sabato 30 ottobre 2010

Caravaggio a Montepulciano


Massimo Pulini, studioso autore di monografie sul Guercino e sul Sassoferato, ha scoperto un Caravaggio sconosciuto, finora. Il ritratto, rimasto sino al 1861 sotto gli occhi di tutti in un museo di Montepulciano, non era mai stato notato da alcuno. Era, infatti, disposto piuttosto in alto, rispetto al campo visivo del visitatore.
Il Dottor Pulini ha scoperto l'illustre paternità del ritratto più di otto anni fa, mentre curava una piccola mostra a Pienza e visitava i musei del Senese. Il personaggio raffigurato sulla tela potrebbe essere Scipione Caffarelli, adottato Borghese, che lo zio fece studiare da avvocato a Perugia e che viene nominato cardinale sempre dallo zio, salito al soglio pontificio con il nome di Paolo V. L'identità è stata intuita dal confronto tra un disegno di Bernini, un altro ritratto analogo in una collezione di New York ed un busto un tempo attribuito all'Algardi. Scipione Caffarelli non era quel che si dice un soggetto raccomandabile: rubò una pala di Raffaello a Perugia in cambio di una copia; fece arrestare, con un pretesto, il maestro di Caravaggio, il Cavalier d'Arpino per rubargli i quadri del prezioso alunno. Fu lui a fondare la famosa Galleria Borghese di Roma.
Il restauro del prezioso quadro sono stati felicemente affidati a Mary Lippi.

venerdì 29 ottobre 2010

Siria da scavare


Sono stati scavati più di 1000 siti archeologici che risalgono all'Età della pietra, del periodo accadico, assiro, babilonese, bizantino nella provincia di Hasaka. Questi scavi hanno ulteriormente illuminato la storia della parte orientale della Sira e fanno ben sperare sui tesori delle antiche civiltà che qui hanno vissuto e prosperato.
L'archeologo Khaled Hammo ha affermato che la città appena scoperta in Tel al-Mabton aveva un piano estremamente accurato, dal punto di vista architettonico, per le strade ed il sistema di drenaggio. Questa città risale al III millennio a.C. e, tra gli altri ritrovamenti, ha restituito anche ogetti di alabastro, pentole con teste di toro o di leone e bronzi sciiti.
Un'altra spedizione archeologica, nata dalla collaborazione tra studiosi siriani e belgi, ha lavorato a Tall Shangher Bazar, riportando alla luce un edificio piuttosto antico dalla forma tondeggiande ed anche scritture cuneiformi che risalgono all'antico periodo babilonese. Gli scavi a Tall Bedr hanno scoperto alcune parti di un tempio e di un palazzo con un cortile ben coservato che risale al periodo accadico. Oltre a questo è stata rinvenuta della ceramica ellenistica ed alcune giare.
Nel sito di Tal Hamokar, una missione archeologica siro-americana ha riportato alla luce due edifici che risalgono al periodo di Ninive. Gli scavi di Tall al-Hamdi hanno svelato diversi strati archeologici risalenti al periodo dei Mitanni, alcune sepolture sasanidi e due abitazioni di periodo ellenistico.
A Tall Berri, una missione archeologica italiana ha ritrovato frammenti di ceramica sotto un edificio in mattoni che risale al III millennio a.C., un pavimento di epoca babilonese, alcune mura di periodo partico e forni di epoca islamica.

mercoledì 27 ottobre 2010

Apollo in terra d'Israele


Un raro sigillo di bronzo, a forma di anello, con l'immagine del volto del dio greco del Sole, Apollo, è stata scoperta a Tel Dor, nel nord d'Israele, dagli archeologi dell'Università di Haifa.
Un pezzo del genere, di estrema raffinatezza, è senza dubbio stato creato da un artista importante ed indica che le elites locali avevano sviluppato un tale gusto per l'arte e per l'abilità degli artisti da potersi permettere un capolavoro del genere pur vivendo in una cittadina di provincia e non nelle città più importanti del regno ellenistico.
Quando l'anello è stato recuperato da una sorta di butto nelle vicinanze di alcune strutture di epoca ellenistica, era ricoperto da strati di terra ed era piuttosto corroso. Gli archeologi non avevano alcuna indicazione su cosa avrebbe potuto rivelare la fisionomia della figura impressa sull'anello. Solo quando l'anello è stato ripulito nel laboratorio di Restauro e Conservazione dell'Istituto di Archeologia dell'Università Ebraica, è apparso il profilo di un giovane uomo senza barba, con capelli piuttosto lunghi, perfettamente rasato ed adornato con una corona d'alloro. L'anello è stato esaminato dalla Dottoressa Jessica Nitschke, professoressa di archeologia classica all'Università di Georgetown e dalla Dottoressa Rebecca Martin, dell'Università di Stato del Missouri. Entrambe hanno confermato che l'immagine sull'anello è quella di Apollo, una delle divinità più importanti dell'Olimpo greco, dio del sole, della luce, della musica e del canto.
Il contesto archeologico e lo stile in cui è stato forgiato l'anello, lo datano al IV od al III secolo a.C.. Questo genere di anello era utilizzato come sigillo oppure veniva dedicato nel tempio della divinità la cui effige è impressa sull'anello. Sin da quando è stato ritrovato in un contesto urbano ed in un normale scavo archeologico, la scoperta ha assunto un importante significato. Molti dei pezzi più piccoli, dal punto di vista artistico, creati nel Vicino Oriente hanno un'origine sconosciuta, dal momento che sono stati acquistati e venduti sul mercato antiquario attraverso percorsi per lo più illegali.
Quest'anello in particolare, attesta il carattere cosmopolita della regione, almeno fino a 2300 anni fa. Malgrado i danni causati dallo scorrere dei secoli, la sua alta qualità è facilmente riconoscibile. Il prezioso oggetto è stato trovato nella stessa area in cui è stata rinvenuta una piccola pietra preziosa con incisa l'effige di Alessandro Magno ed un raro e squisito pavimento musivo di epoca ellenistica, diseppelliti durante le prime stagioni di scavi. Tutte queste scoperte sono verosimilmente legate alle strutture circostanti, che sono attualmente in fase di scavo e che sembrano appartenere ad un grande edificio di notevole importanza.
Questi ritrovamenti indicano, inoltre, che la circolazione di oggetti d'arte di estrema raffinatezza non era circoscritta alle città più importanti del regno ellenistico, come Alessandria d'Egitto o Antiochia e Seleucia in Siria, dove la gran parte della popolazione era greca, ma era diffusa anche nei centri minori, come Dor, che era principalmente abitato da Fenici.
Il centro di Dor era un porto importante sulla costa del Mediterraneo dal 2000 a.C. fino al 250 d.C.. Oggetti di ispirazione greca, come anelli-sigillo e miniature inserite in gemme, cominciarono ad apparire in oriente all'epoca dell'impero persiano (VI-IV secolo a.C.) e divennero d'uso comune dopo la conquista della regione ad opera di Alessandro Magno. Successivamente la cittadina di Dor divenne uno dei centri principali di cultura greca in terra d'Israele e questo genere di cultura lasciò il segno anche dopo che Dor fu conquistata da Alessandro Ianneo, re di Giudea intorno al 100 d.C..
Dor è localizzata vicino alla spiaggia omonima, tra Haifa e Tel Aviv. E' stata scavata ininterrottamente negli ultimi trent'anni e presto farà parte del Parco Naturale che Israele ha intenzione di costituire nella zona.

martedì 26 ottobre 2010

I pretoriani, armi e vestimenti


L'esame dei rilievi funerari privati e gli scavi effettuati in siti militari hanno messo in discussione la rigida distinzione in materia di equipaggiamento tra legionari ed ausiliari che si evince dalla Colonna Traiana.
Alcuni ausiliari usavano un'armatura detta lorica segmentata (il termine è moderno), mentre alcuni legionari usavano armature a scaglie (lorica squamata) o di maglia (lorica hamata). I soldati erano proprietari di tutti i loro abiti e di quanto portavano con sé. Lo si è dedotto dalle testimonianze ritrovate nei papiri, di trattenute sulla paga per l'acquisto del vestiario e dell'equipaggiamento. Sugli oggetti personali giunti sino a noi, poi, sono state ritrovate decorazioni che dimostrano quanto fosse discrezionale l'acquisto dell'equipaggiamento da parte del soldato.
Alcuni elementi dell'equipaggiamento militare sono sempre stati considerati tipici della guardia pretoriana. Tra questi l'elmo attico recante una folta cresta e lo scudo ovale, entrambi rappresentati su un rilievo conservato al Louvre e proveniente dall'arco di Claudio (51 d.C.). I pretoriani sono contraddistinti da uno scudo ovale anche nei rilievi sulle colonne di Antonino Pio (138-161 d.C.) e Marco Aurelio (161-180 d.C.).
La combinazione tra l'elmo attico e lo scudo ovale, secondo alcuni, doveva volutamente conferire un aspetto arcaico ai pretoriani, quanto meno nel loro abbigliamento di parata. Molto più probabilmente i pretoriani erano equipaggiati come i legionari loro contemporanei.
Nei primi anni della loro storia, i pretoriani indossavano l'elmo di tipo Montefortino, utilizzato dalle legioni della Repubblica e dei primi anni dell'impero. La stele funeraria di un pretoriano ad Aquileia, risalente al I secolo a.C., è decorata con rilievi che mostrano l'elmo di tipo Montefortino con uno scudo ovale. Ai Musei Vaticani se ne conserva un esemplare appartenuto a un soldato della coorte urbana XII che, almeno agli inizi, era probabilmente un'unità di pretoriani.
La tunica era l'indumento fondamentale degli uomini romani. I soldati la portavano più corta, rispetto ai civili, all'altezza del ginocchio e molti pensano fosse di colore rosso. Ricerche dettagliate hanno dimostrato che normalmente questo capo di abbigliamento era bianco o grezzo, cioè il colore della lana non tinta. Quando, sugli affreschi, sono raffigurate tuniche rosse, si vuole indicare che chi le indossava era un ufficiale, probabilmente un centurione, che ha anche l'elmo crestato. Il mosaico Barberini di Palestrina raffigura due uomini armati che sono sicuramente dei pretoriani (hanno lo scudo decorato dal simbolo dello scorpione). Entrambi costoro indossano una tunica bianca ed un elmo con cresta dello stesso colore. Gli studiosi pensano che il bianco fosse il colore identificativo delle unità di guardia, poichè, a partire dal IV secolo, i membri della guardia personale dell'imperatore venivano chiamati candidati. Sulla Colonna Traiana, invece, non v'è distinzione tra legionari e pretoriani che utilizzano entrambi la lorica segmentata. Anche le armi dei pretoriani sono simili a quelle dei legionari: un giavellotto e un gladio appeso al fianco destro, nel caso fossero soldati semplici, al fianco sinistro nel caso fossero ufficiali. I pretoriani appaiono equipaggiati solitamente con un mantello con cappuccio (paenula) tipico dei romani, indossato sulla tunica ed utile in caso di pioggia, una cintura militare con cinghia, un paragrembo ed i sandali chiodati (caligae). La paenula si allacciava sul davanti, forse fino a metà torace. In alcuni rilievi sembra che si allacciasse per mezzo di ganci ed occhielli cuciti all'interno, mentre un altro rilievo - custodito a Londra - mostra due sistemi di chiusura esterna, una con bottoni ad asola e l'altra con bottoni tipo alamari. A Pompei sono stati ritrovati dei bottoni tondi di questo tipo, fatti in osso.
Caratteristica peculiare delle guardie pretoriane era la toga civile, che essi indossavano quando erano di servizio a palazzo e in Campidoglio nei primi due secoli dell'era cristiana. Le fonti letterarie raccontano che i pretoriani avevano, nelle insegne, i ritratti della famiglia imperiale (imagines), mentre nella legione romana queste insegne erano affidate ad appositi portatori (imaginifer). Le insegne dei pretoriani erano spesso sormontate dall'aquila che decorava, anche, le loro tombe.

Sepolture bizantine a Lanciano


E' stata scoperta una necropoli in località Serre, nel territorio di Lanciano, in Abruzzo, risalente al VI-VII secolo d.C.. Per il momento sono state riportate alla luce tre sepolture che sono parte di un'area funeraria più vasta, pertinente ad un antico insediamento d'altura che controllava il fiume Sangro.
Le tombe sono tutte a cappuccina e risalenti al periodo di dominio bizantino. Queste sepolture sono il segno tangibile della presenza di una villa di età imperiale la cui vita si è protratta fino alla prima metà del VII secolo d.C., quando i Bizantini avevano presidiato e controllavano il fondovalle del Sangro.
Una delle sepolture, appartenente ad una donna, ha restituito un'armilla in bronzo a doppia fascia, due spilloni da acconciatura in argento ed una brocchetta di ceramica dipinta a bande. La tomba maschile conteneva una notevole quantità di bullette in ferro pertinenti a calzature chiodate.

lunedì 25 ottobre 2010

I pretoriani, soldati privilegiati



Si è portati a credere che i pretoriani (coorti pretoriane) siano stati un'innovazione introdotta da Augusto, primo imperatore romano, ma queste coorti erano già al servizio dei generali negli ultimi anni della Repubblica. Sul finire del I secolo a.C., il termine cohors stava ad indicare un contingente di truppe scelte che fungeva da guardia del corpo dei consoli.
A metà del I secolo a.C. sia Ottaviano che Marco Antonio potevano disporre di diverse guardie pretoriane, organizzate individualmente. Appiano afferma che i due si spartirono circa 8000 veterani. Antonio portò con sé, in Oriente, tre coorti e, nel 32 a.C., fece coniare, addirittura, una moneta in onore dei suoi pretoriani. Ottaviano aveva cinque coorti ad Azio. La vittoria che quest'ultimo riportò su Marco Antonio, gli permise di fondere le sue forze con quelle del suo avversario. Una volta assurto ad imperatore, Augusto, nel 13 a.C., fissò la durata del servizio della sua guardia privata, i pretoriani, appunto, in dodici anni, conto i sedici abituali delle legioni. si ignora la dimensione delle coorti pretoriane, ma comunemente si ritiene che fossero composte da circa 500 uomini che, per lo più, abitavano in città, a Roma.
Fino al 2 a.C. ciascuna coorte pretoriana era un'unità indipendente, comandata da un tribuno di rango equestre. In questa data Augusto nominò due tribuni di alto rango a comandanti generali in qualità di prefetti del pretorio. A Roma i pretoriani dovevano montare la guardia dinnanzi alla casa di Augusto, sul Palatino. Tutti i pomeriggi, all'ora ottava, il tribuno della coorte in servizio, riceveva, dallo stesso Augusto, la parola d'ordine.
Tra gli altri compiti dei pretoriani vi era quello di scortare l'imperatore e la sua famiglia ovunque essi andassero. Per evitare problemi con gli abitanti di Roma e seguendo la tradizione repubblicana, i pretoriani non portavano l'armatura, quando svolgevano incarichi in città, ma la toga.
Recentemente un'iscrizione ha permesso di accertare che, verso il termine dell'età augustea, il numero delle coorti arrivò a dodici. Tacito, però, afferma che vi erano solo nove coorti (23 d.C.). Le tre coorti urbane, con numerazione consecutiva a quelle pretoriane, furono create sul finire dell'età augustea. Le iscrizioni attestano che il numero delle coorti pretoriane fu riportato a dodici sotto Caligola (37-41 d.C.) o Claudio (41-54 d.C.).
A Roma è tuttora visibile la cinta muraria dell'accampamento costruito dai pretoriani nel 23 d.C.. Questi resti si trovano sul Viminale, all'interno del circuito delle mura aureliane e fu distrutto da Costantino nel 312 d.C.. Gli studiosi hanno stimato che questo accampamento urbano poteva contenere circa 4000 unità di uomini. Le dimensioni delle coorti sono tuttora oggetto di discussione tra gli studiosi. Il grosso degli effettivi era costituito da truppe di fanteria anche se la guardia pretoriana possedeva un distaccamento di cavalleria. Sempre le iscrizioni attestano che i soldani diventavano equites dopo cinque anni di servizio in fanteria. Il reparto di cavalleria d'élite, gli speculatores Augusti, erano la guardia di cavalleria personale dell'imperatore. Costoro si distinguevano per un particolare tipo di calzatura, di forma sconosciuta, la caliga speculatoria, secondo quanto afferma Svetonio.
Appartenere alla guardia pretoriana permetteva al soldato di svolgere un periodo di servizio più breve e di godere di una paga più generosa di quella che spettava al comune legionario. Inoltre i pretoriani vivevano a Roma e raramente, se non mai, partecipavano alle guerre fuori dal pomerio.
Gli uomini erano reclutati tra i 15 ed i 32 anni e, durante il regno di Vitellio (69 d.C.) e di Settimio Severo (193-211 d.C.), costoro venivano trasferiti alla guardia dalle Vigiles, coorti urbane, e dalle legioni. Questo diverrà l'usuale metodo di reclutamento nel III secolo d.C.. Tacito afferma che sotto Tiberio i pretoriani venivano reclutati in Etruria, in Umbria e nel Lazio. Secondo Cassio Dione, prima delle riforme di Settimio Severo i pretoriani provenivano solo dall'Italia, dalla Spagna, dalla Macedonia e dal Norico (Austria). Le iscrizioni confermano che la maggior parte veniva dal centro e dal nord'Italia. Quando, però, Settimio Severo salì al trono, si sbarazzò dei pretoriani ribelli che avevano cercato di comprare e vendere l'Impero nel 193 e li sostituì con gli uomini delle sue legioni sul Danubio. Questo fu l'episodio che determinò la formazione delle guardie pretoriane con elementi della regione meno romanizzata del Danubio.
Dal 5 a.C. i pretoriani dovevano prestare solo 16 anni di servizio, contro i 20 richiesti alle coorti urbane ed i 25 della legione. Nel 27 a.C. Augusto aveva stabilito che i pretoriani avrebbero guadagnato il doppio dei legionari, ma già nel 14 d.C. la loro paga era il triplo di questi ultimi senza contare le varie prebende erogate dai diversi imperatori in loro favore per ricambiare servigi o celebrare ascese al trono.
Quando si congedavano, i legionari ricevevano un attestato in bronzo che ne legittimava il primo matrimonio ed i figli nati da esso (prima del regno di Settimio Severo i soldati non erano autorizzati a sposarsi).
Per essere accettati tra i pretoriani bisognava, innanzitutto, godere di un'ottima forma fisica, avere un buon carattere e provenire da una famiglia rispettabile. Chi superava la procedura di iniziazione e diventava un probatus, veniva assegnato come miles ad una delle centurie di una coorte. Qualche anno più tardi poteva divenire immunis, come segretario di quartiere generale o come tecnico, il che lo avrebbe messo al riparo da lavori faticosi. In seguito avrebbe potuto diventare principalis, con l'incarico di custode della parola d'ordine (tesserarius), oppure con il ruolo di vice centurione (optio) o di porta insegne (signifer) della centuria. Alcuni cavalieri romani abbandonavano addirittura lo status equestre per ottenere una nomina diretta a questa carica.

Nuova campagna di scavi a Mozia

E' in corso, sull'isola di Mozia, una nuova campagna di scavi archeologici. L'area su cui si indaga è quella accanto alla "casa dei mosaici", poco lontana dal Museo Whitaker.
Sul campo opereranno giovani ricercatori formati nei corsi trapanesi. Proprio grazie a questo impegno stanno giungendo nuove notizie sull'antica colonia fenicia e sulle fasi successive alla sua distruzione (397 a.C.) ad opera di Siracusa.

venerdì 22 ottobre 2010

Piccoli gioielli d'Italia: Ascoli Piceno (2)


Il Duomo di Ascoli è dedicato al patrono della città, sant'Emidio, e si trova in piazza Arringo. Attualmente l'edificio è il risultato di diversi rimaneggiamenti avvenuti nel corso dei secoli. Alcuni lavori di restauro, nella cripta, hanno accertato che il primo tempio fu costruito nel IV o V secolo, su un edificio di epoca romana che Sebastiano Andreantonelli identifica con un tempio pagano dedicato alle Muse, mentre altri studiosi vogliono fosse dedicato, piuttosto, ad Ercole e Giunone.
I ritrovamenti archeologici del 1882-1883 hanno accertato che il tempio cristiano fu eretto ricorrendo ai resti della basilica civile del foro romano, identificabili nel transetto, nelle absidi semicircolari e nella cupola, che risalgono alla fine dell'VIII secolo o all'inizio del IX secolo d.C.. Tra il V ed il VI secolo a.C. la costruzione subì la sua prima trasformazione, che le donò una forma a croce latina con l'aggiunta della navata longitudinale. Tra il 746 ed il 780 il vescovo longobardo Euclere aggiunse la cupola a base ottagonale. Un altro vescovo, Bernardo II, fece costruire la cripta per accogliere le reliquie del santo patrono ed iniziò i lavori per la realizzazione delle due torri poste agli angoli esterni della facciata.
Il 2 gennaio 1481 fu stipulato il contratto per la demolizione dell'antica facciata e la costruzione delle tre navate centrali ex novo. La facciata fu completata tra il 1529 ed il 1539, su progetto di Cola dell'Amatrice e fu realizzata in travertino. Al centro vi è il portale d'ingresso, ai lati del quale, nei due intercolunni minori, concludono la facciata due grandi nicchie che ospitano due sedie in travertino. La balaustra terminale, composta di colonnine, fu aggiunta nel 1592. Il fianco sinistro del duomo risale al 1485 ed è ornato di lesene corinzie.
L'interno è di gusto romanico-gotico, a corce latina, suddiviso in tre navate da sei pilastri ottagonali con capitelli rinascimentali. La cupola si innalza da una base rettangolare per divenire ottagonale nella parte superiore. La costruzione della cupola si data all'VIII secolo d.C..
Alle spalle dell'altare è collocato il coro gotico realizzato in noce, realizzato nel XV secolo da Giovanni di Matteo e Paolino d'Ascoli, suo figlio. A Giovanni di Matteo sono attribuiti tredici stalli, ai quali ne furono aggiunti altri dodici provenienti dalla chiesa ascolana di San Pietro Martire. Il coro comprende 40 stalli intagliati di rosoni, guglie con motivi floreali, fogliami e linee raffinate.

Piccoli gioielli d'Italia: Ascoli Piceno (1)


Le origini di Ascoli Piceno sono avvolte nel mistero, ma gli archeologi sono sicuri che le sue radici affondino nell'età della pietra. Strabone, Plinio e Festo scrivono che la città fu fondata da un gruppo di Sabini guidati da un picchio, uccello sacro a Marte, nel tradizionale ver sacrum. I Sabini, poi, si sarebbero fusi con le popolazioni autoctone, dando origine ai Piceni, di cui Ascoli divenne il centro principale. Nel corso del tempo la città venne chiamata con il toponimo greco-romano di Ausculon ed Ausclos. Strabone la chiamò Asclon. La Tavola Peutingeriana la citò come Asclo Piceno.
Il toponimo Ascoli viene dagli studiosi attribuito a diverse radici: al termine ebraico Escol, traducibile con grappolo d'uva, forse in ricordo di vigneti ubertosi; alcuni ricollegano il toponimo alla radice egeo-anatolica "as", che esprime il concetto di "dimora" ed "insediamento urbano". Le fonti classiche, invece, narrano di un re Aesis, detto anche Esio, sovrano dei Pelasgi. Aesis fu colui che condusse la popolazione preellenica a risalire la costa adriatica, approndando alla foce del fiume Tronto. Questa narrazione, però, non ha ancora trovato riscontri archeologici.
Nel 299 a.C. la città si alleò con i Romani per contrastare gli Etruschi, i Galli ed i Sanniti e nel 269 a.C. divenne Civitas Foederata a Roma. Nel 91 a.C., però, si ribellò a Roma con altre popolazioni italiche e dette vita alla Guerra Sociale. Nell'89 a.C. il generale romano Gneo Pompeo Strabone conquistò Ascoli dopo un lungo assedio e trucidò i capi della rivolta, esiliando il resto degli abitanti. Nell'88 a.C. la città fu iscritta alla tribù Fabia e solo nell'80 a.C. le venne riconosciuta la cittadinanza romana. Giulio Cesare, nel 49 a.C., le diede l'appellativo di Picenum. Nel III secolo d.C. fu eretta a provincia autonoma con il nome di Picenum Suburcarium.
Per due secoli, dopo la caduta dell'impero romano, Ascoli fu sotto il dominio del Ducato di Spoleto (593-789), finchè non passò sotto i franchi di Carlo Magno. Fu, questo, il periodo in cui il potere dei cosiddetti vescovi-conti si fece sempre più forte e la città venne trascinata nella lotta tra guelfi e ghibellini. Nel 1183 Ascoli si costituì in libero comune e venne saccheggiata dalle armate imperiali di Federico II.
Il centro di Ascoli Piceno è interamente costruito in travertino, cavato dal territorio circostante, e si incentra nella rinascimentale piazza del Popolo e su piazza Arringo, la piazza più antica di Ascoli, dove si trovano il medioevale Battistero di San Giovanni, la Cattedrale di Sant'Emidio, con la cripta del santo patrono, il palazzo dell'Arengo ed altri edifici comunali.
Tra i monumenti più importanti vi è il ponte romano di Solestà, che può essere visitato anche all'interno. Ascoli ospita, anche, i resti del teatro romano e le grotte dell'Annunziata, enorme costruzione dell'epoca romana. Da menzionare, anche, la Fortezza Pia ed il Forte Malatesta, il palazzetto Longobardo con la torre degli Ercolani, una delle poche superstiti documentate dalle cronache medioevali.

La raffinata arte dell'Islam in mostra


Per la prima volta esce dal Kuwait una selezione di opere della collezione al-Sabah, unica nel suo genere, che ripercorre, attraverso 350 oggetti per un terzo inediti, mille anni di storia dell'arte islamica. La collezione sarà esposta a Milano, nell'ambito della mostra "Arte della civiltà islamica" che è in programma a Palazzo Reale fino al 30 gennaio 2011.
Gli oggetti raccolti vanno dal VII al XVII secolo e provengono dalle regioni in cui l'Islam è stato maggiormente presente, in quel lasso temporale: dalla Spagna all'Estremo Oriente. Sarà possibile ammirare tappeti e tessuti, raffinati metalli cesellati, ceramiche, sculture, miniature, preziosi gioielli ed oggetti in avorio.
L'esposizione è curata dal professor Giovanni Curatola, docente di Archeologia e storia dell'arte musulmana alle Università di Udine e Milano. Il progetto avviato dal professore prevede anche la creazione, in futuro, di un nuovo museo d'arte del Kuwait che ospiterà definitivamente questa preziosa collezione.
La mostra si divide in due parti: la prima parte è un percorso cronologico in quattro tappe, dagli inizi fino ai tre grandi imperi cinquecenteschi, Ottomani, Safavidi e Moghul. Nella seconda parte si approfondiscono alcuni temi trasversale all'arte musulmana: calligrafia, decorazione geometrica, arabeschi ed arte figurativa. Chiude la mostra una sezione dedicata ai gioielli ed alla numismatica.
Si potranno ammirare oggetti veramente notevoli, dalle pagine del Corano magistralmente dipinte ai libri e manoscritti miniati in modo superbo; dai capitelli marmorei con iscrizioni alle scatole d'avorio con decorazioni di uccelli e piante; dalle brocche di bronzo ai bicchieri ed ai vasi di vetro smaltato in diversi colori e disegni; tessuti in lana, velluto e seta; piatti e coppe in ceramica, collane e bracciali, diamanti e pietre preziose; pugnali di giada con rubini e smeraldi; ante di armadio in legno decorato; lastre tombali con iscrizioni ed anche scacchi in cristallo di rocca.

martedì 19 ottobre 2010

Le rotte dei Fenici


La storia fenicia inizia intorno al 1200 a.C., dopo il vento impetuoso rappresentato dai cosiddetti "popoli del mare". Città-stato ed imperi crollarono, lasciando il posto ad una popolazione di origine semitica: i Fenici. Il nome Fenici è di origine greca, probabilmente fu Omero per primo ad utilizzarlo con il nesso al termine phoinix, "rosso porpora", che si riferiva all'industria della colorazione delle vesti, derivata dal Vicino Oriente, e di cui i Fenici erano maestri.
Prima di Omero, nei testi micenei di Cnosso e di Pilo (XIV secolo a.C.), compaiono l'aggettivo femminile po-ni-ki-ja, con il significato di "rosso" riferito ad un carro, ed un sostantivo po-ni-ki-jo, riferibile ad una pianta oppure ad una spezia.
Intorno al 1100 a.C., sulla striscia di territorio abitata da queste popolazioni semitiche che i Greci chiamano Fenici, al predominio egiziano sulle tre provincie di Ube, Canaan e Amurru, subentra quello assiro con Tiglatpileser I (1112-1074 a.C.), che, però, non riuscì a controllare stabilmente il territorio. Alla città di Sidone, che emergeva in questo periodo, subentrò ben presto Tiro, che intraprese una fortunata campagna commerciale con il vicino stato d'Israele. Non solo, le navi di Tiro si spinsero ben presto verso Ofir (forse in Somalia o in Nubia), da dove provenivano oro ed incenso e verso Tarshish, l'antica Tartesso, odierna Cadice, in Spagna, da dove provenivano notevoli quantità di minerali.
Questi contatti commerciali permisero ai Fenici di fondare molte colonie, la più famosa delle quali fu Cartagine, nell'814-813 a.C.. Ma la presenza assira si fece sempre più pericolosamente pressante, fino all'istituzione, nel 743 a.C., di una provincia con capoluogo Sumura. Asarhaddon, re assiro, stipulò, poi, un trattato di regolamentazione dei commerci con Baal, re di Tiro.
Alcuni studiosi ritengono che la colonizzazione fenicia del Mediterraneo risalga all'XI secolo a.C., con la fondazione di Cadice, di Utica e di Lixus. A Cipro, isola del rame per definizione, l'impianto urbano di Kition, colonia di Tiro, risale al IX secolo a.C.. L'isola ebbe forse la funzione di diffondere in tutto il Levante, idee e tecniche nate nel Vicino Oriente.
Dall'VIII secolo a Rodi era presente una comunità fenicia a Rodi, che si dedicava al commercio di olii aromatici. Allo stesso secolo risalgono i contatti tra i Fenici e l'isola di Malta, fornita di porti molto sicuri per i naviganti. Anche la Sicilia fu meta dei commerci fenici che penetrarono nel Tirreno servendosi dell'avamposto Ischia-Pithecoussa, per poi raggiungere le coste etrusche e la Sardegna, ricca di metalli. Tra gli empori fenici si annoverano Tharros, Nora, Cagliari, Mozia, Palermo e Lilibeo.
Tharros sorgeva su capo S. Marco, che chiude ad occidente il Golfo di Oristano. Nel VI secolo a.C. assunse un'importanza strategica estremamente importante per le rotte che si dirigevano in Spagna e sulle coste della Gallia.
Il nome punico di Cagliari, Krl, è attestato da iscrizioni del III secolo a.C., ma l'abitato era attivo già dal VII secolo a.C. e sfruttava appieno la posizione al centro di un golfo a ridosso di un'area lagunare che offriva, oltre ad un approdo sicuro, anche una buona produzione di sale marino e di pesce.
Nora sorge sulla penisola di Pula, 30 chilometri ad ovest di Cagliari. Le fonti vogliono sia stata fondata da Norace. Le prime testimonianze archeologiche risalgono al VII secolo a.C., anche se il rinvenimento della stele iscritta in paleofenicio ha retrodatato al IX secolo a.C. la presenza di un centro abitato. Nora aveva ben tre porti.
Mozia, in Sicilia, reca testimonianze tra le più antiche della storia fenicia nel Mediterraneo. Risalgono all'VIII secolo a.C. delle tombe provviste di corredi con vasi per contenere le ceneri del defunto. Gli scavi attualmente hanno riportato alla luce, oltre alla necropoli, anche la cinta muraria, lunga 2375 metri, con due porte di accesso e torrioni di rinforzo, due santuari, un tofet, una zona industriale, resti dell'abitato e del cothon (o porto interno) datato inizialmente al VI secolo a.C., ora collocato, invece, al IV.
Palermo era, forse, chiamata Ziz, dai Fenici, almeno da quel che risulta da una moneta. Era la base cartaginese più importante, dove arrivavano le flotte dalla madrepatria. Non si sa molto dell'antica Palermo fenicia, a parte una necropoli punico-romana nella zona di piazza Indipendenza, con tombe ricche di corredi ceramici costituiti da materiale fenicio-punico e greco d'importazione ed imitazione. L'antico abitato era delimitato da due corsi d'acqua: Papireto e Kemonia.
Lixus era situtata, invece, sulla costa atlantica dell'attuale Marocco, su una collina alta 80 metri, ed era un vero e proprio punto di riferimento avvistabile anche da molto lontano. Oggi si trova a ben 1500 chilometri dal mare. Era circondata da mura difensive che racchiudevano abitazioni e santuari. E' tra le più antiche colonie fenicie. Veniva designata con due toponimi: MQM SMS, vale a dire "dimora di SMS", il dio del sole semitico.

Egli ha demolito, egli ha costruito


Una squadra di ricercatori ha portato a compimento lo scavo di un tempio di 2700 anni fa nell'antica città di Tayinat, nel sud-est della Turchia, scoprendo le prove che gli abitanti più in vista di questa città avevano esposto, proprio nel tempio, una tavolettaa comprovante la loro lealtà agli eredi di un famoso re Assiro.
Nel loro periodo di massima espansione, gli Assiri controllavano un impero che si estendeva dal sud dell'Iraq alle coste del Mediterraneo. Sia nell'arte che nella letteratura, i re Assiri erano ritratti come i sovrani della totalità del mondo conosciuto e considerati l'autorità assoluta, in quanto rappresentati terreni e personificazione del dio Assiro Ashur.
La città di Tayinat è stata costruita sulla piana di Amuq, sulle rive del fiume Oronte, vicino all'odierno confine con la Siria. Gli archeologi pensano che questa sua collocazione ne facesse una sorta di crocevia che metteva in comunicazione l'Anatolia, la Mesopotamia ed il Levante, permettendo, nel contempo, a Tayinat di godere di un invidiabile benessere economico. L'impero Assiro conquistò la città nel 738 a.C., e vi installò un governatore. Il tempio riportato alla luce presenta una lunghezza di 12 metri per un'ampiezza di sei ed è precedente alla conquista assira, essendo stato costruito contemporaneamente alla città.
La scoperta permette di conoscere il modo in cui gli Assiri controllavano Tayinat. Con molta cautela, eseguendo e controllando ogni rilievo, la squadra di archeologi ha scoperto che la tavoletta recante il giuramento di lealtà al re Assiro era stata sulla piattaforma, all'interno della cella del tempio, in una parte dell'edificio conosciuta anche come "il santo dei santi". La piattaforma presenta mattonelle d'argilla.
Il giuramento inciso sulla tavoletta dichiara che il governatore della città, e forse anche altri cittadini, avrebbero riconosciuto Ashurbanipal come l'erede al trono dell'impero Assiro, alla morte di suo padre, il re Esarhaddon. Simili giuramenti sono stati ritrovati nel sito di Nimrud, nell'attuale Iraq.
La tavoletta fa riferimento al 18° giorno del secondo mese dell'anno 672 a.C.. Accanto a questa tavoletta ve ne erano una serie di otto, che riportavano i nomi di alcuni mesi e giorni fausti per portare a termine determinate cose. Molto verosimilmente queste tavolette, chiamate Iqqur Ipus, di cui alcuni esempi simili sono stati ritrovati in tutta la Mesopotamia, dovevano essere appese al muro. Il termine Iqqur Ipus significa, letteralmente, "egli ha demolito, egli ha costruito", perchè la maggior parte delle tavolette riguardano i mesi favorevoli in cui costruire nuovi edifici o, viceversa, demolirli.

venerdì 15 ottobre 2010

Quei tesori di Traci


Nel 46 d.C. Claudio concesse la cittadinanza romana ai Traci. La Tracia corrispondeva agli attuali territori di Bulgaria, Turchia e Grecia e tramandò al mondo una civiltà ricchissima che gli archeologi continuano a mostrarci attraverso i ritrovamenti.
Secondo il mito, i re delle prime tre tribù di Traci (Bitinio, Dologo e Tireo) discendevano da Oceano e dalla sirena Partenope, attraverso la loro figlia Tracia, che si unì a Zeus, a Crono ed al gigante Obriareo. I Traci immaginavano i loro dei con gli occhi azzurri ed i capelli rossi. Erodoto descrive il pantheon trace, che consisteva in una divinità principale, chiamato Plistor, mentre altre divinità derivavano dal pantheon greco
Esempio della splendida civiltà dei Traci sono, sicuramente, i tesori, le pitture murarie ed il tempio fortezza di Perperek, scavato nella roccia, grande quanto l'Acropoli di Atene.
Dal punto di vista culturale i Traci sicuramente influenzarono la civiltà occidentale, come dimostra Orfeo, che la tradizione narra essere figlio del re tracio Eagro e della musa Calliope. Per i Traci era uno sciamano capace di parlare con la natura ed in grado di scendere nell'oltretomba per trarne un'anima particolarmente meritevole.
I Traci non erano barbari. Platone, nella "Repubblica", descrive la festa in onore della dea Bendis (identificata con Artemide), che si celebrava nei pressi del Pireo, il porto di Atene, tra il 420 ed il 425 a.C.. L'alleanza con i Traci interessava molto i Greci, che concessero la cittadinanza onoraria a Sadoco figlio del re Sitalce, il cui regno era nato dall'unione di diverse tribù tracie. Malgrado, però, la loro notevole abilità artistica, i Traci erano illetterati, che trasmettevano oralmente i loro insegnamenti. Gli storici ritengono che essi fossero un popolo indoeuropeo che, a partire dal XIV secolo a.C., viveva in una regione compresa tra le isole dell'Egeo settentrionale e le steppe del nord del Danubio.
I Greci del V secolo a.C. definirono Trakes tutte le tribù che vivevano nel territorio che si estendeva a nord della Grecia fino al Danubio. Erodoto scrisse che i Traci e gli abitanti dell'India, erano le genti più popolose di tutte. Gli etnologi sono sempre più orientati a ritenere che i Traci fossero una popolazione indoeuropea originaria delle steppe asiatiche che, nel XIV secolo a.C., migrò nei Balcani. Omero accenna alla splendida civiltà dei Traci, splendore confermato dal ritrovamento del tesoro di Vulchitrun, un villaggio della Bulgaria centrosettentrionale, risalente al 1300 a.C.. Sempre Omero cita un re Trace, Reso, che combatté a fianco di Priamo nella guerra di Troia, e cita anche Licurgo, Tereo, il vento Borea, il dio Zalmoxis, al quale si ricongiunge l'anima dopo la morte.
Uno dei tratti distintivi dell'arte tracia è sicuramente la rifinitura dei finimenti dei cavalli, per la quale non si risparmiavano certo i metalli preziosi. Molti reperti testimoniano i contatti tra i Traci e la civiltà micenea sorta sull'isola di Creta. Il contatto con i Fenici determinò una seconda fioritura della civiltà dei Traci. I Greci fondarono le loro prime colonie in Tracia nel VII secolo a.C., tra le quali spiccava Apollonia Pontica (Sozopul, in Bulgaria), che derivava il suo nome dal dio Apollo, la cui statua bronzea di dieci metri di altezza, opera di Kalamis, uno dei più importanti scultori del V secolo a.C., sovrastava il porto.
Nel 513 a.C. i Persiani occuparono la Tracia, annettendo il territorio compreso tra l'Egeo e la catena montuosa del Rodope. Proprio il contatto con i Persiani, unitamente a quello con i Greci, permise ai Traci di utilizzare arti e tecniche altrui in una sintesi estremamente interessante.
Alla morte di Alessandro Magno, il suo generale Lisimaco ottenne la Tracia, dove vi fondò Lisimachea, nel 309 d.C., sconfiggendo Seute III, re degli Odrisi. Costui, sconfitto, fondò, al centro del paese, una città chiamata Seutopoli, distrutta durante le invasioni celtiche del 273 a.C.. Oggi i suoi resti sono occupati dal lago artificiale di Koprinka. Nei dintorni di Seutopoli si trova la necropoli conosciuta oggi come la "valle dei re" traci, che conserva alcune delle tombe più importanti e ricche dell'aristrocrazia tracia. Seutopoli era essenzialmente la sede del re e della corte. All'interno delle mura vi erano gli edifici ufficiali. L'edificio più importante era sia palazzo reale che tempio dei Cabiri, venerati come grandi dei in un culto misterico che aveva al centro l'isola di Samotracia.
Sotto il dominio romano la Tracia conservò la sua importanza strategica e fu importante "esportatrice" di gladiatori (tra i quali è da annoverare Spartaco), nonchè nota per le sue miniere aurifere, i vini e le rose. Un altro motivo di notorietà della Tracia era dovuto alla diffusione del culto dell'immortalità dell'anima.
Il tesoro ritrovato casualmente a Panagyurishte, nella Bulgaria occidentale, nel 1949, offrì al mondo lo spettacolo della ricchezza dei traci. Questo tesoro è datato al alla fine del IV secolo a.C. ed è custodito nel Museo di Sofia. E' formato di nove oggetti d'oro a 23 carati, appartenente probabilmente al re tracio Seute III. La maggior parte dei pezzi consiste in ritoni, contenitori per bere a forma di corno o di testa animale, impiegati nelle libagioni rituali. Realizzato forse a Lampsaco, sullo stretto dei Dardanelli, il tesoro è importante per comprendere i rapporti tra Greci, Macedoni e Traci.

Una villa nel verde


Il fiume Panaro permetteva, ai centri sorti nella valle, di approvvigionarsi di acqua. Gli archeologi hanno sempre saputo che questa era una zona ricca di reperti e di testimonianze antiche. Paesi come Spilamberto, ricco di ritrovamenti che vanno dalla preistoria all'età romana, al medioevo ed ai Longobardi o Savignano sul Panaro, sede di un villaggio preistorico scoperto durante gli scavi per la costruzione del municipio e luogo di rinvenimento dell'idoletto del paleolitico passato agli onori della cronaca con il nome di "Venere di Savignano", nonchè di un'importante necropoli villanoviana, non mancano mai di rivelare, in occasione degli scavi per la costruzione di edifici o di opere civili, vestigia del passato.
La costruzione di una rotonda, la primavera scorsa, in località Magazzino di Savignano, ha fatto emergere dal terreno, a circa un metro da terra, una grande quantità di laterizi in ceramica (mattoni, tegole, cocci di vasi), nonchè una serie di tesserine cubiche dai colori neutri e chiari, che hanno permesso di ritrovare una porzione di mosaico intatta di fattura romana, databile al I-II secolo d.C.
Il sito era stato già scavato nel '700 e quindi molti manufatti sono stati già asportati, come anche parte del mosaico, in opus tessellatum (un tipo di mosaico a cubetti fino 2 centimetri di lato utilizzato per bordure, fondi o disegni geometri) adiacente ad un altro pavimento, costruito in opus signinum. La presenza di questo elemento decorativo, la posizione dell'edificio di cui faceva parte e la presenza di mattoni dal profilo circolare, lasciano intuire la presenza di colonne, hanno portato gli archeologi alla conclusione che si sia in presenza di una "villa rustica" romana, corrispondente all'odierna azienda agricola, un tipo di costruzione che si diffuse nel III secolo a.C..
Nella sua forma base la villa rustica era composta da diversi edifici suddivisi in due parti: la pars dominica, abitata dai proprietari, e la pars massaricia, fulcro dell'economia della casa, che comprendeva l'area in cui vivevano gli schiavi e quella in cui venivano effettuati i lavori di pressatura delle olive per l'olio o dell'uva per il vino (pars fructuaria).
Intanto gli archeologi stanno rimuovendo il prezioso mosaico, che verra ricoperto da una colla idrosolubile e sollevato dalla base per poter essere trasportato in laboratorio, restaurato e reso disponibile agli occhi dei visitatori del Museo Archeologico di Modena.

giovedì 14 ottobre 2010

I servitori del sol levante


Il periodo che vede la maggiore fortuna dei samurai è l'epoca Kamakura, che va dal 1185 al 1333, coincidente con la legittimazione dello Shogun, il "generale supremo contro i barbari", quale effettivo regnante del Giappone, mentre l'Imperatore si limitava a rivestire solamente un ruolo sacrale.
Etimologicamente la parola samurai deriva dal verbo "servire" ed era applicata sia ai militari di basso rango che ai guerrieri di alto grado. Con il tempo i samurai divennero un corpo sempre più compatto ed istituzionalizzato, una sorta di guarnigione, obbligati a tenere una vita ascetica e ad esercitare una severissima autodisciplina corporale. Un tipico samurai fu certamente Miyamoto Musashi (1584-1645), che si distinse anche come scrittore e pittore. Era abilissimo nell'utilizzo delle due spade che ogni samurai portava con sé.
Il ruolo del samurai entrò in crisi durante un lungo periodo di pace forzata, più di duecento anni, dal 1603 al 1868. In questi duecento anni, i samurai furono esortati a coltivare arti diverse da quelle militari, come gli studi e la cultura. Nel bushido ("via del guerriero", una sorta di codice della classe militare), la morte al servizio del signore costituiva, per il samurai, l'espressione suprema della lealtà.
I samurai, come i guerrieri occidentali dell'epoca, indossavano una corazza da parata, costituita da placche di ferro e di lacca finemente decorate, con imponenti elmi completati da una maschera di cuoio che aveva, spesso, le sembianze di un demone. Nel combattimento, però, preferivano un'armatura di listelli di bambù estremamente leggera, che permetta libertà nei movimenti. La spada che essi recavano e di cui erano abili maestri, non era utilizzata solo contro il nemico, ma poteva essere utilizzata anche contro se stessi. Il seppuku era il rituale del suicidio del samurai, che gli occidentali conoscono come harakiri. Entrambi i termini hanno il significato di "taglio del ventre", eseguito obbedendo ad una serie di regole estremamente rigide. Il taglio doveva essere praticato all'addome e seguendo uno schema a forma di "L": da sinistra verso destra, poi verso l'alto. La posizione che, in questi casi, si assumeva era quella classica giapponese, detta seiza, cioè seduta sui talloni, con le punte dei piedi rivolte posteriormente. Il guerriero doveva mantenere un aspetto composto ed onorevole anche nella morte.
I samurai medioevali combattevano come arcieri a cavallo, lanciandosi in furiosi duelli con arco e frecce a distanza ravvicinata. Il tiro poteva essere effettuato solo alla sinistra della testa del cavallo. L'arco utilizzato aveva una parte esterna di bambù ed una interna di legno, tenute insieme da colla di pesce e corde di seta o di altri materiali. Lunghi anche più di 2,5 metri, gli archi dei samurai erano asimmetrici, con l'impugnatura a circa un terzo della base. I cavalli montati dai mitici guerrieri giapponesi, erano anch'essi particolari: la loro sruttura fisica influenzò fortemente il modo di combattere dei samurai. In media i cavalli misuravano solo 130 centimentri al garrese. Durante il combattimento a cavallo, il samurai era protetto dalla tipica corazza chiamata oyoroi, formata da oltre 2000 lamelle di cuoio sovrapposte, per un centimetro di spessore e per circa 30 chilogrammi di peso. La kenuki-gata tachi, a noi meglio nota come Katana, era l'anima del samurai. Si stima che, ancora oggi, ne siano conservate ben 3 milioni.

mercoledì 13 ottobre 2010

La città scomparsa di Claterna


Il territorio di Ozzano Emilia ospita una delle più interessanti realtà archeologiche dell'Emilia Romagna, l'antica città di Claterna, i cui resti, però, non emergono in superficie. Ogni tanto i contadini ritrovano frammenti di vetri, ceramiche, mattoni e tessere di mosaico.
Il nome di Claterna deriva alla città dal fiume che tuttora la bagna, il Quaderna. Gli studiosi ritengono sia di origine etrusca. La città viene, per la prima volta, menzionata nel 43 a.C., quando Aulo Irzio la espugna e vi si attesta per rafforzare le forze che combattono a favore di Ottaviano contro Marco Antonio. Le fonti scritte ritrovate in situ, incise sulla pietra, sono dediche a personaggi di rango, imperatori e divinità.
Le prime tracce umane, sul territorio dove più tardi sorgerà la città romana di Claterna, risalgono al Paleolitico e sono attrezzi litici in selce, ritrovati nel corso del fiume Quaderna. Gli insediamenti umani veri e propri si consolidarono durante l'Età del Bronzo: sorsero grandi villaggi che perdurarono fino al II millennio a.C., quando in Italia comparve la civiltà Villanoviana. Proprio il periodo villanoviano portò la civiltà etrusca che, in Emilia, fondò l'importante città etrusca di Felsina (Bologna).
Un'altra fase di notevole importanza per il territorio in cui nacque Claterna, fu quella caratterizzata dall'arrivo dei Celti suddivisi in grandi tribù come quella dei Boi (forse provenienti dall'attuale Boemia). L'incontro-scontro tra la civiltà etrusca e quella celtica fu devastante per la prima, prima di determinarsi in una sorta di fusione etrusco-celtica. In località Monte Bibele, non lontano a Monterenzio, è stato scavato un villaggio in cui visse una popolazione dai tratti culturali misti ed anche a Claterna sono stati ritrovati degli ornamenti con chiare influenze celtiche.
I Romani, nella regione compresa tra gli Appennini ed il Po, comparvero nel 268 a.C., quando fondarono la colonia di Ariminum (Rimini) in pieno territorio celtico. L'etrusca Felsina fu rifondata come colonia romana con il nome di Bononia nel 189 a.C.. Le origini di Claterna sembrano più oscure di quelle di Felsina, a parte l'origine etrusca. Gli archeologi ritengono che il centro si coagulò nell'area del fiume Quaderna durante la prima metà del II secolo a.C..
Quel che è certo è che Claterna fu, all'inizio, un villaggio con la funzione innanzitutto itineraria, collocato com'era all'incrocio tra la via Aemilia ed una via che gli studiosi ritengono sia la Flaminia Minor (entrambe vie consolari realizzate nel 187 a.C.). La seconda funzione di Claterna era di natura economica e sociale, fungendo la città da centro di riferimento per il territorio circostante. Nel I secolo a.C., probabilmente sotto Giulio Cesare, la città divenne amministrativamente autonoma e fu elevata a rango di municipio confinante ad ovest con Bononia e ad est con Forum Cornelii (attuale Imola). I primi secoli dell'impero furono quelli durante i quali fiorì pienamente Claterna.
La città aveva un impianto urbano con isolati di forma e ampiezza variabili, dovuti ad un'urbanizzazione iniziale di tipo spontaneo e ad una successiva pianificata. Le strade furono realizzate con piani acciottolati. Il foro era, ovviamente, il centro della vita cittadina ed il luogo in cui erano concentrate le emergenze urbane. Fu scoperto nell'Ottocento, nel settore orientale della città, ma non si potuto arguire granchè degli edifici che vi erano ospitati o degli spazi pubblici, come i templi, che vi si trovavano. Le emergenze più individuabili sono le domus, case private di personaggi in vista, che mostrano di possedere un atrium, come la più classica delle abitazioni romane, ed ambienti con preziosi pavimenti in mosaico o in cotto.
La crisi, per Claterna, sopravvenne con il cambiamento delle strutture economiche, sociali e politiche dell'Impero, durante il III secolo d.C., che vide l'arrivo delle prime incursioni barbariche anche nel centro della penisola. Lentamente la città si impoverì lentamente. Il centro urbano si spopolò e non venne mai più rioccupato. Nel V secolo d.C. della città non rimase resto visibile.
La scoperta della città sparita di Claterna è dovuta agli scavi di Edoardo Brizio, direttore del Museo Civico di Bologna, e, in seguito, di Salvatore Aurigemma. Furono messi in luce, all'inizio, alcuni tratti di strada e parti di case riconosciute come romane, con pavimenti in mosaico ed in cocciopesto. Negli anni '30 si rinvennero alcune interessanti pavimentazioni oggi esposte a Bologna.

martedì 12 ottobre 2010

Campagna di scavi con sorpresa a Lanuvio


Durante la quarta campagna di scavo del tempio di Giunone Sospita a Lanuvio, gli archeologi hanno effettuato un'importante scoperta. Oltre ad importanti certezze acquisite sull'edificio di culto della dea, nell'area dell'ex uliveto Frediani-Dionigi, come isolare un imponente muro di terrazzamento pertinente alla fase tardo-repubblicana del santuario, è tornata alla luce una testa marmorea di fanciullo di età giulio-claudia, in eccellente stato di conservazione, che è stata gettata nel riempimento di età medio/tardo-imperiale di una intercapedine per il drenaggio delle acque.
Il tempio di Giunone Sospita di Lanuvio risale al VI-V secolo a.C. e domina, da un colle, l'abitato laziale. In questo luogo, anticamente, era collocata l'acropoli della città latina. Dallo studio delle terrecotte ritrovate sono state individuate tre fasi edilizie, nella storia del tempio. La prima risale alla fine del VI secolo a.C., la seconda si colloca nel periodo medio repubblicano (IV-III secolo a.C.), con una relazione accertata con la sconfitta della Lega Latina del 338 a.C., l'ultima fase è fatta comunemente risalire alla metà del I secolo a.C. e messa in relazione alla famiglia Murena (lanuvina) ed in particolare a L. Licinius Murena che, nel 62 a.C., rivestì il consolato.
Il portico è ad arcate con semicolonne doriche, in opera mista, e, probabilmente, era a due piani. In fondo al portico c'è una porticina che dà accesso a diversi cunicoli che molti ritengono siano le grotte dove la credenza popolare voleva vivesse il serpente sacro a Giunone Sospita. Sappiamo, infatti, sia da Properzio che da Eliano che nel santuario, ogni anno, all'avvento della primavera si svolgeva una cerimonia: alcune fanciulle dovevano porgere delle focacce ad un grosso serpente che si trovava all'interno di un antro. Se l'animale accettava il cibo che gli veniva offerto (indizio della verginità della fanciulla che glielo porgeva), si prospettavano raccolti fecondi. In caso contrario la fanciulla veniva sacrificata per scongiurare la carestia.
Dalla parte opposta del portico si trova un pilone quadrato in peperino, residuo di un arco di ingresso all'acropoli. Vicino sono stati ritrovati i frammenti di un gruppo marmoreo di statue equestri con la lorica, attualmente conservate al British Museum ed al Museo di Leeds. Testi epigrafici hanno permesso di conoscere i restauri effettuati da Adriano, dal momento che il tempio era in completa rovina.
Originariamente, nel luogo in cui i Romani collocarono il culto di Giunone Sospita, doveva venerarsi una divinità agreste della fertilità, collegata, forse, ai fenomeni di vulcanesimo secondario che pare abbiano dato origine alla tradizione del serpente nascosto nelle grotte. In epoca classica, il culto di questa divinità agreste si fuse con quello di Giunone e sorse un tempio con un relativo bosco sacro. L'epiteto "sospita" deriverebbe, secondo alcuni studiosi, da "sispes-sispita" o "sospes-sospita" che si collega, a sua volta, all'appellativo Soter (Salvatore) attribuito a Zeus.

lunedì 11 ottobre 2010

Magiche trasparenze del vetro


Alla fine del V secolo a.C. l'idea del lusso sfrenato, per un cittadino del mondo greco, era bere vino non annacquato in conentitori di vetro e d'oro. Presso i Romani dell'epoca di Gallieno (259-268 d.C.) il vetro era bandito perchè considerato un materiale assai vile e comune.
In età classica ma anche in età ellenistica (V-II secolo a.C.), la preziosità del vetro era direttamente proporzionale alla sua difficile realizzazione. Il vetro era colato in stampi dai quali uscivano prodotti che avevano bisogno di una tecnica piuttosto laboriosa di rifinitura. Le decorazioni erano ottenute lavorando il prodotto ancora caldo mentre ruotava lentamente sul tornio, simile a quello usato dai ceramisti. Altre tecniche si affiancavano a questa, come quella detta "a nucleo friabile", che permetteva di modellare il vetro fuso su un nucleo di argilla, eliminato al termine del lavoro. Queste tecniche erano padroneggiate da una ristretta cerchia di maestranze, il che faceva notevolmente lievitare il loro prezzo sul mercato, destinandoli ad una classe sociale piuttosto elevata.
Intorno alla metà del I secolo a.C. un anonimo vetraio siriano o plaestinese, fece una scoperta casuale ma rivoluzionaria, per la lavorazione del vetro: la soffiatura. I primi vetrai che utilizzarono questa tecnica rivoluzionaria realizzarono canne con l'argilla che, in seguito, fu sostituita dal ferro. Le canne di argilla più lunghe di un metro, infatti, correvano il rischio di spezzarsi al centro, specialmente se il globo vitreo lavorato era molto pesante.
La soffiatura (che in latino era resa come flatu figurare, "modellare con il fiato") era facile da apprendere, molto economica e, soprattutto, molto veloce. Il vetro, pertanto, cominciò ad essere talmente diffuso da provocare una caduta verticale dei prezzi. Strabone, vissuto tra il 64 a.C. ed il 24 d.C., afferma che per acquistare una coppa di vetro era sufficiente una moneta di bronzo. Il vetro era così diffuso non soltanto perchè abbastanza economico, ma anche perchè aveva altre qualità. Petronio fa dire al suo personaggio Trimalchione che il vetro "non olet", non puzza. Il vetro è insapore ed inodore. Apicio, noto per le sue raccolte di ricette, consiglia la conservazione dei cibi sotto vetro. Il vetro era, inoltre, estremamente bello e malleabile e si prestava ad assumere le forme più disparate ed innovative. Inoltre possedeva la capacità di rendere meravigliosamente i colori. L'aggiunta di ossidi o dell'antimonio rendeva perfettamente trasparente il vetro oppure era capace di donargli colorazioni blu, gialle, rosse, verdi.
Nel I secolo d.C. la tecnica si evolse a tal punto che maestranze venete finirono per creare le murrine, che grazie alle manifatture bizantine, sono giunte intatte fino ai nostri giorni.
Sin dal V secolo a.C. anche i filosofi ed i medici si resero conto delle potenzialità del vetro che, nelle adeguate concentrazioni, era in grado di catturare i raggi del sole. Aristofane, nella sua commedia "Le Nuvole", mette in scena un dialogo nel quale Strepsiade consiglia a Socrate di cancellare una multa di cinque talenti facendo sciogliere la cera delle tavolette sulle quali è iscritto il testo, mediante una lente di cristallo, facilmente acquistabile al mercato. Dal punto di vista dell'ottica, purtroppo, non abbiamo alcuna testimonianza antica, anche se l'esistenza di lenti correttive è dimostrabile grazie a ritrovamenti archeologici. Già nel palazzo del re assiro Sargon II (722-705 a.C.) fu rinvenuta una lente in cristallo di rocca, convessa, che ingrandiva e consentiva un'ottima messa a fuoco.

sabato 9 ottobre 2010

Medioevo in Siberia

Gli archeologi siberiani hanno scoperto delle antiche sepolture che appartengono ad una civiltà sconosciuta, nella regione di Krasnoyarsk. La scoperta è stata effettuata mentre gli archeologi stavano studiando un territorio che diventerà una riserva naturale.
Questo sconosciuto gruppo umano viveva lungo il fiume Angara circa un migliaio di anni fa, prima dell'arrivo dei Tungus, gli antenati degli attuali Evenks. Tutte e trentuno le sepolture del cimitero medioevale sono state scavate con un medesimo rituale. I corpi sono stati cremati e lasciati là dove era stato apprestato il rogo funebre. Gli archeologi hanno ritrovato armi, cinture, vari tipi di gioielli, pentole per il cibo. Diverse sepolture appartengono a persone di riguardo, sepolte con gli oggetti che erano appartenuti loro quando erano in vita.
In totale, gli oggetti rinvenuti dagli archeologi ammontano a più di diecimila. Gli studiosi potranno determinare chi era questa gente solo attraverso lo studio di quanto è stato ritrovato. Comunque una cosa è certa: questa gente aveva stretti contatti con altre popolazioni degli Urali e del Kyrgyzistan.
La spedizione dell'Istituto di Archeologia ed Etnografia della Siberia - una branca dell'Accademia Russa delle Scienze - ha scavato in questo sito negli ultimi tre anni. Quest'anno circa un centinaio di archeologi ha potuto studiare tre distinti livelli di culture appartenenti all'Età della Pietra, a quella del Bronzo ed al Medioevo.
(Foto: archaeologydaily.com)

lunedì 4 ottobre 2010

Il faraone delle sabbie


Una squadra di archeologi egiziani ha scoperto la parte superiore di una statua del faraone Amen-hotep III, che regnò in Egitto dal 1390 al 1352 a.C. e fu padre di Akhenaton e nonno di Tutankhamen.
La statua è di granito rosso e misura 1,30 metri di altezza per 95 centimetri di larghezza, è stata ritrovata nel sito dove il faraone si era fatto costruire il tempio funerario a Kon el-Hittan, sulla sponda occidentale del Nilo, a Luxor. In origine, hanno supposto gli archeologi, la statua doveva arrivare ai tre metri di altezza.
L'annuncio della scoperta è stato fatto dal ministro della cultura egiziano Farouk Hosny e dal capo delle antichità Zahi Hawass. Amen-hotep III è rappresentato sul trono, accompagnato dal dio Amon, indossa la corona doppia d'Egitto, decorata con l'ureo.
Il tempio funebre del faraone aveva, originariamente, due ingressi: uno sul lato orientale, dove oggi sono visibili i famosi Colossi di Memnone, ed uno sul lato settentrionale, dove è stata ritrovata la statua.

Un santuario in Sardegna


(Fonte: Unione Sarda) Un telaio offerto in voto alla divinità ed un torciere in bronzo fenicio cipriota costituiscono le scoperte più importanti che gli archeologi hanno fatto nell'area del Cronicario a Sant'Antioco, durante la conclusa campagna di scavi. Questi reperti pongono, agli studiosi, nuovi problemi sulla frequentazione di quest'antico sito.
La ricerca rientra nell'ambito dei programmi di scavo annuali a cura dell'Università di Sassari in collaborazione con l'amministrazione comunale di Sant'Antioco. Quest'anno gli scavi hanno riguardato l'area contigua al santuario, scavato negli scorsi anni, dedicato ad una divinità femminile che gli studiosi ritengono essere Demetra, venerata per le sue funzioni taumaturgiche. Nello stesso luogo è stata rinvenuta un'officina artigiana, con stampi e punzoni, dove venivano realizzati gli ex voto da offrire alla dea.
Gli archeologi hanno individuto una stanza usata, si pensa, per consumare un banchetto sacro. Qui, insieme al telaio e ad altri ex voto costituiti da mascherine fittili, statuette femminili e parti anatomiche, gli archeologi hanno trovato anche del pentolame, i resti di un pasto ed oggetti da mensa. Gli oggetti, originariamente contenuti in vari armadi, sono stati ritrovati sparsi sul pavimento della stanza a piano terra, precipitati qui a causa di un cedimento del soffitto dove erano stati conservati.
Ora gli archeologi dovranno scoprire i motivi dela presenza, tra gli ex voto, del telaio e del corredo di una tessitrice a tombolo. "Potrebbe essere il dono fatto alla divinità da una fanciulla che, sposandosi, ha cambiato il suo stato sociale. Oppure potrebbe essere stato donato alla divinità dai parenti a seguito della morte della donna", ha spiegato Piero Bartoloni, docente dell'Università di Sassari e coordinatore degli scavi estivi a Sant'Antioco.
Gli scavi al Cronicario hanno anche conrermato l'ipotesi degli archeologi che il santuario potesse avere anche un culto più antico di quello relativo al tardo punico dell'età repubblicana e imperiale romana. La conferma si è avuta con il rinvenimento di una statuetta con disco al petto. Nell'ultimo giorno di scavi è stato rinvenuto un torciere di bronzo. L'oggetto di lusso di tipo fenicio cipriota, probabilmente risalente al VII secolo a.C., è stato ritenuto la prova della preesistenza, in situ, di un antico culto.

La Pompei dell'età della pietra norvegese


Gli archeologi norvegesi hanno trovato, in Norvegia, in un sito non lontano da Kristiansand, della ceramica dell'età della pietra che costituisce dei reperti tra i meglio conservati del paese.
Il sito è, in pratica, una
casa di pietra rimasta inalterata dal 3500 a.C., come se fosse stata coperta da una tempesta di sabbia. La catastrofe, avvenuta millenni fa, ha permesso agli studiosi di disporre di una serie di elementi concreti sui quali studiare l'antica storia della Norvegia: un intero corredo di recipienti e pentole che possono essere restaurate alla perfezione.
Il sito è stato attentamente scavato e pulito ed ha restituito, oltre al corredo anzidetto, anche tre grandi frammenti di ceramica, che si pensa possano costituire, non appena assemblati, ben otto bicchieri.
Il sito luogo di quest'importante scoperta si trova ad 11 metri sul livello del mare, attualmente, ma un tempo era a pelo d'acqua. La scoperta è stata effettuata a due metri di profondità, durante i lavori per la costruzione di una casa di riposo. All'epoca in cui le ceramiche ritrovate sono state plasmate, la Norvegia aveva un clima più secco dell'attuale. Le tempeste di sabbia erano frequenti, come dimostrano diverse sedimentazioni sabbiose.

domenica 3 ottobre 2010

La nascosta divinità etrusca della caccia


Molte divinità greche, specialmente quelle più note, passarono nel pantheon etrusco, che le adottò, cambiandone il nome. Tra queste la sorella di Apollo, Artemide, non fu tra le più popolari, pur essendo raffigurata, abbastanza spesso, sulle impugnature degli specchi in bronzo.
La dea era considerata, anche in Etruria, di ambito prettamente femminile, ma le furono dedicate solo poche iscrizioni e non si è avuta notizia di alcun ritrovamento di un tempio che le fosse dedicato. A tutt'oggi, inoltre, non si conoscono epiteti etruschi che le fossero attribuiti od un suo nome etrusco, come è stato per le altre divinità greche.
Nel VI secolo a.C., però, le offerte presentate all'altare del tempio di Menerva, nel santuario di Portonaccio a Veio, presentano due dediche votive su ciascun oggetto, ad Aritimi ed a Turan, le greche Artemide ed Afrodite. Più diffusa della forma Aritimi è la forma Artumes che è anche più vicina al termine greco originario e che è stata documentata in un graffito, ritrovato presso Gravisca, porto di Tarquinia, datato al VI secolo. Sempre Artumes è stato rinvenuto a Roselle, per l'offerta di una coppa attica, ed a Tarquinia nella consacrazione di una barretta oracolare presso l'Ara della Regina.
Dunque Artemide, od una divinità con caratteristiche simili ad Artemide, veniva adorata in Etruria nel VI secolo a.C. in associazione ad altre divinità femminili. Gli specchi figurati, però, mostrano Artumes con le caratteristiche proprie dell'Artemide greca. Uno specchio tardo arcaico la ritrae a cavallo di una cerva. E la divinità è sempre sola e non presenta le caratteristiche proprie di una divinità adorata.
Le altre attestazioni sono rappresentate da conversazioni divine in cui la dea è associata al fratello Apollo e, in alcuni casi, a Latona (in etrusco Letun), madre di entrambi. Il carattere vendicativo e pericoloso della Artemide etrusca, proprio anche della sua "collega" greca, viene chiaramente rappresentato nella scena su uno specchio in cui è raffigurato il rapimento di Arianna/Estia dopo la sua unione con Dioniso/Fufluns. Qui Artemide, richiamata nella variante Artames del nome, ha con sé un arco e richiama la funzione di angelo della morte inviato dagli dèi a ristabilire l'ordine sulla terra, riportando Arianna nel regno degli Inferi. Dunque Artemide, od una divinità a lei similare, in Etruria, assume un carattere nettamente infernale, che si armonizza con il suo ruolo di sorella del nero Apollo etrusco, divinità anch'essa infera.
In Etruria Artemide non ha, però, la funzione di divinità lunare che, invece, le è propria in Grecia. Quella lunare è una divinità ben distinta, chiamata Tiu (o Tiur, al plurale, in onore della natura triplice dell'astro notturno). Un oggetto votivo estremamente particolare è stato rinvenuto nel XVIII secolo da Cesare Borgia, che lo donò al vescovo di Città della Pieve. Oggetto che, pertanto, è oggi custodito nel Museo Gregoriano Etrusco al Vaticano: è una lastrina di bronzo a forma di mezzaluna dotata di un perno per la connessione ad una base oppure ad un oggetto maggiore. Probabilmente il luogo in cui è stato ritrovato era, originariamente, un santuario etrusco nei dintorni di Acquasanta di Chianciano. Su una delle facce della mezzaluna è incisa un'iscrizione di consacrazione alla divinità della luna Tiur (alla quale è attribuito l'epiteto Kathunias), che dimostra che un culto lunare indipendente da Artemide esisteva già nel VI secolo a.C.. Un'altra attestazione, più recente, è costituita da un breve testo di consacrazione a Tiu su una brocchetta rinvenuta nel deposito votivo di Campetti di Veio, dedicato alla dea Vei (corrispondente alla greca Demetra).
Alcuni indizi hanno portato gli archeologi a pensare che le divergenze tra la divinità greca della luna (Artemide) e quella etrusca fossero più marcate di quanto appaia. Come la divinità etrusca del sole, chiamata Cavtha, era di genere femminile, mentre in Grecia il sole era di genere maschile, così per analogia la divinità della luna poteva essere, in Etruria, maschile. Per questo la divinità lunare veniva chiamata Kathunia(n)s a Città della Pieve e [U]silnanz a Feltre, la cui terminazione -ns è tipica dei nomi etruschi di genere maschile. Inoltre è conosciuta un'immagine di un Tiu barbuto ed armato di lancia su uno specchio.
Ancora più convincente, per quel che riguarda la natura maschile della divinità lunare etrusca Tiu, è la forma di culto che a questi viene tributata da una famiglia chiusina sepolta nella tomba delle Tassinaie. Qui compare una sorta di stemma di famiglia a forma di falce lunare su uno scudo dipinto che documenta il nome Tiu nel diminutivo Tiuza, per il figlio maschio del capostipite sepolto nella camera funeraria.

sabato 2 ottobre 2010

Vulci, la Pompei etrusca


Le origini della città di Vulci si fanno risalire al IX secolo a.C., dall'unione di più villaggi. Venne edificata su un pianoro, non lontana dalla costa, ed ebbe il suo massimo splendore nel IV secolo a.C., prima dell'arrivo traumatico dell'invasore romano.
Vulci, considerata la Pompei etrusca, perì sotto i colpi durissimi dell'esercito romano nel febbraio del 280 a.C.. Il suo territorio venne smembrato e distribuito tra i cittadini Romani.
L'ostilità dei Vulcenti nei confronti dei Romani era cosa antica. Se ne sono trovate tracce persino nella celeberrima Tomba François, la più importante delle sepolture etrusche mai ritrovate, che prende nome dall'archeologo fiorentino Alessandro François che la scoprì nel 1857, sul versante della collina che guarda Vulci.
La tomba apparteneva alla famiglia vulcente dei Saties, una famiglia nobile, e le pitture che essa contiene sono interpretabili in chiave nettamente antiromana. Rappresentano scene di storia etrusca raffrontate con scene tratte dall'epica greca, quali la presa di Troia e, soprattutto, è evidenziata in modo particolare il crudele sacrificio dei soldati Troiani (e Roma vantava di discendere da Troia) da parte dei Greci guidati da Achille. Il centro della scena è tutto per Charun, il demone etrusco assimilabile al terribile Caronte dei Greci. I dipinti risalgono al IV secolo a.C.
La Tomba François conserva, però, anche l'unica immagine - almeno finora - di un re Etrusco di Roma che ci è stato consegnato dalla storia. Uno dei cicli pittorici che sono stati ritrovati, infatti, mostra la liberazione del condottiero Etrusco Celio Vibenna da parte del suo amico Macstrna, vale a dire Mastarna, che sarà re di Roma con il nome di Servio Tullio, governando la città del Tevere con equilibrio e saggezza dal 578 al 535 a.C.. Servio Tullio riformò l'esercito (che era il cosiddetto esercito romuleo), ampliando le fila dell'unica legione di cui era composto ed aprendo l'accesso ad esso anche ai plebei.
La conquista romana di Vulci ha funzionato un pò come la lava a Pompei, restituendo la città di Vulci etrusca ai posteri. Nel 490 d.C. la Vulci romana, oramai completamente in stato di abbandono, venne progressivamente privata dei materiali di costruzione, che andarono ad alimentare gli edifici dei centri vicini, come il Castello della Badia (oggi sede del Museo Etrusco della cittadina), una costruzione medioevale che, un tempo, era stato un monastero cistercense ed oggi svetta accanto ad un ponte millenario eretto dagli Etruschi sul fiume Fiora ed entro il quale, un tempo, passava un acquedotto.
Per secoli il territorio non fu che una terra flagellata dalla malaria, finquando, nel 1828, il fratello di Napoleone Bonaparte, nominato dal papa Pio VII principe di Canino, cominciò a trovare splendidi vasi nelle sue proprietà di Pian de' Voci. Ma, purtroppo, la "moda" dell'epoca premiava ritrovamenti di vasi con scene dipinte (i cosiddetti "vasi greci"), per cui il principe di Canino diede ordine che ogni frammento non dipinto, come ogni vaso in bucchero fosse distrutto. Le tombe, dunque, vennero aperte, depredate ed abbandonate.
Il fratello di Napoleone, in poco tempo, raccolse ben 2000 oggetti etruschi. Alla sua morte, nel 1840, la moglie, Alexandrine de Bleschamps, invitò Alessandro François a scavare a Vulci. L'invito venne ripetuto dal principe Alessandro Torlonia, nuovo proprietario del fondo alla morte della principessa e François ritrovata la splendida sepoltura che oggi porta il suo nome. I gioielli dello splendido corredo funerario vennero venduti al Musée Napoleon III di Parigi per 700 franchi. I Torlonia diventano "proprietari" degli affreschi, che vengono staccati dalla tomba ed entrano a far parte della collezione di famiglia.
Verso la fine del XIX secolo tornano a farsi nuove scoperte, a Vulci, come l'ipogeo dei Sarcofagi, quello dei Tori e quello dei due ingressi. All'inizio del XX secolo tornano a vedere il cielo le statue del Giovane su Ippocampo e del Centauro (oggi al Museo di Villa Giulia a Roma), le tombe del Guerriero, delle due anticamere e delle cinque camere. Emergono non solo oggetti preziosi, ma strade, edifici, il Tempio Grande, la domus del Criptoportico, il decumano.
Vulci aveva un'importate via di trasporto nel fiume Fiora, che nasce dal Monte Amiata e scende costeggiando tutta la città per sfociare nel Mar Tirreno, vicino all'antico porto di Regae. Le case che sono emerse dagli scavi hanno vani piuttosto angusti come se gli Etruschi vivessero molto all'aperto e, forse, era realmente così.
La Vulci altomedioevale fu sede vescovile fino a quando il vescovo Bernardo non trasferì l'episcopato nella più lontana e sicura cittadina di Castro.

venerdì 1 ottobre 2010

Ascoltare la lingua di Hammurabi


All'incirca 2000 anni dopo che coloro che lo parlavano sono definitivamente scomparsi, il suono della lingua antico babilonese è tornato a rivivere in un archivio on line. Le registrazioni comprendono degli estratti da alcuni pezzi della letteratura risalente ai primi anni del secondo millennio a.C.
Incitato da colleghi ed amici, il Dottor Martin Worthington, esperto in grammatica babilonese ed assira dell'Università di Cambridge, ha iniziato a registrare letture dei poemi, dei miti e di altri testi della letteratura babilonese in questa antichissima lingua. I poemi, i miti ed i testi letterari sono stati recitati da una serie di voci e sono disponibili liberamente sul sito http://www.speechisfire.com/.
Il babilonese è una delle due varianti (o dialetti) dell'accadico, l'altra variante è l'assiro. L'accadico divenne lingua franca del Vicino Oriente fino al suo declino, accertato intorno all'VIII secolo a.C.. L'ultimo dei documenti in lingua accadica cuneiforme risale al I secolo d.C..
Il Dottor Worthington spera che l'ascoltare il suono di questa lingua oramai non più parlata, la prima lingua semitica mai attestata, qualche curioso sarà stimolato ed invogliato ad investigare ulteriormente e forse potrebbe anche pensare a studiare di più la storia, la lingua e la cultura di questi popoli e di questo periodo.
Per ora la raccolta di lingua parlata è incentrata quasi esclusivamente sui poemi, la maggior parte dei quali è nota dalle iscrizioni cuneiformi ritrovate sulle tavolette d'argilla nell'area che una volta era chiamata Mesopotamia e che ora comprende l'Iraq, parte della Siria, della Turchia e dell'Iran. Molti di questi poemi presentano passi paralleli ai racconti biblici. Per esempio la tavoletta IX del poema di Gilgamesh presenta Utanapishtim che racconta all'eroe Gilgamesh come sia stato istruito dagli dèi su come costruire un'imbarcazione per affrontare una grande inondazione e su quali semi e creature farvi salire.
Oltre alla letteratura ed ai poemi, il sito contiene altri importanti documenti del periodo. Una parte del Codice di Hammurabi, per esempio, che risale al 1790 a.C., che può essere sia letto che ascoltato.
Nel comporre questo interessantissimo archivio visivo e sonoro dell'antica lingua babilonese, gli esperti hanno utilizzato, in alcuni casi, parole babilonesi od assire trascritte in altri alfabeti diversi dal cuneiforme. Spesso, però, il suono che se ne ricava è stato dedotto dallo studio attento della combinazione di lettere e di schemi di compitazione, utilizzando i testi cuneiformi originali. In questo modo sono stati registrati, finora, trenta brani e molti altri sono in via di preparazione.

Un teatro romano a Firenze


Poteva contenere fino a 15.000 spettatori il teatro romano scoperto sotto le costruzioni e gli ampliamenti di Palazzo Vecchio, a Firenze. Il teatro è stato riportato alla luce dopo sei anni di scavi che, ora, sono stati felicemente ultimati anche se non si escludono altre sorprese. Le visite guidate sono già iniziate il 25 settembre scorso.
I lavori di scavo sono stati condotti dalla Cooperativa Archeologica e diretti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Sono stati rimessi in luce alcune tracce delle burelle (corridoi), il vomitorium (corridoio attraverso il quale accedevano gli spettatori) ed il profilo interno della piattaforma dell'orchestra che era riservata alle autorità più importanti.
Oltre alle strutture del teatro, sono state riportate alla luce alcune anfore per le derrate alimentari che, frammentate, sono state utilizzate per il drenaggio delle acque. Proprio queste anfore hanno consentito di datare la struttura del teatro ad un periodo compreso tra la fine del I secolo a.C. e l'inizio del I secolo d.C.
Gli archeologi pensano che il teatro possa essere stato edificato durante la grandiosa ristrutturazione dell'antica Florentia, compiuta in età imperiale. La cavea dell'edificio è rivolta verso piazza della Signoria e la scena lungo via dei Leoni. Pare che il teatro sia rimasto attivo fino al V secolo d.C. e sia, poi, caduto in disuso e via via dimenticato. Alcuni resti della costruzione riaffiorarono nell'Ottocento (1865), quando fu intrapresa una campagna di sventramento ed ammodernamento del tessuto urbano di Firenze.
Ai resti del teatro, nel corso dei secoli, si sono sovrapposte stratificazioni di età medioevale e fondazioni di abitazioni ed edifici. Tra questi è stato trovato un fronte stradale con portoni medioevali e selciato che fu incorporato, nel XVI secolo, nell'ampliamento del Palazzo della Signoria.
Le visite guidate sono curate dall'Associazione Museo dei Ragazzi di Firenze e si svolgono il sabato, la domenica ed il lunedì, hanno una durata di un'ora e sono tenute per un massimo di 20 persone pe rvolta. La prenotazione è obbligatoria e gratuita (tel. 055.2768224-8558, tutti i giorni dalle 10.00 alle 17.00; info.museoragazzi@comune.fi.it).

Turchia, gli "inviti" di Antioco I di Commagene...

Turchia, l'iscrizione di Antioco di Commagene (Foto: AA) Un'iscrizione trovata vicino a Kimildagi , nel villaggio di Onevler , in Tu...