giovedì 31 dicembre 2009

Il Mandylion

Il Mandylion, o Immagine di Edessa, era un telo che si venerava tra le comunità cristiane orientali. Su questo telo si diceva essere impresso il volto del Cristo. Dal momento che si pensava fosse di origine miracolosa, era appellata acheropita, vale a dire "non fatta da mano umana".
Inizialmente il Mandylion era conservato ad Edessa di Mesopotamia (oggi Urfa, in Turchia), da qui venne traslato a Costantinopoli dove rimase fino al 1204, quando se ne persero le tracce nel saccheggio della città a seguito della IV crociata.
Eusebio di Cesarea, a proposito del telo, narra che il toparco (cioè governatore o re) di Edessa Abgar V Ukkama ("il Nero"), era malato di lebbra e di gotta. Aveva provato ogni rimedio e consultato diversi medici senza ottenere alcun risultato. Saputo che Gesù operava miracoli gli mandò un suo inviato, Hanna (o Anania) a chiedergli di recarsi ad Edessa. Gesù non andò, ma inviò al suo posto una lettera. Un'altra fonte narra, invece, che Abgar volle che gli fosse recapitato un ritratto di Gesù, per cui il messaggero che aveva inviato doveva osservare le sue sembianze per riprodurle. Gesù, però, consegnò al messo un asciugamano sul quale si era asciugato il viso lasciandovi l'impronta. L'asciugamano sarebbe stato, poi, ripiegato quattro volte doppio (ràkos tetràdiplon) e sarebbe stato chiamato sindon o mandylion. Abgar, ricevuto il telo miracoloso, guarì dalla sua malattia.
Giovanni Damasceno (morto nel 749), menziona l'immagine quando scrive in difesa delle icone. Egeria, pellegrina ad Edessa ne 384, riferisce che il vescovo della città, nel farle visitare i luoghi più importanti, la condusse alla Porta dei Bastioni dalla quale era entrato Hanna, il messo di Abgar. Ma non fa menzione dell'immagine miracolosa.
La prima menzione esplicita del Mandylion risale a Niceforo Callistas che, nel suo "Storia Ecclesiastica", racconta l'invio dell'icona a re Abgar, senza ulteriori specificazioni
Al VI secolo d.C. risale un'informazione più completa, riguardante la presenza del Mandylion ad Edessa. Nel 544 la città subì l'assedio dei Sasanidi guidati da Cosroe I Anushirvan. Una visione si presenta ad Eulavio, vescovo della città: l'esistenza della sacra immagine celata in un muro. Secondo le fonti storiche, il Mandylion sarebbe stato rinvenuto, durante i lavori a seguito di una terribile inondazione del Daisan, il fiume che attraversa Edessa, in una nicchia dentro un muro sovrastante una porta città. Procopio di Cesarea accenna a questa inondazione. Altri autori ritengono, invece, che il Mandylion sia, in realtà, la Sindone e sia giunta ad Edessa solo nel 540, proveniente da Antiochia, assediata, a quel tempo, sempre da Cosroe I.
Il Mandylion rimase ad Edessa anche quando la città fu occupata dai musulmani. Temendo, comunque, per la sua sorte, nel 944 il domestikos (generale) bizantino Giovanni Curcuas, in cambio di 200 prigioneri musulmani e 12.000 corone d'oro, riuscì a riprendere il Mandylion ed a portarlo a Costantinopoli, dove il suo arrivo fu celebrato solennemente dal basileus Costantino Porfirogenito.
Nel 1204 la IV crociata si concluse con il saccheggio di Costantinopoli e la sparizione del Mandylion, di cui si sono per sempre perse le tracce. La reliquia fu descritta, per l'ultima volta, con dovizia di particolari dal cavaliere picardo Robert de Clary nel suo "La conquete de Constantinople". De Clary aveva partecipato alla conquista della città.
Esistono, ad oggi, due oggetti che si contendono il titolo di vero Mandylion: uno si trova a Genova e l'altro a Roma. Ma sono oggetti la cui datazione storica risale rispettivamente al XIV ed al XVII secolo. Anche la Sindone custodita a Torino è, da molti, ritenuta il vero Mandylion.

mercoledì 30 dicembre 2009

L'alto sacerdote ed i suoi dei

L'Instituto Nacional de Antropologia e Historia sta studiando il primo testo geroglifico Maya che narra la vita di un alto sacerdote vissuto a Comalcao, nello stato di Tabasco (Messico) nell'VIII secolo.
Il testo studiato è composto di 260 glifi e narra 14 anni della storia dell'uomo, i sacrifici offerti e gli atti penitenziali posti in essere prima del solstizio d'estate. Lo scritto è stato ritrovato in un'urna funebre che conteneva anche i resti dell'uomo, avvolti in un tessuto rosso ed un'offerta avvolta in una pelle di giaguaro. Quest'offerta consisteva in 90 orecchini a conchiglia, tra i quali 34 pezzi che mostrano, ciascuno, dai 4 ai 6 glifi, e 30 lische di manta gigante, 25 delle quali avevano incisi altri glifi. Uno di questi glifi fa riferimento alla data moderna del 31 gennaio del 771. Gli studiosi ritengono che i sacerdoti Maya usassero bucarsi il lobo dell'orecchio, la lingua, la fronte, il pene ed altre parti per indurre uno stato allucinogeno nel quale credevano di poter dialogare con gli dei.

Il Teatro di Baia


Il teatro romano di Baia è stato identificato, grazie all'ausilio dei satelliti, a pochi metri dalla linea di costa. Accanto ai resti del teatro, vi sono quelli di un'opera muraria che ancora deve essere adeguatamente indagata.
Nei fondali della collina del Castello Aragonese sono stati, dunque, identificati dei resti di una struttura dalla forma geometrica a semicerchio che ricordano la forma del teatro romano di età imperiale. La struttura si trova a pochi metri di profondità e poteva ospitare fino a 5000 spettatori. Molti elementi inducono gli studiosi a pensare che si tratti del cosiddetto Teatro di Cesare, facente parte del contesto più ampio di una Villa di Cesare inglobata, successivamente, nell'attuale Castello Aragonese. Del resto è Tacito stesso a descrivere la villa di Cesare come disposta su un'altura a dominare il golfo.

martedì 29 dicembre 2009

La residenza imperiale di Massenzio


Il grandioso complesso legato all'imperatore Massenzio, sull'Appia antica, è fatto comunemente risalire al IV secolo, in particolare agli anni che vanno dal 308 al 312 d.C., quando l'imperatore acquistò la proprietà degli immobili precedentemente posseduti dalla famiglia degli Annii. Il complesso fu, immediatamente, articolato in tre elementi funzionali distinti architettonicamente: il mausoleo imperiale, il circo ed il palazzo imperiale.
Il circo fu con sicurezza attribuito a Massenzio grazie al rinvenimento, durante gli scavi del 1825, di un'iscrizione con la dedica a Romolo, figlio dell'imperatore, morto prematuramente nel 309 d.C.. Il palazzo imperiale nacque dalla rielaborazione di un impianto più antico, di tipo residenziale, che sorgeva a 200 metri dalla via Appia. Indagini archeologiche eseguite negli anni Sessanta del 1900, hanno permesso di tracciare con più accuratezza la storia della villa rustica prima che si trasformasse in residenza imperiale. La costruzione apparteneva, con certezza, al periodo tardorepubblicano. Lo si è dedotto anche grazie al ritrovamento delle strutture di un criptoportico, lunghe 115 metri. L'approvvigionamento idrico era assicurato tramite l'escavazione di pozzi che, nelle fasi successive, risultano rimpiazzati da cisterne.
Al I secolo d.C. si colloca, con buona approssimazione, la costruzione di due ambienti destinati, con tutta probabilità, a ninfei e di una grande cisterna d'acqua nel settore orientali. Durante la media età imperiale venne creata una scenografia piuttosto elaborata che fronteggiava la via Appia e vennero innalzati due torriioni circolari ai lati del criptoportico.
Nell'ultima fase costruttiva si ebbe una trasformazione radicale del complesso, soprattutto sotto il profilo dell'organizzazione degli spazi abitativi. E' in questo momento storico che si passò dalla villa rustica al palazzo imperiale. Il complesso edilizio venne, dunque, dotato di una sala absidata ed ambienti annessi ed il palazzo venne strutturato in stretta connessione con il circo. Quest'ultimo fu edificato in opera listata, per una lunghezza complessiva di 490 metri ed una larghezza di 92. Sul lato che guarda l'Appia furono collocati i dodici carceres, dai quali partivano i carri, ai lati di un ampio arco di ingresso. Alle due estremità di questa facciata sorgevano due torri di pianta quadrata divise in tre piani. Le gradinate, che potevano ospitare fino a 10.000 persone, poggiavano su una volta oggi in parte crollata. La tribuna dove si trovava il pulvinar, il luogo dal quale Massenzio assiteva alle corse, era collocata a nord ed è costituita da un ambiente rettangolare, collegato con un vano circolare di raccordo con i vani del palazzo. Da ricordare che le fazioni che correvano nel circo romano erano, solitamente, quattro: l'Albata (bianca), la Russata (rossa), la Pràsina (verde) e la Vèneta (azzurra). La corsa aveva inizio quando il magistrato preposto dava il via lasciando cadere la mappula
La spina del circo è lunga circa 296 metri ed era, un tempo, limitata da metae semicircolari. Al centro è ancora visibile la massicciata sulla quale si elevava l'obelisco detto di Domiziano, forse trasportato qui dall'Iseo di Campo Marzio, che papa Innocenzo X fece trasportare, nel 1648, sulla fontana del Bernini a piazza Navona (la cuspide è ai Musei Vaticani).
Una rilevanza non secondaria, nel complesso imperiale di Massenzio, ha il Mausoleo di Romolo, un edificio rotondo a due piani e avancorpo rettangolare. La camera funeraria vera e propria era composta da un vano circolare circondato da un corridoio anulare coperto con volta a botte, arricchito di nicchie per sarcofagi lungo il muro perimetrale. Attualmente l'edificio è inglobato in un altro più moderno, un casolare anteriore al 1763. Un tempo era circondato, invece, da un vasto quadriportico.
Dal I al II secolo d.C., in quest'area, si era sviluppata una necropoli con edifici a camera allineati in file parallele, lungo stradine secondarie. Alcune di queste costruzioni sono tuttora visibili nel settore antistante il circo di Massenzio, tra questo ed il Mausoleo di Romolo. L'edificio meglio conservato, tra queste strutture, è un colombario ipogeo di pianta quadrata, dotato di una scala in mattoni che permetteva di superare il dislivello tra il piano interno e la quota esterna. L'ipogeo risale alla prima metà del II secolo d.C. e venne utilizzato almeno fino al III secolo, quando uno dei fruitori, divenuto cristiano, si fece realizzare, nella camera funeraria, un ampio sepolcro a cassa in muratura, decorato con scene tratte dal ciclo di Giona.
Alla morte dell'imperatore la proprietà comprendente il palazzo imperiale passò, con tutta probabilità, a Costantino. In seguito divenne possesso della vicina chiesa di S. Sebastiano, poi dei conti di Tuscolo, dei Cenci e dei Torlonia. Di tutti gli edifici del complesso imperiale il palazzo è quello che si è conservato peggio. Ne rimangono solo le parti absidali di tre grandi ambienti: quello centrale, conosiciuto come Tempio di Venere e Cupido, è il centro dell'intera costruzione, proabilmente l'aula palatina destinata alle udienze, quella che fu costruita per prima quando la villa rustica divenne proprietà imperiale.

Alberi...biblici


Quando un piccolo seme di quercia iniziò a svilupparsi e crescere, in California, erano "appena" 13.000 anni fa. Da allora ha continuano, seppure sotto forma di clone, a vivere fino ad oggi.
Dieci anni fa Mitch Provance si interessò ad un gruppo di alberi di quercia che non si trovavano in un ambiente a loro consono (una quota più alta del solito) e poi erano simili gli uni agli altri. Quest'ultima caratteristica fece pensare a Provance che potesse trattarsi di cloni ed iniziò a studiarle più da vicino. Per datare la prima pianta cresciuta in quel luogo, i ricercatori sono risaliti a cicli di vita che quella macchia ha avuto. Li hanno contati, considerando che ciascuno è di 40-50 anni e che per incendi o per altri motivi terminano la loro vita rinascendo all'interno della macchia stessa per poi allargarsi. In questo modo sono riusciti a determinare l'età della pianta-origine: tredicimila anni.
Vi sono dei ricercatori che hanno dubbi sul metodo utilizzato per pervenire a questa datazione. Fino ad oggi la più antica pianta conosciuta era una conifera scoperta al confine tra la Svezia e la Norvegia, che risalirebbe a 9000 anni fa. A questa pianta segue "Matusalemme", un pino Bristlecone, che vive vicino Las Vegas, di "appena" 5000 anni. Altri alberi di una certa età vivono in Iran, tra i quali un esemplare di cipresso di 4000 anni. Un altro cipresso di 3600 anni vive in Cile.
In Italia il Corpo Forestale dello Stato ha individuato l'albero più antico della nostra penisola: l'oleastro di San Baltolu di Luras, in provincia di Sassari, con i suoi 3000 anni di età. Questo bell'esemplare di Olea europaea oleaster (olivo selvatico) ha 15 metri di altezza ed 11 di circonferenza.

Le veneri di Hippum


Tre statuette di Venere, dea dell'amore, sono state ritrovate in uno scavo presso Sussita (detta anche Hippus, Hippum od anche Hippon), in Israele. Risalgono a 1500 anni fa, periodo oscuro di transizione tra l'impero romano e la cristianità.
Gli archeologi Artur Segal e Michael Eisenberg, che hanno diretto gli scavi, ritengono che queste statuette siano l'attestazione dell'esistenza di culti pagani in piena decadenza romana e mentre il culto del Cristo era in espansione.
Le statuette sono alte 23 centimetri e sono scolpite nella pietra. Rappresentano una delle varianti della dea dell'amore, la Venus Pudica, che si protegge le parti intime con una mano. L'area in cui sono state ritrovate le statuette fu devastata da un terremoto nel 749 d.C..
La città di Antiochia Hippos venne fondata sotto uno sperone di roccia a forma di testa di cavallo, estremamente difendibile, ad opera forse dei Seleucidi che erano in conflitto con i Tolomei. In epoca romana la città si chiamò Antiocheia ad Hippum e divenne parte della Decapoli.

lunedì 28 dicembre 2009

Dolce dono degli dèi, re del Symposium

Fino al 10 gennaio 2010 è allestita, a Firenze, nel Museo Archeologico Nazionale, la mostra "Symposion" che mira a cercare le radici culturali dell'identità comune legata alla coltivazione della vite ed alla produzione del vino.
La mostra è molto didattica nelle spiegazioni dell'origine del vino, della sua produzione in Grecia, Etruria ed a Roma, del suo consumo e del suo commercio ma è anche l'occasione per mostrare dei reperti di straordinaria importanza, come il corredo da simposio della Tomba 1 della Necropoli di San Cerbone a Populonia ed il celeberrimo Vaso François.
La mostra vera e propria parte dalle origini, dalle prime testimonianze archeologiche di una produzione di vino: il sito neolitico di Hajji Firuz Tepe, nei monti Zagros settentrionali, in Iran (IV millennio a.C.), da cui provengono tracce di acido tartarico, componente del vino contenuto negli acini d'uva, e di resina vegetale. Questa è la traccia, nonchè la testimonianza, più antica della produzione del vino.
I reperti in mostra spaziano dal mondo greco (kylikes, coppe su basso piede; oinochoai, brocche dalle quali si versava il prezioso liquido; kantharoi, coppe su alto piede ed alti manici). Questi reperti sono legati al vino sia per la loro funzione specifica che per la loro decorazione, scene tratte dal mondo del simposio, il momento conviviale in cui la mescita del vino era il momento fondamentale. E, soprattutto, scene dionisiache, perchè fu proprio Dioniso ad importare in Grecia la coltivazione della vite e la produzione del vino. Sui vasi, con Dioniso, compaiono cortei di satiri e menadi che raccolgono l'uva e preparano il vino.
In Etruria Dioniso diventa Fufluns e l'idea del simposio passa nella raffinata società italica. Le tombe etrusche contenevano splendidi e ricchissimi corredi di vasi in bucchero fine o pesante, in ceramica etrusca sovradipinta, destinati al simposio come vasellame di metallo simile ai simpula, che servivano per attingere il vino dai grandi crateri dipinti. In Etruria il simposio, al contrario che in Grecia, era aperto ad uomini e donne indistintamente.
Dal mondo romano la mostra espone una lastra "campana", vale a dire una lastra fittile di rivestimento parietale, nella quale compaiono dei satiri vendemmianti, un soggetto assai popolare per questo genere di oggetti. E' anche esposta la ricostruzione di un impianto di produzione del vino, come doveva essere presente in una villa "rustica", i cui esemplari sono sparsi un pò in tutta l'Italia centrale.
La rassegna si conclude con una sezione dedicata al commercio ed al trasporto e contiene una selezione di anfore vinarie di età romana, di varia provenienza, forma ed epoca, rinvenute intatte nel recente scavo delle Navi di Pisa. Al II piano del Museo, all'interno dell'esposizione, molti sono i reperti attinenti la sfera del vino. Vasi in bucchero, oinochoai e vasi dipinti. Tra questi ultimi lo splendido Vaso François, un enorme cratere ritrovato in una tomba di Vulci. Il cratere era il vaso dal quale si attingeva il vino per versarlo nelle singole kylikes, coppe. Sul Vaso François sono rappresentati i principali miti del repertorio greco legati alle ideologie aristocratiche che gli Etruschi fecero proprie. All'epoca romana risale la statua bronzea dell'idolino di Pesaro, un Efebo lampadoforo che, in mano, recava a mò di reggi-lampada, tralci di vite.

sabato 26 dicembre 2009

Scoperte all'interno dell'Abbazia di San Pietro a Modena


Nuovi resti dal monastero modenese di San Pietro. Nel cortile della spezieria del Cenobio Benedettino sono stati ritrovati, pressocchè intatti, la fontana monumentale del XVI secolo, che giaceva sotto uno strato di macerie, e parti delle fortificazioni edificate nell'anno Mille e delle antiche strutture dell'abbazia del 1200.
Gli scavi archeologici, finanziati da Don Paolo Malavasi, parroco di San Pietro, avevano come fine di controllare la consistenza dei depositi archeologici e di verificare la condizione di conservazione della fontana cinquecentesca, situtata al centro del cortile e smantellata nel XIX secolo.
Le indagini hanno anche rilevato l'esistenza di nuove ed importanti testimonianze di un'antica fase di costruzione dell'Abbazia di San Pietro e delle fortificazioni medioevali della città. Il ritrovamento più importante è un massiccio muro di 1,5 metri di ampiezza e 2 metri di profondità, edificato riutilizzando mattoni di età romana. E' probabile che rappresenti un tratto delle fortificazioni dell'anno Mille, che si ricordano in un diploma del 1062, dove l'Imperatore Corrado II il Salico permetteva al vescovo di Modena di ampliare le mura cittadine. Appartengono a queste fortificazioni anche le recenti scoperte in piazzale San Francesco, dove è emerso un ampio tratto di mura.
Quando la città si espanse oltre le fortificazioni cittadine, vennero ricostruiti anche la chiesa ed il cenobio benedettino di San Pietro, impiegando le antiche fortificazioni come fondamenta. In corrispondenza delle strutture difensive, nel cortile della spezieria, è riemerso un ampio edificio con pavimentazione in coccio pesto, costtituito da grossi pilastri e riferibile al refettorio oppure alla Chiesa di San Pietro nella sua ricostruzione del 1200. Questo edificio fu abbattuto verso la fine del XV secolo, quando fu progettata la costruzione dell'attuale edificio sacro.

venerdì 25 dicembre 2009

Una città misteriosa in Giordania

Khirbet ez-Zeiraqoun (o Khirbet ez-Zeraqon) era una città fortificata che occupava 25 ettari di territorio in Giordania. Venne popolata durante l'Età del Bronzo III (2700-2300 a.C.) ed aveva un'importanza notevole, dovuta anche alla sua posizione strategica.
La città era protetta da una cinta muraria di cinque metri di spessore, con torri sporgenti di 17 metri di altezza. Solo il lato est era stato lasciato scoperto, poichè un ripido pendio a valle impediva a qualunque nemico di avvicinarsi.
Una fitta rete di tunnel sotterranei, poi, raccoglieva l'acqua convogliandola in cisterne. Erano profondi anche 100 metri e vi sono stati trovati tre ingressi ed una scala. Come gli antichi siano stati in grado di costruirli senza che crollasse loro sulla testa la roccia soprastante, è tuttora un mistero.
Un altro mistero è costituito dal significato di 130 glifi, la metà dei quali ritrovati nella regione. Sebbene si conoscesse, all'epoca in cui fu costruita Khirbe ez-Zeiraqoun, la scrittura in Mesopotamia, Siria ed Egitto, finora non si era mai trovata una testimonianza di scrittura in Giordania. I glifi mostrano schemi, rituali e scene artistiche. Sicuramente alcuni manufatti erano stati importati, ma altri potrebbero, invece, essere di produzione locale. Un edificio scavato nell'antica città, in particolare, sembra essere stato un palazzo oppure un centro amministrativo. Non è molto imponente, si tratta di un vestibolo con stanze rettangolari disposte ai suoi lati.
Dal punto di vista governativo, gli studiosi ritengono che la città avesse un governo centrale che controllava anche gli insediamenti vicini. Non si sa ancora che tipo di religione fosse praticata dagli abitanti dell'antica città. Rimangono solo i resti di templi e le documentazioni testuali dalla Mesopotamia e dalla Siria. Il complesso di templi è stato ritrovato nella parte più elevata della città, con strutture rettilinee ed altari circolari raggruppati insieme. Forse la divinità principale era un dio lunare molto simile a Sin ed un dio solare, divinità entrambe ben attestate in Mesopotamia.
Verso il 2300 a.C., tutte le costruzioni principali erano già fuori uso e l'area della città era occupata solamente da uno stanziamento stagionale. Fu, questo, il periodo in cui anche il potere centrale in Egitto entrò in forte crisi, aprendo la via al primo periodo intermedio. A nord di Khirbet ez-Zeiraqoun, inoltre, la città di Ebla venne distrutta da Sargon di Akkad, il cui impero era in forte espansione verso est. Nel lontano Oriente, la civiltà dell'Indo era anch'essa in forte declino: la popolazione di Harappa si dimezzò e Mohenjo-daro venne abbandonata. Gli studiosi ritengono che la spiegazione più credibile sia un cambiamento climatico che abbia portato ad un aumento della superficie desertificata, soprattutto in Mesopotamia. Khirbet ez-Zeiraqoun non venne più ripopolata, almeno non in modo permanente.

mercoledì 23 dicembre 2009

Kroton e lo splendore della Magna Grecia

Nell'VIII secolo a.C. alcune comunità della Grecia continentale ed insulare, guidate da un oikistès, partirono alla volta dell'Occidente. Qui si stabilirono lungo le rotte percorse a fini commerciali, per l'approvvigionamento soprattutto dei metalli ed instaurarono rapporti con le popolazioni indigene.
La colonia che nasce, viene definita in greco apoikia, per sottolineare il distacco dei suoi cittadini dalla madrepatria, definita metropolis. Le nuove comunità predilessero terreni pianeggianti, prossimi ai corsi d'acqua od alla costa, con buone possibilità agrarie. Gli Achei, che fondarono Sibari e Crotone, mirarono soprattutto allo sfruttamento agricolo; i Calcidesi, che avevano fondato Zancle (Messina), consolidarono il loro controllo delle rotte che passavano dinnanzi allo stretto.
Le colonie greche lungo la costa ionica della Calabria (Sibari, Crotone, Locri Epizefiri) incoraggiarono l'insediamento di altre colonie sullo Jonio (Metaponto, Kaulonia) e la fondazione di sub-colonie che si resero presto indipendenti, sulle coste tirreniche come: Hipponion (Vibo Valentia) e Medma (Rosario), fondate da Locri Epizefiri e Poseidonia-Paestum, fondata dai Sibariti.
Le aree solitamente scelte dai coloni greci per l'impianto di una nuova colonia e dei santuari più noti - come quello dell'Heraion lacinio - erano già frequentate da genti indigene tra l'Età del Bronzo e del Ferro. Lo provano frammenti di ciotole ad impasto dell'Età del Bronzo e della prima età del Ferro, recuperati da strati molto profondi.
I coloni che si insediarono nella città di Kroton hanno lasciato, in eredità ai posteri, frammenti di ceramiche databili fra la fine dell'VIII secolole a.C. e l'inizio del VIII. Sono frammenti di coppe e crateri coevi alla fondazione della città, con fitta trama di motivi geometrici, prodotti a Corinto e poi localmente. Al VII secolo a.C. è attestata una notevole quantità di materiali di importazione e di produzione locale. Dall'Attica giungeva l'olio, nelle anfore cosiddette "SOS". Dalla Grecia insulare e dal mondo greco orientale provengono altre classi di manufatti come unguentari, piatti, coppe. L'artigianato artistico locale si produce nella coroplastica e nelle produzioni a rilievo. Nella coroplastica sono da ascriversi opere di dimensioni di poco inferiori al vero, quali una testa femminile dai marcati tratti ionici, dei primi decenni del VI secolo a.C.. Gli oggetti, però, più documentati sono frammenti di piccole are domestiche, di forma parallelepipeda con basi e cornici aggettanti.
Dopo l'arrivo di Pitagora e la conquista della Sibaritide, la città di Kroton è scossa da un particolare fervore edilizio che coinvolge maestranze specializzate ed altre categorie di artigiani quali i coroplasti, i bronzisti, i fabbri. Testimonianze eloquenti di questo periodo febbrile sono un'antefissa a maschera gorgonica ed i resti di una grondaia (sima) policroma. Sempre più la città importa ceramiche a figure nere ed a figure rosse. Tra gli oggetti di ornamento personale che sono state ritrovate durante gli scavi, sono particolarmente notevoli i resti di una spilla in ferro per fermare le vesti (fibula) decorata con una colomba in osso, di produzione tarantina ed una testina di cane in osso intagliato con sigillo sulla parte piatta.
Cacciato Pitagora, a Kroton si instaurò dapprincipio la tirannide di Clinia, alla quale seguì un ritorno dei Pitagorici e del regime aristocratico. A questo seguì, poi, quello democratico, ostile alla nuova colonia panellenica di Thurii, con la quale pare che Kroton ebbe uno scontro tra il 444 ed il 420 a.C. e che, forse, determinò la nascita della lega achea tra Kroton, Kaulonia e Sibari sul Traente, che aveva il suo centro comune nel santuario di Zeus Homarios (che alcuni studiosi identificano con l'area sacra di Kaulonia) e poi in quello crotoniate di Hera Lacinia. Nel V secolo, con la democrazia, riprese vigore il culto di Eracle, riproposto come vero fondatore (ecista) della città e per questo raffigurato su alcune serie di monete crotoniati in argento e bronzo.
All'inizio del IV secolo a.C. il tiranno di Siracusa, Dioniso I, alleatosi con i Lucani, inflisse una dura sconfitta all'esercito della lega italiota nei pressi dell'antica Caulonia sulle rive del fiume Elleboro (390 a.C.). Tutte le città dell'attuale Calabria, pertanto, passarono nella sfera d'influenza Siracusana. Kroton, ridimensionata territorialmente, si alleò con i Cartaginesi ma un'altra sconfitta della Lega, nel 378 a.C., la città fu presa con l'inganno da Dioniso I. Le conseguenze furono disastrose, per Kroton: il territorio nord della città fu ceduto ai Lucani, fu saccheggiato il tesoro dell'Heraion lacinio per pagare un tributo di guerra ai Cartaginesi e Kroton fu sottoposta al controllo politico ed economico di Siracusa. Tale dominazione terminò nel 356 a.C., quando Dione abbattè il potere dionigiano a Siracusa. Kroton fu, però, costretta a lottare contro la popolazione italica dei Brettii, da poco separatisi dai Lucani. Con Kroton caddero Terina, Hipponion e Thurii.
Kroton decise di sostenere il re epirota Alessandro il Molosso, chiamato da Taranto per combattere gli Italici. Il condottiero morì presso Pandosia e Kroton fu assediata dai Bretti e costretta a nuove alleanze, rivolgendosi ad Agatocle, che finì per dominare la città fino alla sua morte (289 a.C.).

martedì 22 dicembre 2009

Misteriosi Elimi


Non si conosce molto dell'origine della popolazione degli Elimi, stanziati nella parte occidentale della Sicilia. Ellanico di Mitilene, storico del V secolo a.C. riportato da Dionigi di Alicarnasso, racconta che due spedizioni di Italici ripararono in Sicilia prima ancora della guerra di Troia: una formata da Elimi, cacciati dagli Entri, e l'altra - che arriva in Sicilia cinque anni dopo, erano gli Ausoni, cacciati dagli Iapigi.
Tucidite, invece, racconta che, mentre avveniva la conquista di Troia, alcuni Troiani sfuggiti agli Achei, ripararono in Sicilia e si stabilirono in un territorio ai confini con quello dei Sicani formando, successivamente, la popolazione degli Elimi e fondando le città di Erice e Segesta.
Nuovi studi portano a pensare che gli Elimi derivarono, in qualche modo, dai Sicani ed ebbero origine nel corso dell'VIII secolo a.C.. Non è, comunque, ancora possibile delimitare in via definitiva il territorio sul quale gli Elimi erano stanziati.
Le tradizioni riguardanti la fondazione del sito archeologico di Rocca d'Entella parlano delle origini troiane, attribuite prima ad Egeste, figlio del dio fluviale Krimisos e di una troiana e, più tardi, al principe troiano Elimo, figlio naturale di Anchise e, pertanto, fratello di Enea. Le tracce materiali, invece, parlano di un centro già attivo nell'Eneolitico e di una fase di urbanizzazione più tarda. Entella assunse un ruolo particolare all'interno della civiltà artigianale, in quanto si specializzò nella produzione della ceramica - incisa, impressa e dipinta - che rapidamente si diffuse nella Sicilia centro-occidentale dalla preistoria all'età classica.
L'Entella elima compare, dal punto di vista letterario, in occasione di una tragedia che colpì la sua popolazione. Mercenari italici di origine campana, assoldati, nel 410 a.C., dai Cartaginesi prima e dai Siracusani poi, dopo il congedo del 405, si insediarono in varie città della Sicilia. Un gruppo di costoro, giunto ad Entella nel 404 a.C., eliminò l'intero corpo civico della città massacrando la popolazione maschile e sposando le donne di Entella. Costoro si mostrarono a lungo fedeli ai punici, come racconta lo storico Eforo. Nel 365 a.C., però, Entella sostenne il tiranno siracusano Dioniso I e, successivamente, cambiò spesso fronte. Venne, poi, distrutta dai Cartaginesi nel 262 a.C., periodo in cui furono redatti i "Decreti di Entella", documenti in lingua greca incisi su tavole di bronzo che fanno riferimento alle richieste di aiuto della comunità di Entella alle comunità vicine per la ricostruzione della città.
Dopo il primo conflitto punico, Entella passò ai Romani, godendo di un periodo di prosperità. Dal II secolo d.C. la città cadde in rovina e venne abbandonata fino al ripopolamento da parte di Arabi provenienti dalla Tunisia (IX secolo d.C.). La città divenne capitale dell'emirato di Ibn-Abbad durante le rivolte contro Federico II nel 1246. Entella venne distrutta, in seguito, dalle truppe imperiali.
Le mura di Entella erano lunghe circa 2800 metri. Le indagini archeologiche hanno rivelato un muro di fortificazione con un bastione circolare di età tardo-arcaica, riutilizzato in età medioevale a scopo abitativo e funerario. La porta delle mura arcaiche fu riutilizzata dall'età ellenistica fino all'età medioevale, quando fu inserita su di essa una torre.
Nell'area pubblica della città si riconosco due fasi edilizie: la prima degli inizi del V secolo a.C., che vide la realizzazione di un edificio di culto con altare interno, protetto da un grande muro a blocchi parallelepipedi. La seconda fase è rappresentata da un granaio, costruito alla fine del IV secolo a.C. e distrutto da un incendio che lo rese inutilizzabile, cinquant'anni dopo la sua costruzione. Nelle fondazioni del granaio sono state ritrovate una serie di statuette raffiguranti portatrici di porcellino e di fiaccola.
Le necropoli di Entella, invece, si svilupparono fuori dalle mura della città, lungo le vie di accesso alla stessa. Sinora ne è stata indagata solo una, in cui una tomba a pozzetto ellittico senza corredo, ha restituito un'anfora indigena con decorazione impressa. Della seconda necropoli restano solo tombe saccheggiate ed un cippo tardo-arcaico con parte di un'iscrizione greca in caratteri selinuntini. Anche questa necropoli è stata utilizzata in età arcaica fino all'età tardo-ellenistica ed al Medioevo. La presenza di Campani ad Entella è rappresentata da due tombe contigue, una maschile ed una femminile, databili al IV secolo a.C.. Il corredo includeva oggetti di origine italica: un cinturone di bronzo e tre fibule di ferro, di cui una ornata con corallo.

La casa di Cristo?


Nei giorni scorsi, a Nazareth, sono stati ritrovati i resti di una casa databile all'epoca in cui visse Gesù, gli scavi sono stati condotti da un gruppo di archeologi israeliani. Secondo gli studiosi questa è la prima struttura abitativa mai individuata appartenente al periodo storico del Cristo.
La scoperta è stata annunciata dalla professoressa Yardenna Alexandre, direttore del progetto di ricerca archeologica nei territori interessati. La datazione, ha affermato la dottoressa, può essere collocata intorno ai 2000 anni orsono. L'edificio è molto modesto ma appartiene ad una tipologia comune ai villaggi di quel periodo.
L'ipotesi più suggestiva, avanzata dalla stessa professoressa Alexandre, è che questa casa potrebbe aver visto giocare Gesù ed i suoi amici. Finora erano state trovate solo sepolture risalenti al periodo storico del Cristo, quella ritrovata in questi giorni è la prima abitazione civile.

lunedì 21 dicembre 2009

Mutina oltre la città


L'esposizione che ha, al suo centro, la vita di Mutina-Modena al di là delle mura che la cingevano, è stata allestita nel Lapidario Romano dei Musei Civici, dove sono esposti i monumenti funerari rinvenuti dagli anni '60 ad oggi lungo la via Emilia.
Tra il 2006 ed il 2009 sono state riportate alla luce mura romane in piazza Roma ed un'ara monumentale sulla via Emilia est, che hanno confermato la capacità di attrazione dell'archeologia nei confronti del vasto pubblico. Il Museo Civico Archeologico di Modena e la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia Romagna hanno deciso, pertanto, di mettere in cantiere una nuova iniziativa: "Mutina oltre le mura. Recenti scoperte sulla via Emilia", dedicata ai rinvenimenti più recenti effettuati lungo l'arteria consolare romana, dagli scavi del santuario preromano di Cittanova, che ha restituito venti splendide antefisse in terracotta con teste femminili, a quelli della tangenziale Pasternak, da dove proviene il leone in pietra ritrovato nel 2009.
Il centro dell'esposizione è l'imponente fregio con corteo marino che, in origine, decorava un grande monumento funerario ritrovato nel 2007 a breve distanza dal monumento di Vetilia, sulla via Emilia est, risalente alla fine del I secolo a.C.. Il rilievo è composto da quattro blocchi di pietra ed ha uno sviluppo, frontalmente, di quasi cinque metri. Presenta un corteo in cui si alternano mostri marini, ippocampi e pesci aggiogati a carri o cavalcati da Nereidi ed Amorini. Del monumento originario, che fu smantellato già in età tardoantica, sono stati recuperati numerosi frammenti: capitelli corinzi, elementi di architravi, cornici e porzioni della copertura.
In occasione della mostra, sarà possibile navigare su internet sul percorso dell'antica consolare romana all'indirizzo web Aemilia on line, che permetterà di esplorarla attraverso google map nelle scoperte archeologiche recentemente effettuate.

Info: Lapidario Romano dei Musei Civici - Tel. 059.2033100-125
Periodo: dal 20.12.2009 al 27.6.2010
Orari: dalle ore 8.30 alle ore 19 - ingresso gratuito

Un'importante scoperta è stata effettuata, recentemente, nel territorio di Sipicciano, grazie, anche, all'attività di ricerca, valorizzazione e tutela dei beni culturali promossa dall'associazione Archeotuscia in tutto il territorio della provincia.
Alcuni membri dell'associazione hanno individuato, a poca distanza dal piccolo borgo della Teverina, un vasto contesto abitativo di epoca romana documentato da cospicue testimonianze archeologiche emerse a seguito dell'aratura del terreno. L'intervento tempestivo dell'ispettore della Soprintendenza archeologica per l'Etruria meridionale, Angelo Timperi, prontamente avvertito, ha scongiurato danni profondi al ritrovamento.
Quello che è emerso è parte di una ricca villa rustica che occupava una superficie di duemila metri quadrati, della quale sono stati individuati numerosi ambienti, pavimentati anche a mosaico, pozzi, fognoli, canalizzazioni di piombo e terracotta, nonchè monete e reperti fittili. L'insediamento rimase in uso per almeno cinque secoli, dal I secolo a.C. al IV secolo d.C..
Ha suscitato grande interesse il ritrovamento di una singolare costruzione circolare in opus caementicium, dal diametro di circa 20 metri e profonda 3, la cui funzione è tuttora da indagare e che, probabilmente, era connessa con scopi idraulici, come testimonia anche un adiacente ambiente rettangolare, collegato alla costruzione, nel cui pavimento si aprono quattro fori praticati in altrettanti blocchi squadrati di travertino. Fori che mettono in comunicazione l'esterno con alcuni ambienti sottostanti.

domenica 20 dicembre 2009

Chiusi, "biografia" di un'antica città etrusca

Il nome attuale della città di Chiusi, in Toscana, deriva dal latino Clusium che, attraverso Cousiom, derivava a sua volta dall'etrusco Clevsi.
In etrusco Clevsins o Clevsina è attestato come cognomen, anche in latino, nella forma Clepsina (Gaius Genucius Clepsina, console nel 276 e nel 270 a.C., e Lucius Genucùlus Clepsina, fratello del primo, console nel 271 a.C.).
Tito Livio riferisce che, tempi addietro, la città si chiamava Camars. Sulla stele etrusca di Saturnia, risalente al VI secolo a.C., compare la forma Kamarte che non è mai stata attestata prima. Il Pallottino pensava che Kamarte potesse collegarsi ai Camertes Umbri.
Stando ai Fasti Trionfali del 588 a.C., il re di Roma Lucio Tarquinio Prisco celebrò il suo secondo trionfo dopo aver sconfitto in battaglia un forte esercito etrusco inviato in aiuto ai Latini che si erano coalizzati per bloccare le mire espansionistiche dei Romani. Dionigi di Alicarnasso aggiunge che l'esercito etrusco era formato da contingenti di varie città etrusche: Chiusini, Arretini, Volterrani, Rosellani e Vetuloniesi.
Nel 509 a.C., dopo la sua caccia da Roma, Tarquinio il Superbo fuggì con i figli Arrunte e Tito nell'etrusca Cere. L'anno successivo l'ex famiglia reale si stabilì a Chiusi, dove regnava Porsenna. Tito Livio fornisce il nome completo di questo re: Larte Porsenna (in latino Lars Porsenna). I prenomi etruschi Larth e Aranth (o Arunth) erano tra i più diffusi, in Etruria. Il gentilizio Porsenna presenta la terminazione "-na" dei nomi di famiglia etruschi.
Tito Livio informa che, nel 508 a.C., Porsenna prese a marciare contro Roma per instaurare nuovamente in essa la stirpe dei Tarquini. Il panico invase la città del Tevere ed il Senato, poichè il nome di Porsenna era ben noto. Plinio il Vecchio, infatti, informa che il potere del re etrusco di Chiusi si estendeva anche su Volsinii e sul suo territorio, al punto da venir appellato "re dell'Etruria". La storia di Porsenna e dell'assedio di Roma può essere, dunque, alla luce di quanto si sa, essere letto come il tentativo di instaurare la supremazia sul Lazio e sulla via per Capua e la Campania. Probabilmente Porsenna riuscì comunque ad ottenere una resa condizionata di Roma, che portò ad un'occupazione temporanea della città da parte del re di Chiusi. In questo lasso temporale si deve inscrivere la spedizione militare guidata da Arrunte Porsenna, figlio del re di Chiusi, contro Aricia. La città chiese ed ottenne l'aiuto degli alleati Latini grazie ai quali sconfisse gli assedianti etruschi. Arrunte Porsenna perì nello scontro ed i sopravvissuti trovarono rifugio a Roma che, appare chiaro proprio da questo episodio, era ancora sotto la supremazia di Chiusi. Questi rifugiati si stabilirono nell'area che fu poi detta, proprio dalla loro origine, vicus Tuscus (quartiere etrusco).
Plinio richiama un passo di Terenzio Varrone che descrive nei dettagli il favoloso sepolcro di Porsenna, un'opera monumentale costituita da un corpo centrale con un labirinto inestricabile di cunicoli e formato da più piani di piramidi e cuspidi sovrapposte.
Nel 391 a.C., quando la grandezza di Roma cominciò ad essere più evidente, Livio riporta notizia di una richiesta di aiuto da parte degli ambasciatori chiusini contro la calata di orde galliche. Si diceva che queste orde fossero state chiamate da Arrunte, cittadino di Chiusi, per vendicarsi di Lucumone, giovane di nobile famiglia di cui era tutore, che gli aveva sedotto la moglie. Comunque sia andata, i chiusini, spaventati dall'imprevisto ed improvviso pericolo che si presentava con guerrieri di alta statura ed assai numerosi, sebbene non avessero alcun patto di alleanza con i Romani, inviarono al Senato dell'Urbe un'ambasceria per chiedere aiuto e sostegno. Molti studiosi ritengono che questo episodio sia piuttosto inverosimile. Ma Livio continua, informando che i Romani inviarono tre legati, i tre figli di Marco Fabio Arnbusto, vale a dire Numerio, Cesone e Quinto) a parlamentare con i Galli che avrebbero consentito alla pace in cambio di una parte dell'agro dei chiusini, che avevano più terra di quanta ne potessero coltivare. Avendo rifiutato il patto, i Romani dichiararono guerra ai Galli che finirono per ritirarsi.
Diodoro Siculo e Dionigi di Alicarnasso, invece, sostengono che Roma avrebbe inviato solo due ambasciatori a Chiusi, il cui intento era spiare le mosse dei Galli. Avendo gli stessi, poi, partecipato agli scontri con questi ultimi, furono salvati dalla condanna a morte solo dal prestigio della gens alla quale appartenevano. Questi furono, secondo gli scrittori romani, gli antefatti che portarono al saccheggio di Roma da parte dei Galli nel 390 a.C..
Durante la terza guerra sannitica, Livio riferisce di una grave sconfitta subìta dai Romani presso Chiusi, nel 295 a.C.: l'intera legione comandata dal propretore Lucio Cornelio Scipione (console nel 298 a.C. e bisnonno di Publio Cornelio Scipione l'Africano), venne annientata dai mercenari Galli al soldo degli Etruschi. Poco dopo un altro contingente romano saccheggiò il territorio chiusino, costringendo la lega etrusca a muoversi per difendere il territorio della dodecapoli. Fu proprio questa decisione a determinare la definitiva vittoria dei Romani sui Sanniti, nel 295 a.C.. Gli Etruschi, allora, stipularono una tregua quarantennale con la clausola del pagamento a Roma di una penale di cinquecentomila assi per ciascuna città della lega. Vel Lathites era il nome del capo della lega etrusca, colui che comandò l'esercito etrusco nella "battaglia romana" (rumit-rine-mi). Era, questi, un appartenente alla famiglia Leinies di Volsinii. Il suo gentilizio Lathites indica che egli fu adottato dai Lathites (o Latithes o Latites) di Chiusi.
Durante il successivo periodo di espansione romana, Chiusi non subì grandi vessazioni. Nel 205 a.C., in qualità di alleata, contribuì alla costruzione della flotta di Scipione l'Africano con il legno di abete per lo scafo delle navi ed una notevole quantità di frumento. Plinio il Vecchio informa che Silla vi dedusse una colonia.

venerdì 18 dicembre 2009

Atlantide precolombiana?


Un gruppo di archeologi ha scoperto le rovine di un'antica città sui fondali del Mar dei Caraibi. L'ubicazione è ancora segreta ma, secondo alcune voci, la città sarebbe addirittura più antica delle piramidi di Giza. Si torna a parlare di quell'Atlantide che tutti, studiosi compresi, continuano a cercare ed a sperare di trovare.
Le immagini satellitari della città mostrano qualcosa di completamente diverso dalla città sommersa che fu scoperta, da una missione russo-canadese nel 2001, nelle acque al largo di Cuba.
Gli studiosi hanno individuato una struttura simile ad una sottile piramide, un'altra con pali paralleli in piedi e travi tra le macerie, praticamente un edificio in rovina. Nessuno si spiega come questa città abbia potuto essere stata sommersa dalle acque.
Le prime tracce di una possibilie città sommersa emergono per la prima volta nei Caraibi, nel 2001, al largo di Cuba. La storia cadde presto, però, nel dimenticatoio. In un libro del 2000, Andrew Collins ipotizza che Cuba sia stata al centro di una vasta civilità pre-colombiana, molto simile ad Atlantide. Ivor Zapp e George Erikson, nel loro libro intitolato "Le strade di Atlantide", mettono il Costa Rica a capo di un impero marittimo molto avanzato.

mercoledì 16 dicembre 2009

I nonni degli scacchi

Attualmente il più antico gioco da tavolo, datato 3500 a.C., è il senet egiziano, che viene menzionato nel Libro dei Morti. Si credeva che i vincitori fossero protetti da potenti déi, Ra, Thoth ed Osiride.
Il senet si giocava su una plancia di trenta caselle, mentre, sul retro, una seconda plancia di venti caselle veniva utilizzata per un altro gioco chiamato tjau, del quale non si conoscono con certezza le regole del gioco.
Quattro set per giocare a senet sono stati scoperti nella tomba di Tutankhamon, ricavati dall'avorio lavorato a mano nel 1333 a.C..
Rivale del senet sono gli scacchi dell'isola scozzese di Lewis, costituiti da 78 pezzi di origini nordiche scolpiti nell'avorio di tricheco e nell'osso di balena. Questi scacchi risalgono al XII secolo d.C. e, forse, sono gli unici esempi ad oggi esistenti di scacchi medioevali. Alcuni studiosi ritengono, però, che quelli dell'isola di Lewis non siano dei veri e propri scacchi. Secondo una recente ricerca i pezzi avrebbero potuto essere utilizzati per il Hnefatafl, un gioco medioevale di guerra molto praticato in Scandinavia e molto simile agli scacchi, sebbene giocato su una plancia più grande e con più pezzi (8 re, 8 regine, 16 vescovi, 15 cavalieri, 12 torri e 19 pedoni).
E' probabile che gli scacchi di Lewis siano stati persi od abbandonati da qualche mercante nordico. Attualmente 67 pezzi sono conservati al British Museum, mentre gli altri 11 si trovano al Royal Museum of Scotland.

Mirabilia Urbis

Durante alcuni scavi per la costruzione della nuova sede dell'Ente di Previdenza dei Medici, sono stati scoperti i resti di una villa appartenuta all'imperatore Caligola.
I resti sono tornati alla luce nel quartiere romano dell'Esquilino, nei pressi di Piazza Vittorio, a Roma, e riguardano un nuovo settore degli horti lamiani, appartenuti all'imperatore.
Le indagini archeologiche hanno permesso di intercettare una grande aula pubblica che, in origine, era pavimentata con lastre di marmo ed alcuni ambienti di servizio, di cui uno pavimentato con mosaico. E' stato ritrovato anche un tratto della via basolata che si congiungeva all'antica via Labicana, nonchè un ingresso monumentale ed una scala di marmo posta al centro di due lunghi muri.
Gli scavi hanno permesso di recuperare rivestimenti marmorei, monili d'oro, gemme, pregevoli intonaci pertinenti gli arredi della villa. Tra i ritrovamenti più interessanti, i capitelli con marmi e calcari colorati, alcuni dei quali sono identici a quelli già attribuiti ad un fastoso corridoio rinvenuto al di sotto di via Emanuele Filiberto ed oggi visibili ai Musei Capitolini.

Un'altra sindone...

Una squadra internazionale di archeologi ha trovato un altro sudario dell'epoca del Cristo. Il rinvenimento è avvenuto negli scavi d'una tomba a Gerusalemme est, diversi mesi fa, nel cosiddetto Campo di Sangue, dove, secondo il Vangelo, Giuda Iscariota si impiccò dopo averlo acquistato con in trenta denari ricevuti dai sacerdoti.
Il telo è stato studiato a lungo con il radiocarbonio, alla ricerca di spore e di tracce di Dna. Le parti del lenzuolo ritrovate, appartenenti ad un sudario usato per seppellire i morti al tempo di Gesù, mostrano che a Gerusalemme questi manufatti erano intessuti in modo molto semplice. Questo, secondo gli studiosi, dimostrerebbe che la Sindone è un falso, in quanto il suo ordito è molto più complesso, con più fili ed anche perchè fu introddo in epoca successiva.
Nel frattempo la Sindone è in attesa dell'ostensione pubblica del 2010. I ricercatori che hanno analizzato il nuovo telo, sono partiti dal racconto di Matteo e degli Atti degli Apostoli per individurare il Campo di Sangue e dell'antico cimitero di Gerusalemme, in aramaico Akeldamà. La tomba dalla quale è stato estratto il telo è emersa vicino a quella di Hannah, sommo sacerdote del Sinedrio, che, secondo il Vangelo, finì per consegnare Gesù ai Romani. Apparterrebbe, secondo quel che si è capito, ad un aristocratico, forse un altro sacerdote. Le sue ossa mostrano che era malato di lebbra.
I frammenti del sudario, in cotone, furono filati a mano. A differenza della Sindone (che ha una torcitura a forma di zeta ed una trama a spina di pesce, tipiche di Grecia ed Italia nonchè dell'epoca medioevale) il nuovo sudario è tessuto in modo estremamente semplice, come si usava nella Palestina del I secolo d.C..
Sono almeno quattro i resti di stoppa da sudario dell'epoca del Cristo, trovati negli ultimi decenni a Gerusalemme e dintorni. Undici anni fa, proprio nel Campo di Sangue, era stato rinvenuto un telo funebre, conosciuto come la Sindone di Akeldamà, che molti archeologi ritengono sia un'altra prova della non autenticità della Sindone di Torino. Il lenzuolo è separato rispetto ad un fazzoletto, che, secondo la pratica dell'epoca serviva ad avvolgere il solo viso.

domenica 13 dicembre 2009

Ascesa e declino di una colonia magnogreca: Sibari-Thurii


La colonizzazione greca interessò la penisola italica intorno all'VIII secolo a.C., in particolare le regioni del sud Italia, Campania, Calabria e Sicilia.
Sibari è la prima colonia fondata da Achei, greci provenienti dall'Acaia, una regione del Peloponneso. Il fondatore della città, in greco ecista, fu Is di Elice e Sibari nacque ufficialmente nel 720 a.C. a sud del golfo di Taranto, sulla fertile vallata alla foce degli odierni Crati e Coscile, che in antico ebbero il nome di Krathis e Sybaris. Proprio da quest'ultimo fiume prese nome la città.
I fiumi ed il massiccio del Pollino favorirono lo svilupparsi della colonia che, in breve tempo, divenne la più importante e potente città della Magna Grecia. Nel VI secolo a.C. Sibari si estendeva per 50 stadi (500 ettari circa) e contava una popolazione di 100.000 abitanti. Era molto vicina al mare ed aveva anche un porto fluviale, comodo riparo per il ricovero delle navi. Questo favorì, ovviamente, il proliferare dei commerci e degli scambi, al punto che Sibari divenne una tappa importante per i naviganti che approdavano sulle coste ioniche della Calabria.
I coloni sibariti seppero sfruttare sia le risorse agricole che le altre risorse naturali di cui la regione era ricca, come il legname dell'altopiano della Sila. Non secondario al florido sviluppo della colonia furono le miniere di argento e di altri metalli, collocate nell'entroterra.
Il sempre maggiore bisogno di terra portò i sibariti a scontrarsi con gli Enotri, antichi abitatori della zona e delle colline circostanti, che furono rapidamente sconfitti e costretti a rifugiarsi nell'entroterra. Sibari, dunque, cominciò a tessere una proficua tela di alleanze con i centri ed i popoli a lei vicini. Strabone ricorda che la città impose la sua sovranità a quattro ethnè (popoli) e ben 25 città. Un'importante testimonianza epigrafica, il trattato sui Serdaioi (forse i Sardi), inciso su una lamina deposta ad Olimpia, conferma quanto scritto nelle fonti.
Verso la fine del VI secolo Sibari fonda, sulla costa tirrenica, le colonie di Poseidonia (Paestum), Laos (Marcellina) e Scidro. Sulla costa ionica, invece, innalzò Metaponto. La città, quindi, si alleò con Crotone e Metaponto per distruggere la colonia di Siris ed annettersene il fertile territorio. Questo periodo coincise con l'apice della potenza di Sibari, che si estendeva sullo Ionio a sud fino alla foce del fiume Traente e verso nord fino alla piana del fiume Sinni, nell'ex territorio di Siris. Sul Tirreno Sibari stendeva il suo predominio su Temesa e Terina (fondata da Crotone) e su Laos e Scidro ed arrivava fino a Poseidonia.
Alla fine del VI secolo a.C. Sibari fu sconfitta e distrutta dall'antagonista Crotone, il cui governo oligarchico era fortemente contrario al regime tirannico di Telis che governava Sibari dopo aver conquistato il potere verso il 520 a.C. ed aver cacciato dalla città 500 tra i cittadini più ricchi che avevano trovato rifugio proprio a Crotone.
Nel 510 a.C. si ebbe lo scontro fatale tra le due città, presso il fiume Traente (oggi Trionto), confine naturale tra le due poleis. La battaglia si volse a favore dei crotoniati. Erodoto racconta che l'esercito vittorioso marciò su Sibari, la assediò e la costrinse alla resa. La città venne, poi, rasa al suolo e fu deviato, addirittura, il corso del fiume Crati perchè le sue rovine fossero sommerse dalle acque e della potente Sibari non restasse alcuna traccia.
In tal modo Crotone ereditò il territorio di Sibari ma dovette fronteggiare i gravi problemi politici e gli squilibri che derivarono dalla gestione ed amministrazione del vasto territorio della sconfitta rivale. I sibariti, da parte loro, non si erano dispersi ed avevano ripetutamente richiesto l'aiuto dei più importanti centri della Grecia per rifondare la loro città. Nel 444 a.C. Pericle, in un momento di espansione della politica ateniese, accolse queste richieste ed organizzò una spedizione coloniale con lo scopo di dar vita ad una colonia panellenica sul sito della distrutta Sibari.
Nel 443 gli ecisti Lampone e Xenocrito, ascoltato il vaticinio dell'oracolo di Delfi, guidarono la spedizione che doveva fondare la nuova colonia alla foce del fiume Crati. Tra i coloni vi furono molti illustri personaggi, quali il filosofo Protagora e lo storico Erodoto. Il principale artefice della nuova città fu, però, l'architetto Ippodamo di Mileto, che pianificò con cura lo schema urbano del nuovo centro, facendo pianare e livellare ciò che rimaneva dell'antica Sibari. La città, come racconta Diodoro Siculo, venne chiamata Thurii dal nome di una sorgente, ma non nacque sotto i migliori auspici. Già prima della sua fondazione gli esuli sibariti avevano iniziato ad accampare delle pretese per via della loro ascendenza: pretendevano i terreni migliori e più vicini alla città. Questo portò i nuovi coloni ad allontanare i vecchi dal nuovo centro e gli esuli sibariti decisero di fondare una loro colonia, che fu chiamata Sibari sul Traente, anch'essa dimenticata dalla fortuna, della quale si conosce solo il nome ma non si è ancora riusciti ad individuare l'ubicazione.
Thurii non raggiunse mai nè la grandezza nè la ricchezza di Sibari. Oltretutto il suo impianto urbano era più piccolo di quello dell'antica colonia. La sfera d'influenza di Thurii si estendeva fino al fiume Traente e fino a Metaponto. Nel V secolo a.C., poi, Thurii si trovò a fronteggiare la colonia spartana di Taranto nella contesa sui territori un tempo di Siris e, fino ad allora, controllati da Metaponto. La guerra durò circa dieci anni ed assorbì risorse, uomini ed energie, risolvendosi a favore di Taranto che, sui territori della siritide, fondò Heraclea (433 a.C.).
Dopo questa cocente sconfitta, il governo di Thurii, inizialmente democratico, si trasformò in aristocratico che non diede il suo appoggio ad Atene durante la sua guerra contro Siracusa. Verso la fine del V secolo a.C., Thurii difese la sua autonomia dalla minaccia dei tiranni di Siracusa Dioniso I e di suo figlio Dioniso II. Quest'ultimo, in particolare, cercò di estendere il dominio di Siracusa fino in Calabria, allacciando alleanze con Locri e minacciando, oltre a Thurii, anche Crotone e Reggio.
In piena decadenza, sul territorio di Thurii fu dedotta, nel 194 a.C., la colonia latina di Copia. Il nome scelto (che vuol dire "abbondanza") ed il simbolo della cornucopia impresso sul recto delle monete coniate dalla città, doveva portare fortuna e prosperità al nuovo centro. Nelle fonti letterarie, Copia continuò ad essere chiamata Thurii, malgrado le monete riportino la dicitura Copiae, il che dimostra una prevalenza dei cittadini italioti sui coloni mandati da Roma (circa 3300 capifamiglia). La città, progressivamente romanizzata si sviluppò progressivamente, divenendo, nell'84 a.C., municipio romano. Il culmine della prosperità Copia lo raggiunse in età augustea e grazie alle grandi riforme volute da Ottaviano a partire dal 31 a.C.. Scomparve la Magna Grecia e la Calabria venne inquadrata nella Regio III Lucania e Bruttiorum. Copia-Thurii divenne una tranquilla città romana che Cicerone ricorda come un luogo appartato, con una campagna ben coltivata ed uno dei pochi porti praticabili della costa ionica.
La città decadde lentamente in epoca imperiale fino alla decadenza definitiva che coincise con il tramonto dell'Impero Romano. Durante la prima metà del VI secolo d.C., un nuovo assetto territoriale sancì la divisione tra il regno longobardo a nord e quello bizantino a sud del Crati. Sugli antichi territori un tempo appartenuti alla potente Sibari sorsero i centri di Cassano, Corigliano e Rossano. La città continuò ad essere indicata come Thurii fino ad epoca tarda, quando venne gradualmente abbandonata per l'innalzamento della falda acquifera e l'impaludamento del terreno che rese malsana e malarica la zona e che portò al definitivo abbandono, nel VII secolo d.C.. Le vestigia dell'antica Copia-Thurii diverranno, allora, una sorta di cava per l'asporto di elementi lapidei e marmi da calcina.

Sybaris ed il Toro Cozzante


Silvana Luppino, direttrice del Museo Nazionale archeologico della Sibarìtide, ribadisce l'importanza di un reperto non secondo ai bronzi di Riace, il Toro Cozzante, in bronzo, ritrovato in un edificio dell'antica colonia romana Copia durante uno scavo condotto dall'Ufficio scavi di Sibari e dalla Scuola Archeologica Italiana di Atene.
Il Toro Cozzante è simbolo della colonia Magnogreca di Thurii ed è stato il protagonista delle Giornate di studio romanistiche che si sono svolte al Museo Nazionale della Sibaritide ed intitolate "Il Municipium di Copia Thurii. Fra memoria di Pericle e progenie di Augusto".
Durante la campagna di scavo 2003-2005, oltre al Toro Cozzante, sono state scoperte delle iscrizioni di particolare rilevanza per la storia di Copia e le sue istituzioni municipali. Le iscrizioni riguardano le magistrature le istituzioni amministrative della colonia romana, costruita nel 193 a.C. sull'impianto ippodameo di Thurii, fondata nel 444-443 a.C. sui resti della leggendaria Sybaris, distrutta alla fine della guerra con Kroton. Il Toro è stato ritrovato in un edificio pubblico romano di Copia del I secolo d.C. ma è un originale greco che risale almeno al 400 a.C., il che dimostra la continuità urbanistica, storica ed amministrativa tra città greca e quella romana. L'opera fu addirittura restaurata in epoca romana.

Onda fenicia


L'associazione culturale "Rotta dei Fenici" ed il Ministero dei Beni e le Attività Cultrali hanno sancito un patto per la "Rotta dei fenici", vale a dire per fruire in chiave moderna percorsi storici tracciati tremila anni fa. Soprattutto per valorizzare le rotte di mare e di terra percorse dal popolo semita lungo le coste del Mediterraneo.
L'itinerario ha già avuto il riconoscimento dal Consiglio d'Europa e si sta coagulando attorno a visite innovative che potrebbero interessare 18 paesi del "mare nostrum" e più di 80 città fenicio-puniche. Il progetto interesserà una squadra di esperti per definire i luoghi fenici nel Mediterraneo in cui dare vita ad iniziative di richiamo turistico-culturale.
Fra i percorsi individuati, sette sono di archeotrekking. Fra tutti il percorso di Selinunte, nove chilometri alla scoperta degli antichi ricordi delle popolazioni provenienti dall'attuale Libano. Ma gli itinerari siciliani prevedono anche percorsi subacquei e velistici,tra le Egadi, Pantelleria e Scopello. Nel Lazio si potrà scoprire Pyrgi, il porto franco che i Fenici condivisero con gli Etruschi.
Per terra sarà possibile ripercorrere il cammino di Annibale, dalle Alpi a Canne, passando per il Trebbia ed il Trasimeno. Sulle rive del lago umbro è stato realizzato un filmato in 3d che mostra la battaglia in cui i Romani, guidati dal console Gaio Flaminio soccombettero al generale punico. Dal 14 al 16 gennaio il Trasimeno sarà interessato da una tre giorni dedicata alla famosa battaglia della seconda guerra punica (o guerra annibalica, come la chiamarono i romani).

Ricordando Antinoo

Si intitola "Antinoo dopo e oltre. Dall'Egitto Copto alle opere di Paola Crema" la mostra che è possibile visitare nel Salone del Nicchio del Museo Archeologico Nazionale di Firenze.
Sarà possibile fare una sorta di viaggio nel tempo, nella città di Antinoe, fondata in Egitto subito dopo la morte di Antinoo. La si vedrà dalla sua fondazione al suo abbandono ed anche oltre, attraverso il contributo di Paola Crema, artista contemporanea che ha voluto rendere omaggio a Marguerite Yourcenar, autorice delle famosissime "Memorie di Adriano".
Antinoe fu edificata nel Medio Egitto per volere di Adriano, per commemorare Antinoo, divinizzato dopo la sua morte. Un oracolo aveva predetto che, durante il soggiorno dell'imperatore e del giovane bitino in Egitto, che uno dei due sarebbe dovuto morire. Antinoo, così si annegò nel Nilo, salvando la vita dell'imperatore.
Fu questo evento luttuoso a generare la città di Antinoe, splendida e prestigiosa, che presto divenne un centro fiorente e lo fu anche in età copta (dal 313 d.C. fino al 640 d.C, quando giunsero gli arabi). Antinoe fu abbandonata tra VIII ed il IX secolo d.C..
Di Antinoe, oggi, non resta molto, anzi, quasi nulla. Dal 1935 l'Istituto di Papirologia Fiorentina "G. Vitelli" effettua scavi archeologici nell'area, scavi che hanno permesso di arricchire, nel corso degli anni, le collezioni del Museo Egizio di Firenze. Proprio dai reperti recuperati nel corso di questi scavi è nata l'idea della mostra. Il materiale è databile al periodo copto. Si tratta di vasellame in sigillata africana e la sua imitazione locale, la cosiddetta Egyptian Red Slip Ware A e B, oltre all'anfora romana prodotta proprio ad Antinoe, Late Roman 7. In mostra è presente anche una particolare ceramica con decorazione dipinta, copta anch'essa, e lucerne che portano sul disco la particolare croce ansata, una croce che si rifa al segno egizio dell'ankh, il simbolo della vita che, probabilmente, è alla base del monogramma di Cristo.

sabato 12 dicembre 2009

I porti di Napoli


A Napoli gli scavi per la costruzione di un tratto della Linea 1 della metropolitana hanno permesso un'importante scoperta archeologica.
Innanzitutto sono state individuate delle antiche insenature che, con il passare dei secoli, sono state colmate da depositi alluvionali e sabbiosi, poi sono affiorate strutture pertinenti a diverse epoche che, ora, dovranno essere adeguatamente studiate dagli esperti. Scopo principale di queste indagini è rintracciare continuità o discontinuità nell'insediamento urbano di Napoli tra l'età tardoantica e quella mediovevale.
Il primo porto di Neapolis fu costruito dai coloni greci che si erano installati sulle coste campane. Nel corso dei secoli il porto, da semplice scalo militare in epoca greco-romana, divenne un porto commerciale, acquisendo, in tal mondo, una progressiva importanza. Fu, però, con i Normanni che il porto fiorì e venne inserito, unico tra i porti italiani, nella Lega della Compagnia delle Città Anseatiche, nel 1164. L'apice della ricchezza lo scalo la toccò con gli Angioini, in special modo con Carlo I d'Angiò, che ampliò la struttura portuale e vi aggiunse anche diversi edifici. Questo momento d'oro proseguì anche sotto la dominazione aragonese e nel periodo del vicereame spagnolo.
Sulla localizzazione dell'antico porto della greca Neapolis, gli studiosi hanno fatto diverse congetture. La maggior parte di loro lo colloca sulla linea di costa tra Parthenope e Neapolis. Mario Napoli, invece, ha avanzato un'altra ipotesi: il porto antico era ubicato ad est del Monte Echia-Pizzofalcone, area attualmente occupata da Piazza Plebiscito e Piazza Municipio e veniva utilizzato come emporio marittimo di Parthenope anche dopo la fondazione di Neapolis.
Tra i rinvenimenti effettuati duranti questi ultimi lavori, vi sono delle monete, databili ad un periodo compreso tra la metà del V e la prima metà del VII secolo d.C. e molti frammenti di ceramica romana. La scoperta senza dubbio più interessante è stata quella di tre navi romane, trovate nei pressi di Piazza Municipio, e di alcune strutture identificate come molo e pontili.

venerdì 11 dicembre 2009

Un antico bagno per pellegrini


Un bagno rituale di 2000 anni fa è stato scoperto, di recente, nei tunnel del muro occidentale a Gerusalemme, sotto il quartiere arabo.
L'Autorità per le Antichità Israeliane riferisce che il bagno si trova all'interno di una costruzione contenente tre sale risalenti al periodo del Secondo Tempio. Il bagno è costruito con pietre ashlar finemente decorate e presenta un'architettura simile al complesso del Re Erode, costruito sulla Montagna del Tempio ed a quello della Grotta dei Patriarchi.
La struttura è un bagno rituale (mikveh), nel quale si immergevano, un tempo, undici scalini ed era aperto sia agli uomini che alle donne. Chi utilizzava il bagno, si pensa, erano soprattutto i pellegrini che si recavano al Tempio tre volte l'anno. Simili bagni rituali sono tuttora utilizzati dagli ebrei.

Dolmen indiani


Un grande dolmen, con quattro petroglifi che ritraggono uomini con tridenti ed una ruota a raggi, è stato ritrovato a Kollut, vicino Tirukoilur, 35 chilometri da Villupuram nel Tamil Nadu, in India.
Ad effettuare la scoperta è stato K.T. Gandhirjan, storico dell'arte. Due uomini sono raffigurati coin dei tridenti tra le mani (forse si tratta del dio Shiva), un terzo brandische delle armi non identificate. Queste figure sono state scolpite sulla pietra, nella parte superiore di un dolmen, in quella che è la lastra di copertura.
Questo è il secondo dolmen con petroglifi ritrovato a Tamil Nadu. Secondo Gandhirjan il dolmen è antico di 2500 anni, mentre i petroglifi possono averne all'incirca 2000. I tridenti raffigurati potrebbero essere armi da caccia o da pesca e la loro rappresentazione indica che sono state scolpite durante l'Età del Ferro (circa 1000 a.C.-300 d.C.) e che all'epoca nella zona si conosceva l'utilizzo della ruota.

Il dinosauro dei dinosauri?


In Nuovo Messico è stato scoperto una nuova specie di dinosauro, ribattezzato Tawa Hallae, che può dare un contributo alla ricerca del luogo di origine degli antichi animali. Probabilmente, infatti, i grossi bestioni preistorici hanno avuto il loro incipit proprio in Sudamerica.
La ricerca è stata coordinata da Sterling Nesbitt, dell'Università del Texas. I ricercatori hanno scoperto un fossile di dinosauro, carnivoro e molto primitivo. E' vissuto 213 milioni di anni fa, nel Tardo Giurassico, nel Nuovo Messico. E' il più antico dinosauro scoperto da queste parti ed appartiene alla famiglia dei teropodi dai quali è, in seguito, disceso il Tirannosauro Rex. Le caratteristiche del nuovo dinosauro, comparate con quelle dei dinosauri del Sudamerica, suggeriscono che questi animali siano nati proprio in America Meridionale, da dove si sono diffusi in tutto il mondo.
Gli studiosi hanno comparato lo scheletro di Tawa Hallae con quello di un altro dinosauro molto primitivo, scoperto in Argentina negli anni '60, l'Herrerasaurus, che presenta delle caratteristiche in comune con i teropodi (grandi mandibole, dendi da carnivoro ed alcune strutture pelviche), ma che manca di altre caratteristiche proprie dei teropodi. Tawa Hallae possedeva un mix di caratteristiche trovate nei dinosauri teropodi. L'Herrerasaurus, si è appurato dalla ricerca, può considerarsi un progenitore dei teropodi, dato che dimostra che i dinosauri sono nati nel Sudamerica.

giovedì 10 dicembre 2009

Asce africane


Il bacino di un grande lago africano sta fornendo importanti informazioni sulle vie di migrazione e sulle pratiche di caccia dei primi uomini vissuti tra il periodo medio e quello tardo dell'Età della Pietra, tra 150.000 e 10.000 anni fa. I ricercatori dell'Università di Oxford hanno scoperto, nel bacino di un lago, in Botswana, che la regione era, un tempo, molto più arida ed umida di quanto sia oggi.
Nel letto del lago gli studiosi hanno rinvenuto migliaia di strumenti di pietra che fanno luce su come gli uomini, in Africa, si adattarono a vari eventi relativi al cambiamento climatico, durante il periodo che coincide con l'ultima era glaciale in Europa. Ora i ricercatori stanno esaminando il bacino prosciugato del lago Makgadikgadi, nel Deserto del Kalahari. La ricerca ha preso spunto dal ritrovamento, nel letto del fiume, del primo di quelli che si ritiene siano gli strumenti di pietra più grandi finora ritrovati.
La scoperta risale, in realtà, agli anni Novanta, ma è stata rivelata solo ora. Gli strumenti sono lunghi oltre 30 centimetri e di età incerta. Il pavimento del lago asciutto è, inoltre, ricoperto di migliaia di altri piccoli strumenti in pietra. Il professor David Thomas sostiene che, quando il livello del lago si abbassò, creò delle polle d'acqua attorno alle quali si radunarono gli animali. Probabilmente questa zona fu, per gli uomini primitivi, una ricca zona di caccia. Come mai le asce di pietra siano così grandi, ancora non è stato accertato.

mercoledì 9 dicembre 2009

Una chiesa per l'Arcangelo Michele


Il culto dell'Arcangelo Michele fu introdotto dall'Oriente ed approdò, per la prima volta in un luogo vicino Roma, lungo la Salaria, dove esisteva ed era nota una basilica del V secolo, dedicata a Michele, al VII miglio della stessa via.
Il documento più antico attestante un culto di S. Michele Arcangelo è rintracciabile nel "Martirologio Geronimiano" risalente al V secolo. In esso si attesta al 29 settembre a Roma, sulla via Salaria, al VI miglio, l'esistenza della basilica dedicata all'Arcangelo. Da parte sua il "Liber Pontificalis" aggiunge che papa Simmaco (498-514) "ampliò la basilica dell'Arcangelo Michele, vi realizzò una scalinata e la fornì di acqua". Una seconda menzione della basilica sulla Salaria è nel "Sacramentum Leoniano", risalente alla metà del VI secolo, mentre nel "Gelasiano Antico", del secolo successivo, il riferimento è carente del correlato geografico.
Nel VII secolo l'itinerario "De Locis", a proposito della via Salaria, attesta al VII miglio di questa via la "chiesa di San Michele", inserendola nell'elenco delle chiese visitate regolarmente dai pellegrini. Nel secondo quarto del IX secolo le fonti riferiscono, invece, della festa dedicata a San Michele Arcangelo, celebrata il 29 settembre al santuario garganico e alla chiesa istituita a Castel Sant'Angelo. Gli indizi archeologici lasciano pensare che, in questo periodo, la chiesa sulla Salaria fosse in stato di abbandono ed, in seguito, quasi completamente occultata dalla vegetazione al punto che, nel corso dei secoli successivi, si è persa memoria della sua esatta dislocazione.
Nel 1996, in occasione di lavori di consolidamento di un villino, ora sede di una congregazione religiosa di Suore, la basilica è stata ritrovata dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma.
Da quel che appare da ciò che resta, la chiesa di San Michele Arcangelo sulla via Salaria era organizzata con tre lunghi ambienti paralleli. Quello centrale è molto più ampio di quelli laterali. Le navate erano divise da due file di colonne. E' stata individuata quella che è, probabilmente, la fondazione dell'abside. La struttura rettangolare in mezzo alla navata centrale è, probabilmente, l'alloggiamento del recinto presbiteriale, forse un altare in medio, ipotesi avvalorata dalla mancanza di contatti con l'abside.
Il modulo di costruzione della basilica si è basato sulla tradizione orientale, il piede bizantino (lunghezza 30,8 centimetri), piuttosto che sul piede romano (29,5 centimetri). I dati di scavo confermano che la fondazione della basilica risale effettivamente al V secolo. Al 380-450 risale la datazione del mosaico rinvenuto nella navata centrale, al IV-V secolo, invece, risale una lastra di marmo con incisa una croce monogrammatica, entrambi, però, rinvenuti fuori contesto.
Nel 1939 sono stati ritrovati tre frammenti altomedioevali, di cui due attualmente murati a breve distanza ed appartenenti all'arredo della chiesa. Quattro sepolture, realizzate in materiale lapideo di spoglio stanno, forse, ad indicare che l'edificio visse, verosimilmente, fino al basso medioevo, in quanto questo tipo di tomba è databile dopo il VI-VII secolo.

martedì 8 dicembre 2009

Le mura di Gerico

E' stato un italiano, Lorenzo Nigro, a scoprire l'edificio in mattoni più antico del mondo. Il muro si trova a Gerico e risale a quindicimila anni fa circa, ossia al periodo neolitico pre-ceramico, prima che si fabbricassero oggetti in terracotta.
"E' il muro di una torre circolare costruito con mattoni crudi, paglia e fango", ha rivelato Nigro ad uno dei convegni tenutosi durante la Borsa Mediterranea del Turismo a Paestum. "E' il primo caso di architettura modulare, con i mattoni montati a corsi alterni, che hanno la forma di un filone di pane e sono tenuti insieme da una malta di cenere e fango".
Quello di Gerico non era un edificio abitativo. La torre ed il muro cui era collegata furono costruiti a scopi difensivi. L'enigma, non ancora risolto, è contro chi si doveva difendere l'antica popolazione di Gerico. Sempre nei dintorni del muro in mattoni è stato ritrovato un teschio sepolto ritualmente 9000 anni fa e, in un giacimento funerario un pò meno antico, altri teschi separati dai corpi, modellati e raggruppati in un rituale del quale non si conoscono ancora le modalità ma che, probabilmente, riguarda il culto degli antenati. Una sorta di divinizzazione dei defunti, un culto che, per la prima volta nel neolitico, si discosta dal culto della Dea Madre. Accanto al teschio era stata deposta una pietruzza che aveva la valenza di una rudimentale moneta. "Quel sassolino - ha raccontato Nigro. - ci ha fatto pensare alla monetina che nell'antichità classica si lasciava nella bocca del defunto, perchè potesse pagare il traghettatore nel mondo dell'oltretomba".
La prima frequentazione umana documentata del sito di Gerico risale a dodicimila anni fa, attorno alla sorgente di Ain es-Sultan, la biblica sorgente di Eliseo. La comunità che abitò questi luoghi fu una delle prime a sostenersi grazie ai proventi dell'agricoltura.
Gli scavi hanno prodotto risultati eccezionali, confermando Gerico come primo insediamento umano costruito dall'uomo. Nel corso dei millenni successivi la città prese il nome di Ruha, datole dai Cananei (in biblico Yeriho, mentre l'attuale nome arabo è Ariha), nome rivelato, ha spiegato Nigro, da un'iscrizione in geroglifico.
Anche quest'anno la città di Gerico è stata scavata dalla missione di scavo archeologico dell'Università di Roma "La Sapienza", che ha acquisito ulteriori conoscenze sulla città durante l'Età del Bronzo (3000-1550 a.C.) e della doppia cinta muraria del Bronzo antico (2700-2350 a.C.), sulla quale vi sono tracce evidenti di una violentissima distruzione.

Turchia, gli "inviti" di Antioco I di Commagene...

Turchia, l'iscrizione di Antioco di Commagene (Foto: AA) Un'iscrizione trovata vicino a Kimildagi , nel villaggio di Onevler , in Tu...