si chiamò Colonia Aelia Augusta. Presso gli scavi archeologici dell'antica città si possono trovare case e strade, un grande anfiteatro, le terme romane, sculture, mosaici, malgrado il riutilizzo massiccio dei materiali effettuato dagli arabi prima e dai cristiani poi per edifici della città di Siviglia.
La città antica corrispondeva all'attuale abitato di Santiponce. Possedeva un foro con un tempio dedicato ad Augusto. Dal momento che Italica era il luogo di nascita di Adriano, fu quest'imperatore ad edificare la nova urbs, che coincide con il sito archeologico, circondata da mura, con un foro più grande, il tempio dedicato a Traiano e le grandi terme. Il Traianeo, in particolare, si rifà alla biblioteca di Adriano a Roma che, a sua volta, traeva ispirazione dalla biblioteca di Atene. Le colonne di questo complesso erano in marmo colorato, i capitelli erano bianchi, particolarità dell'architettura romana che, solitamente, predilegeva il capitello colorato sulla colonna bianca.
Le vie della città si intersecavano con armonia e regolarità, disegnando insulae perpendicolari. Tra le dimore aristocratiche di un certo peso, vi era la cosiddetta Casa dell'Esedra, che possedeva, appunto, un'esedra semicircolare al termine di un lungo cortile. L'edificio copre un'area di 4000 metri quadrati, pari alla superficie dell'intera insula. Ma anche la Casa degli Uccelli non è da meno. Essa deve il suo nome ad uno splendido mosaico raffigurante Orfeo circondato da uccelli di 32 specie differenti. La Casa del Planetario, invece, possiede un mosaico in cui sono rappresentati gli dèi dai quali prendono nome i giorni della settimana.
Ma l'edificio più importante di questa antica cittadina iberica resta il Traianeum, un grande recinto adibito al culto degli imperatori Traiano ed Adriano. Questo edificio, con tutta probabilità, fu voluto da Adriano per omaggiare il suo predecessore. Il complesso è formato da un portico estremamente vasto (il portico interno ha marmo di Luni e cipollino) nel quale si accedeva attraverso il lato corto meridionale da una terrazza con scale laterali, posta sul cardo maximus.
Il tempio, che si ispirava a quello di Mars Ultor nel foro di Augusto, è un ottastilo corinzio, con colonne scalanate di 9,20 metri di altezza, con un'unica cella. Tra il tempio ed il portico si trovavano due file di cinque statue ciascuna, delle quali sono pervenuti a noi solo frammenti. Da questi pochi resti è possibile dedurre che le statue fossero enormi.
Le maestranze che lavorarono al complesso non erano tutte altamente professionali: alcuni frammenti, infatti, risulta realizzati da mani differenti ed in modo piuttosto frettoloso.

mercoledì 11 novembre 2009

Terrazza con vista


Dal 26 ottobre c'è una perla in più nella collana di Roma, che fa parte del percorso di visita del Palatino. Non ci sono costi aggiuntivi. Si tratta della spianata, una terrazza, di 110 per 150 metri chiamata "Vigna Barberini" e che dal 1909 non era stata mai aperta al pubblico.
La "Vigna Barberini" è collocata allo spigolo del Palatino che sovrasta l'arco di Costantino ed il Colosseo. Da qui è possibile ammirare, da destra, la cupola di S. Gregorio al Celio, il campanile romanico della basilica dei Santi Giovanni e Paolo, i pini ed i cipressi del cielo e persino S. Giovanni in Laterano. Guardando in basso si può vedere l'Arco di Costantino dall'alto, la "Meta Sudans", la fontana alla quale i gladiatori solevano lavare le armi insanguinate.
Davanti alla terrazza, il tempio di Venere e Roma, che sarà presto riaperto anche lui al pubblico, la chiesa di Santa Francesca Romana, l'arco di Tito, la Basilica di Massenzio, la cupola dei Santi Luca e Martina ed il Vittoriano.
Alla "Vigna Barberini" si arriva dall'arco di Tito, salendo a sinistra per il Clivo Palatino. La vigna ha ancora l'aspetto di campagna, mantenuto dalla Soprintendenza archeologica. Sono presenti due piccole chiese, in basso San Sebastiano detta al Palatino e poi San Bonaventura con il convento.
Il muro più alto tuttora visibile è quello del palazzo imperiale voluto e fatto costruire dall'imperatore Domiziano, terzo ed ultimo imperatore della famiglia dei Flavi. Nella vigna era uno dei nuclei del palazzo, nella parte centrale della terrazza sono state trovate tracce di filari di piante coltivate in anfore, che hanno fatto pensare ad un giardino con fontane, viali ed aiuole. Probabilmente erano questi i giardini di Adone, gli "Adonaea", ricordati dal sofista greco Filostrato che racconta dell'incontro tra Domiziano e il filosofo greco Apollonio di Tyana in un luogo pieno di piante in vaso, il Palazzo Flavio, appunto. Adone era una divinità orientale legata al mondo ctonio, funerario, agreste, rappresentante la transitorietà dell'esistenza. Nelle feste a lui dedicate si seminavano in vaso piante di rapida crescita (malva, finocchio, orzo) che altrettanto presto, però, morivano.
La parte centrale della terrazza è occupata da un basamento di 60 per 40 metri, di un tempio dedicato al Sole da Elagabalo, che regnò dal 218 al 222 d.C.. In questo santuario Elagabalo riunì gli oggetti più sacri di Roma: il simulacro di Cibele, gli "ancilia", gli scudi di Marte custoditi nella Regia, il fuoco di Vesta, il Palladio. Da quest'ultimo simulacro, la zona, durante il Medioevo, prese il nome di Pallara e la chiesa di S. Sebastiano era diventata Santa Maria in Pallara. Questa chiesa, edificata originariamente nel X secolo per poi essere ricostruita nel 1624, sorge sul lastricato del tempio del Sole ed è legata alla memoria di Sebastiano, guardia pretoriana di Diocleziano e Massimiano, martirizzato il 20 gennaio 288.
Anche la chiesa di San Bonaventura, costruita nel 1675, è stata edificata sui resti del palazzo imperiale, precisamente su quelli di una enorme cisterna alimentata dall'acquedotto Claudio, che forniva acqua al palazzo imperiale e poi alle terme severiane, costruite poco lontano dall'imperatore Settimio Severo.
Nell'angolo sinistro della vigna, gli archeologi stanno ancora scavando per identificare con più certezza una delle realizzazioni più affascinanti dell'impero: la coenatio rotunda, la sala da pranzo girevole, che girava notte e giorno imitando il movimento della Terra.

Un anello misterioso dalle nebbie del passato


E' un oggetto d'oro, molto simile ad una torque, ritrovato in un tumulo a Pietroasele, in Romania meridionale (ex Valacchia), nel 1837. Fa parte di un tesoro datato tra il 250 ed il 400 d.C. ed è ritenuto di origine romana o mediterranea.
Sull'anello vi è un'iscrizione runica, oppure gotica, che rende l'anello un oggetto di notevole interesse accademico. Numerose sono le ipotesi avanzate sul misterioso oggetto, soprattutto sulla sua valenza funeraria.
Purtroppo l'iscrizione venne irreparabilmente danneggiata e non è più granchè leggibile. Molti sono stati i tentativi di lettura e di interpretazione. Recentemente è stato possibile ricostruire la parte danneggiata grazie al ritrovamento di alcune immagini che raffigurano l'oggetto al momento del suo ritrovamento. Il tesoro di cui faceva parte era nascosto all'interno di un tumulo noto come Istrita, nei pressi di Pietroasele, ed era composto di 22 pezzi. Un grande assortimento di oro, piatti e coppe, oltre alla gioielleria e due anelli completi di iscrizioni runiche.
Quando il tesoro fu scoperto, era tenuto insieme da una massa scura che non è stato possibile identificare. Probabilmente materiale organico che era stato utilizzato per celare meglio gli oggetti (tessuti o pelli) prima di interrarli. Il peso totale del tesoro era di circa 20 chilogrammi.
Avverse furono le vicende che colpirono gli oggetti del tesoro, alcuni dei quali furono rubati, altri danneggiati. Quelli rimasti (solo dodici sui ventidue complessivamente ritrovati) mostrano un'elevata qualità artigianale. Essi sono custoditi, attualmente, nel Museo di Bucarest e sono: una grande fibula con testa d'aquila e tre più piccole tempestate di pietre semipreziose; una patera o piatto sacrificale modellato con figure orfiche che circondano una dea tridimensionale raffigurata seduta; una coppa a dodici lati; un grande vassoio; due collane; una brocca ed il famoso anello con l'iscrizione runica.
Isaac Taylor, parlando della scoperta, nel 1879, avanzò l'ipotesi che gli oggetti potrebbero essere una parte di bottino recuperato dai Goti durante le scorribande in Mesia e Tracia, tra il 238 ed il 251 d.C.. Una delle prime teorie formulate in merito vuole che proprietario del tesoro fosse Atanarico, re pagano dei Tervingi e che costui l'avesse acquisito grazie al conflitto con l'imperatore romano Valente, nel 369 d.C.. Alcuni pensano che gli oggetti fossero parte di un regalo fatto dai capi romani ai principi germani alleati.
Recenti studi mineralogici svolti sugli oggetti hanno identificato almeno tre differenti origini geografiche dell'oro utilizzato per crearli: Urali meridionali, Nubia (Sudan) e Persia. Una comparazione della composizione mineralogica, delle tecniche di fusione e forgia ed analisi tipologiche, indicano che l'oro venne usato per creare le iscrizioni runiche all'interno dell'anello non è puro come quello solitamente usato dai greci e dai romani e non è nemmeno in lega come quello utilizzato dai germani. Dunque gli oggetti, pare, sono stati in parte realizzati con oro estratto dal nord della Dacia e potrebbero rappresentare oggetti in possesso dei Goti prima della migrazione verso sud.
L'anello in oro che costituisce, da solo, un vero e proprio enigma, contiene un'iscrizione runica in antico Futhark (antico alfabeto in uso nella Germania post romana), di 15 caratteri, alcuni dei quali piuttosto rovinati. I primi studiosi tradussero l'iscrizione "dedicato hailag al tempio o-wi(h) dei Goti Gutani", "sacro hailag al Giove iowi (ovvero Thor) dei Goti gutan(i)" e così via. Forse l'anello era una dimostrazione della presenza di un tempio o di un albero sacro, la cui esistenza, in tempi pagani, è documentata dalla letteratura in antico norreno e dai ritrovamenti archeologici. La divinità a cui era dedicato questo tempio era, con tutta probabilità, una Dea Madre, adorata dai Goti (culto delle Dìsir in altre aree della Germania orientale). Quindi l'anello con la misteriosa e controversa iscrizione non sarebbe altro che un dono votivo fatto ad una divinità, con tutta probabilità femminile.

L'anello mancante dei dinosauri


In Sudafrica sono stati rinvenuti i resti di una specie finora sconosciuta di dinosauri. Gli autori della scoperta pensano che questa nuova specie possa essere d'aiuto per comprendere come le creature preistoriche si siano trasformate in animali capaci di muoversi sulla terraferma.
Il paleontologo Adam Yates, dell'Università di Witwatersrand, ha presentato lo scheletro completo di Aardonyx celestae durante una conferenza stampa a Johannesburg. L'Aardonyx celestae è un giovane erbivoro che risale a 200 milioni di anni fa. Camminava sulle zampe posteriori, ma riusciva a muoversi su tutte e quattro e ad alzarsi fino a 1,7 metri al livello dell'anca.
Yates sostiene che questo dimostrerebbe come i dinosauri si siano evoluti da bipedi a sauropodi giganti.

martedì 10 novembre 2009

I fasti di Marco Aurelio


Per ricordare le vittorie che Marco Aurelio riportò sui Sarmati ed i Marcomanni, il Senato ed il popolo di Roma innalzarono, all'imperatore defunto nel 180 d.C., una colonna onoraria, che fu completata nel 193 d.C.. L'innalzarono, probabilmente, al centro di un'area porticata, aperta sulla via Flaminia con un arco di accesso.
Di fronte alla colonna, dove ora è il Palazzo Wedekind, si trovava, con tutta probabilità, il tempio dedicato al divo Marco Aurelio. Nelle vicinanze, invece, aveva dimora il procuratore Adastro, addetto alla sorveglianza della colonna.
La colonna di Marco Aurelio insiste su una vasta platea di opera cementizia rafforzata da un'altra di travertino e da una terza di blocchi di marmo. Quel che si vede del basamento è appena un terzo, i due terzi, infatti, sono tuttora interrati. Nella parte scoperta era, su di un lato, la raffigurazione dell'imperatore Commodo che presentava a suo padre, l'imperatore Marco Aurelio, i capi di due barbari vinti. Al di sopra è collocato il plinto, poi il toro (il rigonfiamento) e l'imoscapo della colonna stessa che sono stati, tutti e tre, scolpiti in un unico strato di blocchi.
Sul basamento è stato posto il fusto della colonna, alto 29,60 metri e costituito da diciassette parti o rocchi. Segue il capitello dorico e l'ultimo blocco. All'interno della colonna fu ricavata una scala elicoidale di 203 gradini che prende luce da 56 aperture. Vi si accedeva attraverso una porta situata a 2,65 metri sotto l'attuale livello della piazza. Il diametro della colonna, nella base è di 3,80 metri, sulla sommità è di 3,66.
Sulla colonna sono raffigurate le imprese militari dell'imperatore Marco Aurelio in due campagne, la prima contro i Quadi ed altre popolazioni, durata solamente due anni (dal 172 al 173 d.C.) e l'altra, partita nel 173 d.C., contro i Marcomanni e gli Jazigi, popolazione che arrivava dalla Russia meridionale, con i quali Marco Aurelio sottoscrisse una pace nel 175 d.C..
La colonna pervenne nel Medioevo ancora integra ed era conosciuta come Columna Antonini. Nel X secolo era inclusa tra le proprietà del vicino monastero di S. Silvestro in Capite ed ancora nel 1119 fu rivendicata al monastero stesso dall'abate Piero.
Papa Sisto V incaricò Domenico Fontana di una serie di interventi che, in un anno, portarono alla posa in opera di nuove lastre allo zoccolo (sottratte al Settizodio) e l'eliminazione di quanto ancora restava del fregio con le iscrizione commemorative. Tra l'altro vi fu posta un'iscrizione che attribuiva la colonna ad Antonino Pio. Sulla cima già dal Medioevo era stata rimossa la statua di Marco Aurelio.

Il ritorno di Pietro da Cortona


(Ansa) - Sarà riaperta al pubblico a dicembre la Sala di Marte all'interno dei quartieri monumentali di Palazzo Pitti. Sono infatti terminati i lavori di restauro, realizzato dall'Opificio delle Pietre Dure sulle pitture murali e gli stucchi realizzati da Pietro da Cortona nella Galleria Palatina. "E' un progetto cominciato nel 1997 - ha spiegato la soprintendente dell'Opificio delle Pietre Dure Isabella Lapi Ballerini - per il recupero conservativo dei soffitti delle cinque Sale dei Pianeti realizzato dal genio del Barocco italiano. La Sala Marte è la terza ultimata e rende omaggio a un'opera che fonde insieme pittura e scultura con stucchi bianchi e dorati in maniera sorprendente e rivoluzionaria".
Lo stato conservativo in cui si presentavano le sculture prima del restauro appariva molto compromesso: una spessa coltre di polvere e nerofumo ricopriva le superfici. C'erano inoltre fessurazioni, fratture, rigonfiamenti e lacune formatesi in seguito alla caduta di frammenti ed al degrado di alcune staffe metalliche. Inoltre i restauratori hanno dovuto rimuovere una ridipintura con temperina bianca a base di gesso lasciata da un precedente restauro. "Con questo intervento - ha commentato la soprintendente al polo museale fiorentino Cristina Acidini Luchinat - il quartiere planetario di Palazzo Pitti ha raggiunto una nuova leggibilità. Mancano ancora due sale enon sappiamo quando potranno essere restaurate: finora i lavori sono stati tutti finanziati con risorse interne alle due soprintendenze e un intenso impegno di personale. Appena avremo le possibilità economiche andremo avanti, ma i fondi ora non ci sono. Siamo comunque abbastanza tranquilli perchè le sale sono in buono stato di conservazione e non c'è urgenza di intervenire".

lunedì 9 novembre 2009

La perduta città di Terina


Gli archeologi moderni avevano già avuto sentore che esistesse una necropoli all'estremità settentrionale del Piano di Tirena, presso il comune di Nocera Terinese. Sul territorio sono state effettuate delle verifiche e nei giorni scorsi è stata finalmente portata alla luce la suddetta necropoli.
L'enorme necropoli è stata scoperta ai margini dell'autostrada nel corso dei lavori di ammodernamento del tratto Salerno-Reggio Calabria. Non si sa quante tombe contenga, la necropoli. Le sepolture sono poste una vicino all'altra, molte sono aperte, altre ancora chiuse. All'interno della necropoli sono presenti sentieri, percorsi, scalinate ed il monumento centrale. Altre tombe sono presenti nell'area limitrofa alla necropoli.
Il Piano di Tirena, a qualche centinaia di metri dal mare e delimitato dai fiumi Grande e Savuto, è considerato dagli studiosi come il sito che accoglieva la famosa colonia greca di Terina. L'ipotesi dell'esistenza della necropoli fu avanzata il 30 novembre 2008, quando venne scoperta una tomba che ospitava uno scheletro senza testa, presumibilmente di un guerriero decapitato ed un cinturione di circa un metro, molto prezioso.
La colonia di Tirena fu fondata nel VI secolo a.C. dai Crotonati e tra il V ed il IV finì sotto il dominio dei Siracusani finchè, nel III secolo, fu conquistata dai Bruzi. Nel 272 a.C. Tirena fu conquistata dai Romani e nel 203 a.C. venne distrutta da Annibale.

sabato 7 novembre 2009

Ippocrate di Cos


Ippocrate di Cos visse intorno al 460-380 a.C., fu colui che dettò il nucleo centrale della dottrina degli Asclepiadi, seguaci di Asclepio, dio della medicina, nell'isola di Cos. Fu il medico più famoso dell'antichità, forse, seguace di un altro medico: Erodico di Selimbria, ma frequentò anche i filosofi Gorgia e Democrito. Della sua vita privata si sa che apparteneva ad una famiglia aristocratica, era figlio di Fenarete, anch'egli medico, e di Eraclide; ebbe due figli (Tessalo e Dragone) dalla figlia di un medico famoso al suo tempo, Polibo.
Un altro celebre medico, che nascerà più tardi, nel II secolo d.C., Galeno, riconoscerà in lui il padre della medicina. Prima di Ippocrate, comunque, altri personaggi erano stati riconosciuti come medici di un certo livello: Alcmeone di Crotone, per esempio. Solo Ippocrate, però, può essere considerato colui che fondò la medicina fisiologica, basata sul funzionamento dell'organismo, che sostituì la medicina basata su pratiche curative che avevano più a che vedere con la magia.
Ippocrate viaggiò molto, sia in Grecia che in Egitto, dove era fiorente una notissima scuola medica che si rifaceva al famoso medico-architetto Imhotep. La sua fama si accrebbe dopo che ebbe debellato la grande peste che colpì Atene nel 429 a.C.. Fu sua l'idea di una primitiva "cartella clinica" in cui annotare diagnosi e prognosi.
L'unico lato oscuro della sua vicenda terrena fu l'incendio del tempio di Asclepio: alcuni testimoni sostennero di aver visto il grande medico fuggire dal tempio in fiamme con le tavolette della divinità, ma la maggior parte degli ateniesi si convinse che, in realtà, Ippocrate aveva solo salvato dalla distruzione le tavolette sacre di Asclepio.
La fama di Ippocrate fu così grande che gli eruditi della Biblioteca di Alessandria chiamarono "ippocratico" un gruppo di testi anonimo di contenuto medico. Da allora il Corpus Hippocraticum è una raccolta di settanta trattati di medicina generale, patologia, anatomia, ginecologia, dietetica, deontologia, ostetricia, pediatria, chirurgia ed oftalmologia, scritti in greco da diversi autori.
Del resto i medici greci furono i primi a creare le basi di una metodologia scientifica nonchè a promuovere una discussione critica tra le differenti scuole. La diagnostica ippocratea si basava sull'esplorazione diretta del corpo del malato: si guardava, si tocca, si ascoltava il respiro, la tosse. Il medico, poi, doveva tener conto del luogo in cui viveva il malato e del relativo clima, non doveva, in aggiunta, promettere l'impossibile al paziente, nè fare esperimenti che potessero provocare le sue sofferenze. Per Ippocrate era, inoltre, necessario che il medico fosse anche psicoterapeuta e sappia conquistare la fiducia del malato.

venerdì 6 novembre 2009

Un nuovo, interessante, museo per il Sud


Nella Certosa di San Lorenzo, a Padula, è stato inaugurato il nuovo allestimento del Museo Archeologico Provinciale della Lucania Occidentale. L'esposizione è una carrellata su 16 secoli di storia del Vallo di Diano, dal X secolo a.C. al VI secolo d.C.
Tra i notevoli reperti si possono ammirare le sagome delle donne di Sala Consilina con il ricco corredo di monili in bronzo dorato, di ambre, di avorio, di armi, grandi vasi funerari di epoca villanoviana, vasi attici decorati con i miti greci e provenienti dalle tombe di Padula. Ed ancora: vasi con volti femminili, anelli ellenistici, unguentari d'argento, mosaici tardo-antichi, capitelli, statue, rilievi figurati, sarcofagi ed iscrizioni.

martedì 3 novembre 2009

Il misterioso re di Eretum


A Fara in Sabina, dal 7 novembre 2009 al 14 febbraio 2010, nella Sala Monte Frumentario, sarà possibile ammirare i reperti restituiti dalla tomba n. 36 della necropoli sabina di Eretum.
Nel VI secolo a.C., quando i re furono estromessi per sempre dal governo della neonata città di Roma, si ebbero, nell'Italia centrale, notevoli sconvolgimenti che portarono, ad Eretum e nei centri della Sabina tiberina, a nuovi orizzonti. Ad Eretum salì al potere un personaggio di notevole levatura. La sua tomba fu scoperta nel 2005 e contraddice tutte le tradizioni delle aristocrazie sabine. Innanzitutto la sepoltura ha dimensioni colossali: quattro vani per una sola persona, poi era stipata di calderoni ben allineati, come se fosse un santuario. Inoltre recava simboli regali arcaici e desueti, quali il carro da guerra ed il trono a schienale ricurvo. Il defunto, a conferma del culto a lui tributato, era stato cremato.
La tomba n. 36 della necropoli di Colle del Forno è, dunque, un reperto veramente eccezionale, soprattutto se la si paragona alle più modeste ultime dimore, provviste spesso di una sola camera con loculi a parete, che sono proprie della cultura e del contesto geografico in cui essa è stata rinvenuta. Il complesso è formato da un enorme atrio scoperto, tre camere ed un corridoio di accesso lungo più di 26 metri, il tutto già pianificato e predisposto al momento della edificazione della sepoltura.
Lo scavo ha ulteriormente confermato che la tomba fu predisposta e concepita per essere l'ultima dimora di un solo personaggio. Nella camera di fondo, infatti, si apriva un solo loculo contenente le ceneri del defunto, raccolte in una cassetta di legno, avvolte in un panno ricamato d'oro. Ai suoi lati vi sono due calici già antichi al momento della morte del personaggio e che, forse, rappresentavano essi stessi delle reliquie di qualche antenato.
La grande camera conteneva solo il trono in terracotta e le armi del defunto. Ai piedi del trono vi era un piccolo vaso votivo a testimonianza della cerimonia svolta al momento della sepoltura. La camera di sinistra conteneva un carro da guerra; i cavalli che lo trainavano furono sacrificati nell'atrio ed i loro corpi hanno travolto le cinque anfore di ceramica ivi riposte. Queste ultime avevano l'apparenza di vasi piutttosto modesti, ma il loro contenuto e la loro origine parlavano di ben altro che di modestia, dal momento che provenivano dal lontano Oriente.
Nella camera destra vi era una fila di grandi recipienti di bronzo che contenevano altri alimenti destinati al defunto. Un secondo trono di terracotta, posto sul tetto della tomba, ne segnalava a tutti la presenza.
La tomba fu riaperta, successivamente, per un secondo defunto, una donna, deposta su un letto di legno lungo la parete destra della camera di fondo. La riapertura provocò il crollo del soffitto e di una parete della camera, rappezzati, poi, sommariamente. Nel corso dei lavori, gli oggetti nella camera di fondo e nell'atrio furono infranti ed in parte dispersi.
Ogni cosa, nella sepoltura, parla di usi e consuetudini diversi da quelli propri dei Sabini, persino di quelli aristocratici: una tomba individuale, la presenza di materiali di corredo tra i quali anche oggetti più antichi o desueti (come il carro ed il trono, riservato quest'ultimo solo a divinità o personaggi sovrumani). Sicuramente il defunto doveva aver goduto, in vita, di onori inconsueti. Forse era un sovrano vissuto in un secolo - il VI a.C. - in cui il crollo di alleanze sulle quali aveva poggiato la supremazia di Roma nella regione, aveva provocato un vuoto di potere favorevole alla formazione di nuovi equilibri politici ed istituzionali.

lunedì 2 novembre 2009

Di cosa morì il granduca di Toscana?


Francesco I de' Medici, granduca di Toscana dal 1574 al 1587 non fu avvelenato come finora si era creduto, ma morì di malaria. Nelle sue ossa sono state trovate tracce dell'agente della malaria perniciosa che avvalorano le testimonianze dell'epoca.
Lo studio in merito è stato pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Archeologia Viva" a firma del professor Gino Fornaciari, paleopatologo dell'Università di Pisa.
Il giallo di Francesco I dura dal lontano 19 ottobre 1587, quando morì improvvisamente, all'età di 46 anni, nella villa di Poggio a Caiano, in provincia di Prato. I medici di corte scrissero che il sovrano era stato vittima di un attacco di malaria ma la voce popolare mormorava che, in realtà, il granduca fosse stato vittima dell'arsenico, a causa dei dissapori che lo separavano dal fratello Ferdinando che, si diceva, aspirava a subentrare sul trono granducale pur essendo cardinale di Santa Romana Chiesa. La moglie di Francesco I, Bianca Cappello, morì il giorno dopo il marito e, sempre secondo la voce popolare, era stata avvelenata anche lei.
Quest'anno, invece, si hanno i risultati delle analisi sui resti del granduca, effettuate dalla Divisione di Paleopatologia dell'Università di Pisa, in collaborazione con il Laboratorio di Parassitologia dell'Università di Torino. Un esame condotto su alcuni campioni di osso spugnoso di Francesco I, mirante a verificare la presenza di Plasmodium falciparum, agente della malaria perniciosa è risultato positivo. La malattia che pose fine alla vita del granduca di Toscana era tra le più frequenti cause di mostre, tanto che aveva già portato nella tomba due fratelli di Francesco, i piccoli Giovanni e Garzia, nonché la stessa madre del granduca, Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I, fondatore del granducato.

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