lunedì 28 febbraio 2011

L'antica città sul Monte Iato


Il Parco archeologico di Monte Iato, in Sicilia, è ora una realtà grazie alla Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Palermo e dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Zurigo, che vi opera dal 1971.
Il Monte Iato si trova a circa 30 chilometri da Palermo. Dell'antica Iatus, nome greco dell'insediamento, gli archeologi già conoscevano la lunga continuità di abitazione: dal I millennio a.C. fino al 1246 d.C., anno in cui la città fu definitivamente distrutta da Federico II, si sviluppò un centro abitato che riflesse le vicende politiche e sociali della storia della Sicilia. Il Monte Iato, alto 852 metri, domina l'omonimo fiume. Non esistono fonti letterarie che attestino la vita dell'antica città di Iaitas come la vita della Sicilia Occidentale. Diodoro Siculo narra che la città, tra il 278 e il 275 a.C., fu assalita da Pirro, re dell'Epiro e che durante la prima guerra punica gli Ietini, una volta cacciati i Cartaginesi, si consegnarono ai Romani.
Il nome antico dell'insediamento sul Monte Iato non è tramandato con sicurezza. Le fonti scritte usano indicare la cittadinanza, non quello della città. I cittadini erano chiamati Iaitinoi nelle fonti greche, Ietini e Ietenses in quelle latine. Il nome della città compare su documenti riportati alla l luce dagli scavi, come tegole e monete.
Gli edifici greci poggiavano direttamente sulla roccia, parte della quale levigata. Di questi antichi edifici rimangono solo fondi di capanne dell'VIII secolo a.C., ritrovati nell'area del posteriore tempio di Afrodite, e resti di focolari del VII secolo a.C. in una zona a sud dell'agorà. Dalla metà del VI secolo a.C. il villaggio indigeno di Monte Iato si rapportò fortemente con l'elemento greco coloniale, al punto da ospitare comunità greche all'interno della città. Questo connubio sociale e culturale è ben rappresentato dal ritrovamento di un grande edificio di età arcaica, a due piani, con un cortile nel cui interno è stata raccolta numerosa suppellettile domestica di tradizione indigena, unitamente ad altre coppe prodotte a Imera, Selinunte e in Attica.
Sicuramente greco è il più antico edificio sacro, la cui costruzione vien fatta risalire al 550 a.C.: il cosiddetto Tempio di Afrodite, molto simile ad altri edifici di età arcaica noti nel mondo greco e in Sicilia. Verso la fine del VI-inizio del V secolo a.C. fu eretta la parte più antica della cinta muraria.
L'abitato di Monte Iato fu completamente ricostruito alla fine del IV secolo a.C. secondo i canoni dell'urbanistica e dell'architettura greca. Del nuovo impianto fanno parte la rete viaria, con una strada principale lastricata che tagliava l'antica città in senso est-ovest, gli edifici pubblici più importanti quali il teatro, l'agorà e il bouleterion e i quartieri residenziali, con abitazioni signorili. Il teatro della cittadina poteva contenere fino a 5.000 spettatori.
La floridezza della città dura fino all'età romano-repubblicana. Nella prima età imperiale cominciano ad avvertirsi i prodromi del tramonto. I contatti commerciali con Africa e Spagna continuano ad essere intensi, comunque, con l'importazione di olio, vino, salsa di pesce e frutta in conserva. Dell'epoca romana imperiale si sa, inoltre che Iato faceva parte, con 45 città della Sicilia, del gruppo degli "stipendiarii", comunità tributarie di Roma.
Anche le fonti medioevali sono piuttosto rare. Nell'XI secolo d.C., al momento della conquista normanna della Sicilia, guidata dal Conte Ruggero, il sito era popolato da genti provenienti dal Magreb che, nel 1079, rifiutarono di pagare le imposte e prestare servizio, finendo per ribellarsi al Conte Ruggero che solo a fatica riuscì ad aver ragione di loro. Alla metà del XII secolo, il geografo arabo Al Idrisi visitò Iato e rilevò l'esistenza di un castello e di una prigione sotterranea. Sotto il sovrano normanno Guglielmo II Iato passò alla chiesa e al Monastero di Santa Maria la Nuova di Monreale. Gli arabi isolani, a questo punto, finirono per insorgere contro Federico II di Svevia, re di Sicilia. Iato medioevale fu l'ultimo teatro della rivolta musulmana in Sicilia. L'assedio, dicono le cronache, durò più di 20 anni. Nel 1246 la città venne conquistata definitivamente e rasa al suolo. I sopravvissuti furono deportati a Lucera di Puglia.

Nerone in mostra


La Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, in collaborazione con Electa, ha in programma un'esposizione sulla figura di Nerone.
La mostra si aprirà il 1° aprile e chiuderà il 18 settembre 2011 nell'area espositiva al II ordine del Colosseo, nella Curia Iulia e nel Tempio di Romolo al Foro Romano, nel Criptoportico neroniano sul Palatino e comprenderà un percorso di visita nei luoghi neroniani dell'area archeologica centrale di Roma.
La figura di Nerone è stata sempre fortemente messa in discussione soprattutto grazie alla propaganda negativa dell'aristocrazia. Di lui si ricorda, soprattutto, il grande incendio che distrusse Roma nel 64 d.C. e la conseguente politica di ricostruzione che l'imperatore avviò tra il 64 e il 68 d.C.. I luoghi dell'esposizione sono quelli in cui Nerone visse e operò sia prima che dopo l'incendio.
La mostra sarà accompagnata da un esame attento della figura di Nerone attraverso i rapporti familiari, la propaganda del tempo e l'avversa fortuna. Vi saranno sezioni sull'immagine antica e moderna di Nerone, una sui ritratti dei suoi familiari - in particolare di Claudio e di Agrippina - ed un altro sulla propaganda neroniana, culminata nell'assimilazione dell'imperatore al Sole e la sua celebrazione come auriga e vincitore dei Parti.

sabato 26 febbraio 2011

Gli splendori di Leptis Magna


Nel giugno del 193 d.C. il nuovo imperatore di Roma, Settimio Severo, entrò in città alla testa delle legioni che lo avevano proclamato capo supremo in Pannonia. Per i Romani fu una vera novità, perchè Settimio Severo proveniva dall'Africa. Era, infatti, originario di Leptis Magna, situata in Tripolitania, regione occidentale dell'attuale Libia.
Quando Settimio Severo divenne imperatore di Roma, Leptis Magna aveva alle spalle già un ricco capitolo di storia. Le sue origini, infatti, si fanno risalire al II millennio a.C., quando nacque come emporio dei Fenici, attratti dalla ferilità del suo suolo e dalla possibilità di commerciare in oro, avorio, spezie e schiavi. Lbq era il suo nome fenicio, più tardi latinizzato in Leptis. La città venne fondata contemporaneamente ad altri insediamenti della zona, come Sabratha e Oea (attuale Tripoli). I Fenici, più tardi, finirono per chiamare quest'ampia zona dell'Africa "regione degli empori".
Il territorio dell'antica Leptis possedeva molti dei requisiti fondamentali ricercati dai Fenici: era un luogo centrale per instaurare un proficuo scambio di merci con il continente africano ed era un luogo facilmente difendibile. I Fenici trovarono un promontorio non eccessivamente elevato nei pressi del fiume Wadi Lebda, in prossimità di una spiaggia ben riparata che permetteva il varo delle navi.
Cinque secoli più tardi Leptis entrò nella sfera d'influenza di Cartagine, pur mantenendo la sua autonomia politica ed economica. Nel VI secolo a.C. la città fu assalita da un esercito spartano, efficacemente respinto dai Cartaginesi, ai quali Leptis rimase sempre fedele, anche durante le guerre puniche. Quando Cartagine venne definitivamente rasa al suolo dai Romani, nel 146 a.C., Leptis si alleò con Roma. L'occasione fu quella delle campagne militari contro Giugurta, re di Numidia (l'attuale Algeria nord-occidentale), che aveva perpetrato un eccidio ai danni dei commercianti italici di Cirta, oggi Costantina. In quest'occasione, gli abitanti di Leptis fornirono ai Romani navi da trasporto e furono ricompensati con la concessione del titolo di città federata di Roma. In questo modo Leptis poté conservare magistrature tipicamente puniche e poté continuare ad adorare le proprie divinità protettrici, soprattutto Melqart, che corrispondeva all'Ercole dei Romani. A Leptis si continuò ad utilizzare la lingua punica al fianco del latino.
Durante la seconda metà del I secolo a.C. Leptis godette di un periodo di prosperità che le derivava dal commercio dei prodotti agricoli coltivati in vasti latifondi. Durante il conflitto tra Cesare e Pompeo si schierò con quest'ultimo e questo le costò un tributo annuale in olio di oliva e la riduzione a "città stipendiaria".
Con Ottaviano Augusto si assistette alla metamorfosi urbanistica della città che, con il tempo, diventerà una delle più importanti del Mediterraneo. Augusto riunì l'Africa in un'unica provincia e concesse a Leptis il privilegio di autogovernarsi e l'esenzione dai tributi. Leptis, quindi, dal punto di vista urbanistico fu trasformata in una vera e propria città romana. Venne tracciata una pianta a scacchiera delle vie cittadine, avente al suo centro l'incrocio tra il cardo e il decumano. Nella parte più antica, dove sorgeva ancora la città punica, si progetto quello che è attualmente chiamato il Foro Vecchio. Qui sorgeva il tempio dedicato a Melquart, che divenne un santuario dedicato a Roma e Augusto. Accanto ad esso sorsero altri due edifici religiosi dedicati alle divinità protettrici della città: Bacco-Liber Pater (lo Shadapra fenicio) ed Ercole. I tre santuari comunicavano tra loro per mezzo di un complesso di arcate poste al livello del foro. Successivamente, tra il I e il II secolo d.C., nella stessa area venne costruito un complesso di edifici amministrativi tipici delle città romane: la basilica e la curia.
Un benefattore del luogo di nome Iddibal patrocinò la costruzione di un tempio dedicato a Cibele che si andò a collocare proprio accanto all'area civile romana. Un altro cittadino di Leptis, Annibale Tapapio Rufo, nel desiderio di emulare Augusto ed essendo uno dei più ricchi cittadini di Leptis, fece costruire, nel 9 d.C. il macellum, mercato di carne e di pesce. Questo mercato fu realizzato in pietra calcarea ricoperta di marmo, era di forma rettangolare ed aveva un cortile porticato sul quale vennero eretti due padiglioni. Dieci anni dopo, sfruttando un dislivello del terreno, Annibale Tapapio Rufo fece costruire un teatro che, nella parte inferiore, era completamente scavato nella roccia e aveva un palcoscenico spettacolare, restaurato e coperto di marmi nel II secolo d.C.. Nel 35 d.C. Suphunibal, figlia di Annibale, fece edificare, nella parte superiore della gradinata, un tempio dedicato a Cerere.
Altro benefattore cittadino fu Iddibal Cafada Emilio, che eresse il Calcidico, un edificio di cui non si conosce bene la destinazione d'uso e che, probabilmente, finì per essere adibito a mercato di stoffe.
L'epoca aurea di Leptis coincise con il regno di Settimio Severo (193-211 d.C.) che la trasformò in capitale della provincia di Numidia e le concesse lo ius italicum, praticamente l'esenzione dalle imposte sulle proprietà terriere e privilegi fiscali. Proprio grazie a questi privilegi poté aver luogo un grandioso progetto edilizio, che monumentalizzò Leptis. Innanzitutto venne ampliato il porto della città. Il progetto prevedeva la costruzione di un porto a pianta pentagonale, riparato dai venti, dai temporali e dai nemici. A protezione del porto dovevano esser costruiti una diga e un faro a tre piani. Architetti e ingegneri, però, non compresero che senza la corrente del fiume, la sabbia avrebbe finito per depositarsi nel bacino portuale.
Per mettere in comunicazione il porto con la parte meridionale di Leptis venne costruita una grandiosa via colonnata, lunga 400 metri e larga 44. Essa collegava il porto alle terme e terminava in una piazza ottagonale decorata con un ninfeo. Ciascun lato di questa imponente via era dotato di 125 colonne di marmo verde con venature bianche, sulle quali poggiavano delle arcate.
Il Foro Nuovo è, però, l'elemento architettonico più rappresentativo di Leptis. Esso era anche detto Foro Severiano, da Settimio Severo, appunto, e comprendeva anche la basilica, per la quale non si badò a spese. Il Foro era, praticamente, una piazza chiusa di 100 per 60 metri, con pavimento in marmo, che richiamava i classici fori della romanità. Il tempio principale che si ergeva nel foro era ottastilo, le sue colonne erano in marmo rosso su basi bianche e decorate con una gigantomachia in rilievo che rappresentavano gli dei del pantheon romano e quelli orientali che combattevano contro giganti dal corpo serpentiforme. Il portico che correva tutt'intorno al foro si reggeva su un centinaio di colonne di marmo verde venato, poggiate su basi in marmo bianco, quest'ultimo impiegato anche per i capitelli. Gli archi sostenuti dai capitelli recavano scolpiti mostri della mitologia. Sotto le arcate della piazza sorgevano diversi edifici commemorativi.
La basilica, vicina al foro, era sicuramente l'edificio di spicco, il più lussuoso, di tutta Leptis. Fu iniziata da Settimio Severo e terminata dal figlio Caracalla nel 216 d.C.. Era lunga 92 metri e larga 40 e divisa in tre navate. Il secondo piano era sostenuto da 40 colonne in granito rosso di provenienza egiziana.
Il culmine dello splendore di Leptis si ebbe nel 203 d.C., quando la famiglia dell'Imperatore e lo stesso Settimio Severo visitarono la città. In quest'occasione fu innalzato un arco in onore dell'illustre cittadino, decorato da vittorie alate e rilievi. Le pareti interne dell'arco erano dotate di pannelli che ricordavano la vittoria sui Parti dell'imperatore.
Nel III secolo d.C. Leptis Magna attraversò un periodo di pace, anche se cominciarono a comparire i primi segni di decadenza. Ad aggravare la crisi intervenne il definitivo insabbiamento del porto che influì negativamente sulle capacità commerciali della città. Leptis finì per cadere nelle mani di un'oligarchia che mirava più ad arricchirsi che a curare e garantire il bene comune.
Intorno al 300 d.C. la riforma territoriale voluta da Diocleziano divise l'impero in province, prefetture e diocesi e Leptis, con l'area confinante, venne inserita nella provincia di Tripolitania. Il IV secolo d.C. fu inaugurato in modo funesto da due forti scosse di terremoto che causarono alla città gravi danni. Malgrado ciò, Leptis parve riprendersi sotto Costantino: furono nuovamente innalzate le mura cittadine che il terremoto aveva sbriciolate. Nel 365 d.C., però, un nuovo terremoto distrusse numerosi monumenti che non vennero più ricostruiti per mancanza di fondi. Intervennero, poi, diverse sommosse a carattere religioso, quando la Tripolitania venne coinvolta nella lotta contro l'eresia donatista, nata tra coloro che rifiutavano di riconoscere quei vescovi che non avevano resistito alle persecuzioni di Diocleziano e avevano consegnato ai magistrati i libri sacri.
Intorno al 430 d.C. i Vandali diedero a Leptis il colpo di grazia, saccheggiando una città oramai ridotta in miseria. Nel V secolo, poi, si verificarono delle rovinose inondazioni dovute al cattivo drenaggio del Wadi Lebda e tempeste di sabbia seppellirono interi isolati e monumenti. Quando i Bizantini occuparono Leptis lo fecero solo a scopo militare. Costruirono delle mura difensive per il porto, mentre il resto della città rimase in uno stato di completo abbandono, tranne una piccola basilica situata in un angolo del Foro Severiano e il tempio di Roma e Augusto che era stato trasformato in chiesa.
Nel 634 le truppe arabe si impadronirono di quel che rimaneva di una splendida città. Sopravvisse solo un piccolo villaggio, sorto nel luogo in cui i Fenici si erano stabiliti ben 1700 anni prima. Un'invasione di nomadi, però, spazzò via il villaggio, che scomparve nell'XI secolo. Le sabbie del deserto finirono per ricoprire Leptis fino a cancellarne ogni traccia.
Nel 1686 e nel 1708 Claude Lemaire, console di Francia a Tripoli, con il consenso delle autorità ottomane, spoliò di colonne e marmi quel che restava visibile di Leptis ed inviò tutto in Francia, dove il prezioso materiale venne utilizzato per edificare la reggia di Versailles. Altri marmi, in seguito, finirono a Londra e nel castello dei Windsor.
Il primo intervento scientifico in loco fu quello dell'epigrafista italiano Federico Halbherr, nel 1910, condotto con lo storico Gaetano De Sanctis. Quando l'Italia occupò la Libia, nel 1911, ebbe inizio lo scavo sistematico della città. Il soprintendente per l'archeologia della Tripolitania, Salvatore Aurigemma, raccolse moltissimo materiale. Il primo, però, a scavare sistematicamente l'antica Leptis fu Pietro Romanelli che, tra il 1919 e il 1928, scoprì le terme e la basilica di Severo.

Harem egizi


La KV 5 è tra le sepolture più importanti nonché la più grande della Valle dei Re, in Egitto. In questa tomba comune sono sepolti i figli di Ramses II. La tomba fu scoperta nel 1825 da James Burton, ma gli scavi iniziarono nel 1987 ed ha riportato alla luce ben 120 camere funerarie. Nei suoi più di 80 anni di vita il faraone, secondo alcuni, avrebbe avuto ben 100 figli e moltissime mogli.
L'antica società egizia era generalmente monogama, anche se la poligamia era tollerata, soprattutto nelle classi abbienti, che possedevano i mezzi necessari per mantenere mogli e figli numerosi. La prima prova documentale riferentesi alla poligamia negli ambienti reali ci viene restituita dalla XIII Dinastia (1781-1650 a.C.), quando compare il titolo di Grande Sposa Reale. La donna che portava questo titolo era considerata la moglie principale del faraone, il che porta a pensare che vi fossero altre mogli, oltre a lei. La pratica pare fosse, però, di più antica data e risalisse all'epoca protodinastica, quando, per garantirsi una maggiore possibilità di discendenza, i faraoni avevano necessità di avere più di una moglie. Pepi I (VI Dinastia) ebbe sette mogli.
Le mogli, la prole e le nutrici di quest'ultima formavano quello che era chiamato l'harem del faraone che, contrariamente all'immaginario collettivo su di esse era un luogo in cui la prole e le mogli del sovrano erano particolarmente curati. Nel papiro Bulaq, un rendiconto delle spese sostenute dalla corte reale, risalente alla XIII Dinastia, si trova una descrizione della struttura dell'harem. Il papiro riporta che le spose del faraone erano alloggiate in stanze attigue a quella del sovrano. Gli harem erano soprattutto presenti nelle città dove i faraoni avevano l'abitudine di risiedere più o meno temporaneamente: Menfi, Tebe, Amarna, Mer-Wer.
Nell'Antico Regno l'harem era chiamato khener, che vuol dire "circolo di musicanti e danzatrici" ed era un utilissimo strumento politico, soprattutto di alleanze matrimoniali. Qui venivano ospitate le principesse dei regni confinanti con l'Egitto che sarebbero diventate spose del faraone. Qui le spose allevavano, oltre ai loro figli, anche i figli dei funzionari di corte e dei sovrani stranieri che, in tal modo, dimostravano la loro fedeltà al faraone.
Nel Nuovo Regno l'harem si chiama per-khener ed aveva a capo la Grande Sposa Reale ed era una vera e propria istituzione che possedeva beni, terre, bestiame, botteghe e persone di servizio nonchè delle "succursali" in quelle oasi in cui il sovrano si recava più frequentemente. Nell'harem lavoravano sia scribi che amministratori che, talvolta potevano arrivare a ricoprire cariche piuttosto importanti, come Capo dell'harem reale, Guardiano delle porte o Scriba della porta dell'harem. Ben presto l'harem divenne un potente centro economico, grazie alla produzione di beni, al bestiame e alla terra che possedeva. Al suo interno si producevano soprattutto tessuti e filati. Con il faraone Horemheb, però, il potere economico dell'harem fu notevolmente ridimensionato.
Uno degli harem che gli studiosi conoscono meglio è quello di Mer-Wer, all'ingresso dell'oasi di Al-Fayyum, a 130 chilometri da Il Cairo. La pianta dell'harem mostra chiaramente un muro di cinta che abbraccia un blocco di abitazioni costruite in mattoni crudi, alcuni magazzini e un tempio. L'harem fu scavato dall'archeologo britannico Flinders Petrie (1858-1942), che vi trovò le prove della residenza temporanea di una principessa ittita, Maathorneferura: una lista di indumenti personali della principessa. Probabilmente si tratta di un harem utilizzato a mò di casa di riposto per spose del faraone piuttosto avanti con l'età.
Maathorneferura, in particolare, fu la moglie di Ramses II, figlia del vecchio nemico del faraone, Hattusili III. Fu lei la prima delle spose straniere del prolifico e longevo faraone ad essere onorata con il titolo di Grande Sposa Reale. Lo testimonia la stele del matrimonio, posta nel muro meridionale esterno del tempio di Abu Simbel

venerdì 25 febbraio 2011

Ritrovata una statua di Caligola


Il nucleo dei beni culturali dei carabinieri ha arrestao, vicino al lago di Nemi, a sud di Roma, un uomo che stava caricando sul suo automezzo una statua raffigurante l'imperatore Caligola, alta 2,5 metri.
L'imperatore è raffigurato seduto sul trono, con le calzature - le caligae - da cui derivò il soprannome. Il suo vero nome, infatti, era Gaio Giulio Cesare Germanico. Il trono su cui è assisa la statua è decorato con i simboli del potere imperiale. Il gruppo scultoreo è stato ricavato dal marmo di Paro, considerato, allora, il marmo più adatto per questo tipo di raffigurazioni.
Caligola in trono è stato ritrovato nel piccolo paesino dei Colli Albani, dove, al tempo dei romani, era fiorente il culto alla dea Diana e potrebbe far pensare all'esistenza, nel circondario, di una villa appartenuta all'imperatore. Sul lago di Nemi, di origine vulcanica, Caligola aveva due barche che furono oggetto di una damnatio memoriae dopo la sua morte, avvenuta per mano delle stesse guardie che erano chiamate a proteggerlo.
Nel 1927 le barche, tornate alla luce, mostrarono il fasto e lo splendore della corte imperiale romana dell'epoca. Ogni imbarcazione misurava 70 metri di lunghezza e 20 di larghezza e possedeva i fasci decorati con teste di lupo. Il ponte era ricoperto di marmo di marmo e mosaici. Lo storico Svetonio parla di ampi spazi per i bagni, sale da pranzo e una grande varietà di viti e alberi da frutta. La scoperta delle navi spinse a creare un museo nei pressi del lago che, però, fu distrutto dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale.

giovedì 24 febbraio 2011

Ercole redivivo


A giugno sarà inaugurato il Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli, un complesso datato tra il II e il I secolo a.C., posto sul costone orientale della città, di fronte alla valle dell'Aniene. La riapertura potrà avvenire grazie al finanziamento di 5 milioni di euro del Mibac.
Il Santuario, anticamente occupava un'area di 3.000 mq ed era di dimensioni grandiose, con una pianta rettangolare. Tre erano le strutture principali: un teatro, che sfruttava il naturale dislivello del terreno; una grande piazza porticata e un tempio. Tutto questo era sorretto da possenti sostruzioni, realizzate da più ordini sovrapposti. Sotto il porticato del tempio, i contrafforti murari sono in duplice serie poichè vi sono diversi cunicoli di scarico. Delle arcate del porticato ne restano attualemente 23.
Alla piazza dove sorgeva il Santuario si accedeva per mezzo di due scalinate poste ai lati del teatro. Il piazzale era circondato, su tre lati, da un porticato dorico, al cui interno correva un corridoio coperto da volta a botte. Sopra il primo, molto probabilmente, correva un secondo portico, con intercolumni. Era proprio la piazza, che accoglieva i fedeli, ad essere il fulcro di tutto il santuario. Sul fondo di questa di ergeva il tempio, mentre sul margine sud-est, era collocata l'area teatrale, di cui sono visibili pochissimi resti.

martedì 22 febbraio 2011

Il misterioso, miracoloso silfio


In passato, in Africa, veniva coltivata una specie di finocchio selvatico, utilizzato per la contraccezione e il controllo delle nascite. Questa pianta era presente sulle antiche monete provenienti dalla Cirenaica. Essa era esclusiva della costa nordafricana ed era anche considerata uno dei rimedi medici più potenti, il suo nome era silfio.
Il silfio possedeva un sapore eccezionale e, tra le sue qualità vi era quella che anticipava di duemila anni le moderne pillole anticoncezionali. Questa spezia, infatti, utilizzata anche come cibo, era consumata anche per i suoi effetti abortivi e antifecondativi, permettendo un certo controllo delle nascite.
A Cirene la produzione era a livelli industriali, al punto che l'economia della zona era quasi esclusivamente basata sulla coltivazione ed esportazione di questa pianta. I commercianti romani ritenevano il silfio un dono di Apollo, che valeva tanto oro quanto pesava. Ne veniva anche estratta una resina gommosa chiamata Laserpicium, esportata in tutto l'impero. Tracce di silfio sono state ritrovate anche in India e in Cina, anche se, in questi paesi, esistevano specie simili.
Il silfio apparteneva al genere delle Ferula, di cui ancor oggi esiste un rappresentante nella forma dell'Assafetida. Quest'ultima è una spezia molto utilizzata nella cucina asiatica e indiana come sostituto dell'aglio e della cipolla ma anche come pianta curativa di asma e bronchiti nonchè con proprietà digestive. Anche l'Assafetida ha leggere proprietà abortive e anticoncenzionali, che condivide con il finocchio e la carota. Queste peculiarità erano già conosciute nel Medioevo, al punto che, per un certo periodo, l'infuso di finocchio fu vietato alle donne pena l'accusa di stregoneria.
Ma nessuna delle piante le cui proprietà anticoncezionali e abortive erano e sono note, aveva la potenza del Silfilo che, probabilmente, conteneva dei fitoestrogeni così potenti da provocare l'espulsione dell'embrione fecondato. Secondo Plinio il Vecchio il silfio poteva essere utilizzato per curare le calvizie, la tosse, la gola irritata, la febbre, l'indigestione, i dolori articolari e le verruche. Era, inoltre, un rimedio ecezionale per i veleni e conteneva gli effetti della lebbra.
Anche gli Egizi conoscevano e utilizzavano il silfio per la cura della psoriasi e di altre gravi malattie della pelle. Plinio ritiene che il segreto di questa pianta era, però, quello di prevenire gravidanze indesiderate e proprio questo segreto ne decretò il successo nel mondo antico.
A partire dal III secolo d.C. il silfio scomparve progressivamente, probabilmente a causa del predominio dell'Impero Romano sul mondo allora conosciuto e dal crescente potere della nascente chiesa cattolica. Naturalmente sono da considerare anche fattori ambientali, quali il progressivo inaridimento della Cirenaica e la costante espansione del Deserto del Sahara, che portò a cambiamenti climatici estremi che limitarono l'area coltivabile alle coste dell'Africa settentrionale fino alla scomparsa totale della pianta. Gli storici ritengono che la raccolta intensiva della pianta, che cresceva solamente allo stato selvatico, come ricorda Teofrasto, portò a una riduzione degli esemplari più giovani, che venivano raccolti prima della maturità. A livello politico, poi, pare esserci stata una precisa volontà di reprimere il commercio della spezia, dal momento che il clero di Alessandria impose sulla Cirenaica il controllo delle istituzioni religiose dalla fine del III secolo d.C.. Il cristianesimo copto prima e la successiva invasione islamica hanno fatto perdere le tracce di questa pianta, ora considerata estinta, ma forse sopravvissuta in rari esemplari in nicchie ecologiche dimenticate.

Il cuore antico di Marsala, l'antica Lilibeo


Durante gli ultimi scavi archeologici a Marsala, nell'area di Capo Boeo, sono stati rinvenuti un impianto termale perfettamente conservato, inglobato in fortificazioni di più di due metri di altezza, una porta monumentale di accesso alla città antica dal porto e un altro tratto del decumano maggiore. Quest'ultimo è stato in uso fino al IV secolo d.C. e corrisponde all'attuale via XI Maggio, nel centro urbano di Marsala.
A condurre gli scavi la Soprintendenza ai Beni culturali di Trapani, con l'archeologa Rossella Giglio. L'estensione del decumano finora messo in luce è di circa 110 metri, l'intera larghezza dell'arteria stradale è stata stimata in 9,20 metri. I canoni del decoro architettonico della strada romana prevedevano, oltre al lastricato di calcare compatto bianco, anche delle canalette di scolo laterali, realizzate con mattoncini posti a spina di pesce. Un gigantesco collettore fognario attraversava il decumano in corrispondenza dell'incrocio, ad angolo retto, con un altro asse stradale.
Le ricerche condotte nel corso del '900 in aree private del centro urbano di Marsala, avevano già fornito dati relativi all'assetto urbano e alla necropoli. Già negli anni novanta del 1900 le scoperte della dottoressa Giglio hanno permesso di ampliare le conoscenze sulle testimonianze funerarie monumentali, con il ritrovamento dell'ipogeo dipinto di Crispia Salvia, che presenta una vivace decorazione policroma. Inoltre è stato identificato un intricato dedalo sotterraneo pertinente delle catacombe paleocristiane.
L'antico centro di Lilibeo, attuale Marsala, occupava tutta l'area urbana della città moderna. Nel 1999 è stata scoperta una piccola necropoli del V-VI secolo d.C. proprio su Capo Boeo. Ai margini del decumano massimo sono stati riportati alla luce degli isolati, con resti pertinenti strutture abitative (muri e pavimenti, soprattutto). Sulla pavimentazione stradale sono state rimesse in luce molte tombe, di cui due sono considerati dei casi unici: due tombe dipinte con iscrizioni in greco del VI-VII secolo d.C., racchiuse all'inizio e alla fine da piccole croci.
Nel 2005, durante lavori di restauro nell'area della chiesa di S. Giovanni Battista al Boeo, che ingloba, nella parte sotterranea la cosiddetta "Grotta della Sibilla", gli scavi condotti dalla dottoressa Giglio hanno riportato alla luce rilevanti strutture e una statua marmorea, frammentaria, che raffigura Venere del tipo Callipige (dalle belle natiche). La statua è stata in mostra a Bonn nel 2008 per poi rientrare a Marsala per essere definitivamente esposta nel Museo Archeologico "Baglio Anselmi".
Il complesso di culto, il primo ritrovato a Lilibeo, attivo fino al III-IV secolo d.C., è articolato in tre corpi di fabbrica rettangolari, delimitati da una strada, il cui tracciato è inserito nella maglia regolare del reticolo viario cittadino. L'aula centrale del complesso, che presenta un pavimento in mosaico a decorazione geometrica policroma, ha una pianta rettangolare con podio per statua, nei pressi del quale sono stati ritrovati numerosi frammenti di statue in marmo ed iscrizioni che, in parte, si riferiscono al culto di Iside. L'elemento più importante, tra i rinvenimenti, è la statua femminile di Venere, che è stata spezzata in antico, ed altri frammenti (due piedi, la mano sinistra e elementi del panneggio).
Sono, nel frattempo, in corso di studio le testimonianze epigrafiche, tra cui una in lingua latina, che fa riferimento alla costruzione di un tempio di Ercole.

domenica 20 febbraio 2011

Nuove tombe a Cerveteri

Durante una ricognizione aerea per la tutela delle aree Unesco del Lazio, i carabinieri hanno scoperto alla Banditaccia, nei pressi della necropoli di Cerveteri, un capitello marmoreo e, accanto al selciato sepolcrale principale, due tombe a camera. In queste sepolture è stata rinvenuta una coppa a vernice nera risalente al IV-III secolo a.C., su cui compare il simbolo della Trinacria.

La luce dei dodici dei


In Grecia è stato fatta una delle più emozionanti scoperte archeologiche degli ultimi anni. Sul versante nord-occidentale dell'Acropoli sono stati ritrovati i resti di quello che, probabilmente, è il celebre altare dei dodici dei, uno dei monumenti più antichi di Atene, quello che segnava il centro della città antica, quello dal quale partivano tutte le vie e si misuravano tutte le distanze, uno dei pochi descritti da Tucidite nelle sue opere. Non solo, proprio dall'altare dei dodici dei veniva comminato l'ostracismo, cioè l'esilio, della durata di dieci anni, contro i cittadini considerati un pericolo per la polis.
Gli archeologi, emozionati dalla scoperta, hanno dichiarato che questo ritrovamento cambierà la conoscenza della planimetria dell'antica città. L'altare dei dodici dei è quasi completamente sepolto sotto le linee ferroviarie in via di completamento e la società che gestisce i lavori di ampliamento della rete ferroviaria non sembra disposta a concedere ulteriore tempo per gli scavi. Gli archeologi, dal canto loro, hanno necessità di tempo per accertare che i resti ritrovati siano proprio quelli dell'altare dei dodici e per studiare i resti nel loro complesso.
Tucidide scrive che l'altare dei dodici dei fu dedicato durante la tirannia di Pisistrato da suo nipote e dal figlio del tiranno, Hippias, nel 522-521 a.C.. L'altare fu parzialmente distrutto durante la conquista persiana del 480-479 a.C. e non fu ricostruito fino a decenni più tardi, come hanno provato gli scavi nell'agorà, che hanno messo in luce pietre e conchiglie che sono state retrodatate.

sabato 19 febbraio 2011


Un vero e proprio servizio da tavola composto di teschi umani utilizzati come piatti e coppe. Questo è quello che è emerso da una grotta dell'Inghilterra sud-occidentale. Il particolare servizio da tavola è stato scoperto da una squadra di paleontologi guidati da Silvia Bello, del Museo di Storia Naturale di Londra.
I teschi, analizzati al carbonio, hanno dato un'età corrispondente a 14.700 anni fa. Gli abitanti della grotta usavano pulire i teschi e, con strumenti di pietra, modellare la parte superiore dei crani per farne dei contenitori. Forse i teschi venivano utilizzati in qualche tipo di rituale ancora sconosciuto. Alcune ossa umane, ritrovate accanto ai crani, mostrano tracce di carne e di rimozione del midollo che porta a pensare sia al cannibalismo che a pratiche mortuarie.

Tombe romane nell'aquilano

Ad Ortucchio, in provincia de L'Aquila, durante i lavori per la realizzazione di un canale, è emersa una necropoli di età romana, scavata completamente nel terreno naturale. La necropoli è formata da fango sabbioso di origine lacustre ed è composta di tombe a camera.
Fuori da una di queste tombe è stato rinvenuto una sorta di ripostiglio, in cui gli archeologi hanno ritrovato vasellame integro, brocche, olle, piatti, usato dai familiari del defunto per il pasto commemorativo e poi lasciato sul luogo. Sono oltre novanta i reperti ritrovati, per mezzo dei quali si può datare la necropoli alla seconda metà del II secolo a.C.. L'ingresso alle tombe era assicurato da alcuni gradini, che superavano il dislivello con l'antico piano stradale, parzialmente coincidente con il moderno. Una volta discesi i gradini, si percorreva un corridoio stretto tra alte pareti che immetteva in una piccola grotta dove il defunto era deposto su una banchina rialzata.
Quella di Ortucchio è la prima scoperta di tombe simili in tutto il territorio della Marsica. Da non trascurare il ritrovamento dei corredi con i quali i defunti sono stati deposti.

Necropoli longobarde a Forni di Sopra e Forni di Sotto (Ud)


L'ottobre scorso si sono concluse le indagini archeologiche tra Forni di Sopra e Forni di Sotto (Udine). Gli scavi sono stati condotti dall'architetto Fabio Piuzzi ed hanno portato a scoperte interessantissime. I rinvenimenti più notevoli sono stati quelli di una dozzina di sepolture in terra, appartenenti ad una popolazione di cultura longobarda. Le tombe potranno, una volta studiate a fondo, arricchire la conoscenza di questo popolo sul quale, da anni, Cividale conta per poter entrare nel circuito dei siti Patrimonio dell'Umanità secondo l'Unesco.
La necropoli si trova nei pressi della frazione di Andrazza, a Forni di Sopra ed è piuttosto estesa. Il sito, come risulta da alcuni documenti storici, era stato già segnalato nell'Ottocento. Le tombe ora venute alla luce sono ben conservate e dotate di ricchi corredi funebri: fibule, bracciali, anelli, altri ornamenti e piccoli attrezzi. Tutti questi reperti, ora, sono in attesa di essere puliti, catalogati e studiati.
Non si conosce molto della comunità che visse in questa zona, né si sa granché sulle cariche e i ruoli di potere ricoperti dai defunti ritrovati nelle sepolture. L'intera area sepolcrale conta 25 tombe, alcune delle quali già messe in luce, grazie anche a fondi regionali. Un primo sondaggio fu eseguito nel 2007, poi nel 2008 ed infine nel 2010. Proprio nel 2010, ad agosto, gli archeologi hanno ritrovato anche l'ingresso dell'antico fortilizio di Cuol di Cjestjel, risalente al IV-V secolo d.C., nonchè il sentiero che portava alla sommità del fortilizio.

Eos, l'aurora greca


Eos, dea greca dell'aurora, era figlia di due antiche divinità della luce, due titani, Iperione e Tea. Essa conduceva un carro guidato da rapidi destrieri, guidando la luce attraverso il cielo. Al mattino diventava Emera e verso il tramonto era Esperide. Eos era sorella di Elio, il sole, e di Selene, la luna. Era moglie di Astreo, da cui ebbe i venti Zefiro, Borea, Noto e Apeliote.
Aveva molti amanti, Eos, che spesso rapiva tra gli uomini. Il più famoso dei suoi amanti fu certamente Orione, un mortale piuttosto primitivo, che a causa dei maltrattamenti perpetrati ai danni della moglie Merope, fu accecato dal padre di costei, aiutato da Dioniso. Per recuperare la vista, Orione avrebbe dovuto bagnare il viso nei raggi di Eos. La dea lo vide, gli restituì la vista e lo tenne presso di sé come amante. I modi rozzi di Orione non per questo migliorarono, alla fine fu confinato tra le stelle per aver offeso Artemide.
Un altro amante di Eos fu Titano. Il legame tra loro fu così speciale che la dea chiese per lui l'immortalità, dimenticandosi, però, di chiedere con questa anche l'eterna giovinezza. Così Titano cominciò ad invecchiare e a coprirsi di rughe. Eos se ne disamorò presto, ma ebbe sufficiente pietà di Titano da trasformarlo in cicala e da metterlo in una gabbietta accanto alla sua porta. La cicala, così, la salutava con un trillo quando la dea usciva per il suo giro quotidiano. Eos non disdegnava gli dei, primo tra tutti Zeus, da cui ebbe una figlia di nome Ersa (o Erse), dea della rugiada.

venerdì 18 febbraio 2011

Il tribunale segreto della Santa Vehme


Per chi non ne faceva parte, la Santa Vehme era un mistero. Nessuno ne conosceva i segreti e chi osava curiosare rischiava la condanna a morte. Questa sorta di tribunale segreto fu una delle istituzioni più misteriose del Medioevo.
Alcuni studiosi ritengono che fu Carlo Magno a volere la Santa Vehme, ma potrebbe anche darsi che il nome del famoso imperatore fosse uno stratagemma per incutere ancora più timore nel popolo. Le ragioni della creazione di un simile tribunale possono rintracciarsi nel clima che si respirava nella Germania del XII e del XIII secolo. L'imperatore era sempre più impotente di fronte all'ascesa dei feudatari. Questo provocò tutta una serie di guerre private all'interno del paese. Chiunque p oteva saccheggiare, uccidere e annettere territori, la popolazione non era più tutelata nei suoi interessi.
Ovviamente i tribunali segreti non vennero istituiti per garantire giustizia ai poveri ed alla popolazione, ma fiorirono sull'onda di una sempre maggiore richiesta di giustizia. Il nome della corte appare, per la prima volta, nel 1229, in un documento ufficiale ritrovato a Munster. I linguisti si sono sbizzarriti sul termine Vehme e le conclusioni che hanno raggiunto sono diverse. Il tribunale fu anche chiamato in altri modi: Fehmgericht (Tribunale di Westfalia), Heimliche Acht (Tribunale segreto), Heilige Heimliche Rechtwissende Acht (Tribunale santo, segreto e giusto).
Inizialmente il tribunale giudicava su un numero contenuto di reati: abiura della religione cristiana, la violazione e la profanazione delle chiese e dei cimiteri, l'usurpazione del potere sovrano, la rapina, il furto, l'omicidio, l'incendio. Erano esentati a comparire, di fronte alla corte, donne, bambini, Ebrei (perchè non ritenuti degni). L'unico referente della Santa Vehme era l'imperatore, che diede sempre carta bianca a questo tribunale, dando ai suoi giudici il potere di vita e di morte sugli imputati.
La carica più alta, all'interno della Santa Vehme, era quella di "gran maestro" ed era appannaggio quasi esclusivo di nobili od ecclesiastici. Dopo di lui venivano i "franchi-conti". Questi magistrati avevano il compito di pronunciare le sentenze e compilavano e spedivano le lettere di citazione. I "franchi-giudici" rappresentavano l'accusa. Per entrare nel novero di coloro che facevano parte di questo tribunale, occorreva mostrare doti particolari di onestà e rettitudine. Inoltre costoro non potevano arrogarsi il compito di agire come longa manus del tribunale. Non potevano, poi, dissentire da una sentenza, se pure iniqua. Se dovevano procedere all'esecuzione, inoltre, dovevano uccidere l'imputato quand'anche fosse innocente.
Il processo si apriva con l'atto di citazione, affisso fuori dalla casa dell'accusato o appeso a una statua sacra nelle vicinanze. Talvolta l'atto era lasciato nella cassetta delle elemosine, se questa si trovava accanto a un crocifisso. Se l'accusato era irreperibile, si affiggeva la pergamena ad un crocevia.
Quando il "franco-conte" arrivava, si sedeva sul suo seggio. Accanto gli erano poste una spada (che rappresentava la croce di Cristo) e un ramo di salice (il potere di comminare dure punizioni). I "franchi-giudici" avevano il volto scoperto. Nel momento in cui la sentenza veniva pronunciata, il "franco-conte" lanciava una corda o un ramo di salice per terra. I "franchi-giudici" dovevano sputarci sopra, suggellando l'approvazione per quanto era stato deciso.
Ben presto il tribunale sfuggì al controllo del sovrano, che si trovò scavalcato dai suoi stessi giudici. In nome della Santa Vehme furono commesse molte atrocità che sancivano vendette private, più che la giustizia. Fu un periodo oscuro, per la Germania. Fu l'imperatore Sigismondo a porre un primo freno allo strapotere della Santa Vehme. Egli varò, nel 1439, una riforma degli statuti della corte che prevedeva l'obbligo di concedere all'accusato la possibilità di difendersi e di accertare realmente le prove della sua colpevolezza. Anche Federico III, Massimiliano I e Carlo V limitarono fortemente i poteri del tribunale. I giudici, ovviamente, si opposero e continuarono in quella che ritenevano essere la strada della giustizia. Di fatto i tribunali segreti conservarono le loro competenze fino al XVII secolo. I tribunali furono definitivamente aboliti dal re di Westfalia Girolamo Bonaparte nel 1811.

mercoledì 16 febbraio 2011

Memorie di antiche battaglie


(Fonte: AdnKronos) Una missione archeologica italiana nel mare dell'Albania, guidata dal rettore dell'Università di Foggia Giuliano Volpe, ha individuato il luogo della battaglia navale tra Cesare e Pompeo nel mare Adriatico.
Lo scontro mortale tra Cesare e Pompeo, consumato in lunghi anni di guerra civile, venne combattutto anche in mare. Il controllo delle vie d'acqua era altamente strategico per il passaggio di truppe e rifornimenti. Cesare, è noto, alla fine vinse a Farsalo nel 48 a.C.. Ma cosa accadde prima? Le sorti del conflitto non erano state sempre dalla sua parte. Uno dei momenti cruciali della durissima lotta intestina romana si ebe, appunto, nell'Adriatico, presso l'antico Orikum, poco distante da Valona, dove le flotte dei due nemici si scontrarono in una delle più dure battaglie navali dell'antichità.
Una missione dell'Università di Foggia, diretta dall'archeologo Giuliano Volpe, adesso punta diritto sui fondali individuati per una serie di impegnative campagne di scavi archeologici subacquei. I dettagli dell'imminente operazione saranno presentati in anteprima nell'ambito dell'incontro nazionale di "Archeologia Viva" domenica 20 febbraio al Palacongressi di Firenze.
"La zona è base militare Nato - dichiara Volpe - a conferma dell'importanza strategica che quel tratto di costa albanese ha sempre avuto per il controllo marittimo. Avremo presto tutte le autorizzazioni necessarie per procedere. Contiamo anche sulla collaborazione logistica di una missione americana che sta operando sempre in Albania, perchè per il nostro programma di ricerche servono davvero mezzi straordinari".
La prova certa del celebre scontro navale si avrà con il ritrovamento dei pesanti rostri di bronzo che venivano montati sulle prue delle navi per sfondare le fiancate delle unità nemiche, oggetti che sono individuabili grazie ai moderni magnetometri. Proprio come è accaduto di recente in Sicilia, dove tali ritrovamenti hanno consentito di individuare il luogo della battaglia delle Egadi, lo scontro navale che mise fine alla prima guerra punica.
Dai fondali dell'Albania alle imponenti colonne di Persepoli, attraverso le rovine di Ebla e fino alle testimonianze della prima guerra mondiale riportate in luce tra i ghiacci dello Stelvio, sul palco del Palacongressi fiorentino, domenica 20 febbraio, verranno presentate le più importanti scoperte archeologiche degli ultimi anni. Sfileranno nomi famosi della cultura italiana, da Luciano Canfora a Paolo Matthiae, da Andrea Carandini a Louis Godart, da Margherita Hack a Carlo Peretto per risalire nei meandri della storia fino al grande mistero delle nostre origini.

martedì 15 febbraio 2011

Una protesi faraonica...

(da: "La Stampa") E' stata scoperta a Luxor, nella necropoli di Tebe, la prima protesi della storia in legno e cuoio. Apparteneva a Tabaketenmut, figlia di un sommo sacerdote che visse tra il 950 e il 710 a.C.. E' la punta di un piede perfettamente conservata, progettata non solo come ornamento per l'aldilà, ma come aiutante pratico per camminare.
Jacqueline Finch, ricercatore dell'Università di Manchester, parla di risultati spettacolari. "L'alluce è pensato per trasportare circa il 40 per cento del peso del corpo - dice ed è responsabile della propulsione in avanti. Per realizzarlo c'è stato senza dubbio uno studio sulle tecniche di analisi del cammino".
Una protesi "altamente efficiente, che con l'allacciatura e la cucitura utilizzando un filo di cuoio, mostra una profonda consapevolezza di anatomia".

domenica 13 febbraio 2011

Monete nel Circo Massimo


Nel famoso stadio romano del Circo Massimo sono emerse 130 monete antiche, sepolte sotto 50 centimetri di terra.
Dal dicembre 2010 il Circo Massimo è interessato dagli scavi della Soprintendenza comunale, diretti da Maria Letizia Buonfiglio, Giovanni Caruso ed altri archeologi. Si stanno riportando alla luce dei reperti interrati subito dopo gli scavi del 1930, quando gli archeologi furono costretti a fermare i loro scavi a causa delle infiltrazioni d'acqua che invadevano le gradinate e parte della pista. Gli scavi, oggi, interessano la curva sud nell'intento di destinare il Circo Massimo al turismo archeologico più che alle manifestazioni commerciali e sportive.

Flavio Claudio Giuliano


Flavio Claudio Giuliano fu l'ultimo imperatore pagano e l'ultimo discendente di Costantino. Fu anche colui che ripercorse, all'inverso, il cammino di suo zio Costantino e per questo si guadagnò, da parte dei cristiani, il soprannome di Apostata. Ma i giudizi su questa figura antica non sono concordi, tant'è che alcuni contemporanei lo soprannominarono anche "l'Augusto vittorioso, flagello di tutte le tribù barbare" o anche "il pio e venerabile imperatore, maestro di tutte le virtù".
Giuliano nacque nel 331 da Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino, e dalla sua seconda moglie Basilina. Dopo diversi anni di contrasti familiari, Costantino elevò Giulio Costanzo alla carica di console, determinando anche il futuro del giovane Giuliano, la cui vita cambiò radicalmente con la morte di Costantino, nel 337. Giuliano aveva solo sei anni e rimase vittima delle faide per il potere tra i tre figli del defunto imperatore.
Dalla lotta per il potere si salvarono solo Giuliano e il fratellastro Gallo, nato nel 325 da un precedente matrimonio di Giulio Costanzo con Galla. Gallo venne inviato a Efeso mentre Giuliano venne recluso a Nicomedia, dove fu affidato alle cure del vescovo di Costantinopoli Eusebio ed istruito dall'eunuco Mardonio, precettore della madre. Questi alimentò, nel giovane Giuliano la passione per la letteratura classica greca.
Nel 341 Costanzo inviò Gallo e Giuliano nel palazzo imperiale di Macellum, in Cappadocia. Qui Giuliano visse per sei anni in un difficile isolamento in cui gli fu imposto lo studio dell'Antico e del Nuovo Testamento. Tra i suoi insegnanti vi era il vescovo ariano di Alessandria d'Egitto Giorgio di Cappadocia, il quale permise, al giovane Giuliano, di leggere anche autori non cristiani. Egli fu anche iniziato al mitraismo, antica religione misterica proveniente dall'area indo iranica.
Nel 351 Costanzo, temendo il tradimento dei suoi comandanti, aveva dato in moglie sua sorella Costantina a Gallo, capo dei territori orientali dell'Impero. A tre anni dal matrimonio, Gallo venne accusato di cospirazione e giustiziato. Nel 355 Giuliano venne convocato dall'imperatore a Milano. Durante il viaggio si fermò a Troia, per ammirare i resti della città cantata da Omero, accompagnato dal vescovo Pegasio che, pur definendosi cristiano, venerava gli dei e gli eroi del passato. A Milano Giuliano venne incarcerato per aver tramato contro Gallo e per altri reati che si rivelarono a tal punto inconsistenti che l'imperatrice Eusebia riuscì a farlo scarcerare. Giuliano ebbe, allora, il permesso di studiare ad Atene. Qui conobbe i sofisti e fu iniziato ai misteri eleusini.
Ben presto, però, Costanzo lo richiamò al suo fianco per combattere le tribù germaniche che premevano alle frontiere dell'impero. Prima di partire, Giuliano fu indotto a sposare Elena, sorella di Costanzo e fu elevato al rango di Cesare. Ad appena 24 anni Giuliano, che non aveva alcuna esperienza bellica, si trovò ad affrontare una seria minaccia ai confini dell'impero. Con grande sorpresa di tutti, egli riuscì a pacificare l'intera provincia, liberò ventimila prigionieri romani catturati dai Germani, rafforzò le difese della frontiera del Reno e, nell'agosto 357 riuscì a sconfiggere gli Alemanni a Strasburgo ed a catturarne il comandante. Nemmeno in questi frangenti Giuliano smise di venerare gli antichi dèi, alzandosi nella notte per pregare Ermes per il bene delle sue truppe.
Costanzo si preoccupò di questo nuovo, giovane e valoroso rivale, al punto che decise di togliergli il potere decidendo di inviare in Oriente le truppe ausiliarie per combattere i Persiani che minacciavano le provincie mediorientali dell'Impero. Giuliano accettò l'ordine, ma non così i suoi soldati che non volevano abbandonare le terre e le famiglie. Giuliano cercò di trattare con l'imperatore. Nell'estate 361 partì per Costantinopoli. Giunto a Naisso, in Illiria (oggi in Serbia), città natale di Costantino, inviò missive per Roma, Sparta, Corinto e Atene in cui dava spiegazioni della sua condotta nei confronti di Costanzo in Cilicia.
L'11 dicembre 361 Giuliano fece il suo ingresso trionfale da imperatore a Costantinopoli. La corruzione e l'eccessiva sfarzosità della corte lo nausearono al punto da ridurre al minimo indispensabile le spese di corte. Si scelse, come collaboratori, degli amici fidati e si mostrò impietoso nei confronti dei consiglieri dell'imperatore Costanzo, oramai defunto.
Il 14 febbraio 362 emnò un editto che proclamava la libertà di culto in tutto l'impero romano. Il paganesimo aveva, a questo punto, lo stesso valore del cristianesimo. Giuliano, designato Pontifex Maximus, supremo sacerdote della religione pagana, si dedicò a comporre opere ispirate al neoplatonismo. Fece tornare a corte i filosofi Prisco e Massimo di Efeso. Restaurò i santuari pagani, utilizzati come cave per nuovi edifici e spronò i suoi seguati a praticare la pietas, la carità e l'amore per il prossimo. Giuliano abolì l'esenzione dai tributi e altri privilegi precedentemente conferiti al clero ed appoggiò gli ebrei, nemici dei cristiani, promuovendo il loro culto e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme. Con un editto, poi, vietà l'insegnamento della retorica ai professori cristiani, poichè la riteneva una materia di tradizione classica.
Sul piano bellico, Giuliano, per rafforzare il prestigio conquistato in Gallia, decise di sferrare l'attacco decisivo ai Persiani. Si trasferì ad Antiochia per preparare l'attacco. Anche qui si mostrò insofferente alla vita di corte, fatta di sfarzo e di futili passatempi. Inoltre la città, in maggioranza cristiana, si opponeva alla restaurazione del paganesimo. Quando un incendio ridusse in cenere il tempio di Apollo e Dafne, Giuliano ne attribuì la responsabilità ai cristiani.
Nel 336 l'imperatore mosse contro i Persiani e conquistò città e piazzeforti sull'Eufrate. Il 26 giugno in una battaglia a Maranga, in Mesopotamia, contro le truppe di re Shapur II, Giuliano, accorso in aiuto dei suoi uomini privo della corazza, fu colpito a morte da una lancia. Spirò alla mezzanotte di quello stesso giorno, assistito dai filosofi Massimo di Efeso e Prisco. Aveva solo 32 anni.
Aveva accompagnato Giuliano, in quest'ennesima avventura, il suo medico personale, Oribasio di Pergamo, che aveva studiato medicina nella famosa Scuola di Alessandria. Su ordine dell'imperatore, Oribasio aveva compilato la più importante raccolta di pratica medica, la celebre Synagogae Medicae, un'enciclopedia completa del sapere medico del tempo, in 70 volumi. Lo storico Ammiano Marcellino riferisce che la lancia di un soldato a cavallo, dopo aver ferito di striscio un braccio di Giuliano, gli perforò le costole per poi conficcarsi nel lobo inferiore del fegato. L'imperatore tentò di strappar via la lancia con la mano destra quando sentì i tendini delle dita tagliati dalla lama affilata a doppio taglio. Allora cadde da cavallo e fu portato nell'accampamento dove fu soccorso.
Giuliano ha lasciato un vasto patrimonio di scritti, con i quali si riprometteva di porre le basi della controriforma pagana.

...in occasione di San Valentino

La Festa degli innamorati è occasione, per il Museo Archeologico Nazionale di Sarsina (Fc), per organizzare tre visite guidate gratuite alla scoperta dell'amore ai tempi dei Romani. Versi d'amore per la propria moglie oppure espressione d'affetto per la madre e la sorella erano sovente iscritte sui monumenti funerari romani.
Le visite illustreranno l'intero museo ma interesseranno particolarmente le testimonianze d'amore coniugale. Al centro dell'attenzione saranno soprattutto due iscrizioni di II secolo d.C., che recano carmi sepolcrali come quello che si ispira alle quattro stagioni, fatto incidere da Cesio Lysimaco per la moglie Marcana Vera.
Ogni coppia avrà, in regalo, la pubblicazione "Sarsina, parole di pietra", che illustra le epigrafi del Museo Archeologico Nazionale.
Museo Archeologico Nazionale di Sarsina
Via Cesio Sabino, 39 - Sarsina (Fc)
Info: 0547.94641

Effetti collaterali


Zahi Hawass ha, purtroppo, dovuto dare una notizia piuttosto triste: durante il corso della rivolta in egitto sono stati rubati, dal Museo de Il Cairo, otto reperti di grande valore. Si tratta di una statua di legno dorato di Tutankhamon portato da una dea e del re mentre caccia con l'arpione; di una statua della dea Akena; di una statua di Nefertiti che presenta delle offerte; della testa di una principessa di Amarna in arenaria; di una statuetta di pietra di uno scriba di Amarna; di undici statuette in legno di Yuya e di uno scarabeo del cuore sempre di Yuya.
C'è stata, poi, un'incursione nel magazzino "De Morgan's" di Dahshur, dove sono custoditi grandi blocchi e piccoli reperti.
Speriamo che tutto ciò che è stato malauguratamente sottratto torni presto al suo posto, per essere ancora ammirato da tutti coloro che amano e visitano questo splendido Paese.

sabato 12 febbraio 2011

Passare nell'aldilà


L'Egitto ci ha lasciato tre grandi testi funerari che, pur differenti tra loro, possono essere un esempio delle credenze e delle usanze egizie legate al mondo ultramondano. La moderna archeologia indica questi testi come: i Testi delle Piramidi, i Testi dei Sarcofagi e il Libro dei Morti.
I Testi delle Piramidi (il titolo è moderno) erano prevalentemente scritti all'interno delle piramidi e si datano ad un periodo compreso tra la V e la VI Dinastia. Ricomparvero, poi, 2000 anni dopo nelle tombe dei personaggi più importanti della XXVI e della XXVII Dinastia. Questi testi sono composti da numerose formule magiche che permettevano al sovrano di passare felicemente nell'aldilà. I privati erano esclusi dall'utilizzo di queste formule, mentre vi erano inclusi i funzionari, le cui tombe si trovavano nei pressi della piramide del loro sovrano.
Tra la fine del III e gli inizi del II millennio a.C., però, le cose cominciarono a cambiare anche grazie al tramonto della vecchia società aristocratica e alla maggiore importanza assurta da nuovi centri di potere di origine provinciale. Questo portò, ben presto, all'adozione di un nuovo rituale funerario, codificato nei Testi dei Sarcofagi, scritti, appunto, all'interno dei sarcofagi. Questi testi ponevano, al centro di tutto, la sopravvivenza oltre la morte che, stavolta, non era solo appannaggio del faraone e dei suoi più stretti collaboratori, ma è, piuttosto, un destino che accomuna tutti gli uomini.
In questo contesto nacque il Libro dei Morti, che sottolinea ancora di più la presenza di un giudizio nell'aldilà, in cui ognuno dovrà rendere conto delle azioni compiute in vita. Tra i tre libri, però, non esistono fratture evidenti, quanto, piuttosto, una certa continuità. Il pensiero egiziano, infatti, era contrario a fratture e cambiamenti netti. Il Libro dei Morti è una raccolta di formule funerarie attestatasi durante la XVIII dinastia. Il nome con il quale questa raccolta è conosciuta, si deve all'egittologo Richard Karl Lepsius (1810-1884). Il suo titolo più antico era peret em heru, tradotto come "(Formule per) uscire di giorno (o al giorno)". Le formule contenute nel libro, infatti, davano al defunto la certezza di uscire dal sepolcro durante il giorno per ritornarvi, poi, la sera, al tramonto.
Il Libro dei Morti presenta anche delle illustrazioni, che mostrano l'anima del defunto prendere il volo sotto forma di un uccello con testa umana (il cosiddetto ba, "anima"), attraversare il pozzo che mette in comunicazione la tomba con il mondo dei vivi e, una volta uscito al giorno, lo mostra posarsi sui rami di un albero vicino alla sepoltura. Oltre a queste illustrazioni, il Libro illustrava anche come essere traghettati verso i Campi di Iaru, quel Paradiso al quale aspiravano tutti gli abitanti della terra del Nilo.
Il Libro dei Morti era redatto su papiri, che i parenti del defunto acquistavano nelle "librerie" presenti presso le grandi e piccole necropoli a partire dal Nuovo Regno (XVIII Dinastia). Ogni libro recava il nome del defunto nella pagina introduttiva e nel testo. Sono pervenuto, sino a noi, testi in cui manca il nome del proprietario e sono presenti degli spazi bianchi che consentivano di inserire il nome non appena il libro fosse stato acquistato. Il legame fra il libro ed il suo proprietario era molto importante proprio a causa del contenuto magico del libro stesso.
Il papiro pubblicato da Lepsius era composto di 162 capitoli di varia lunghezza. Le edizioni più antiche del Libro dei Morti erano redatte in caratteri geroglifici incolonnati da destra verso sinistra. Più tardi venne utilizzata la scrittura ieratica su delle righe, anche se le edizioni redatte in geroglifico non scomparvero mai. Capitoli del Libro si potevano inscrivere anche su singoli oggetti del corredo funerari, come gli ushabti, il cui compito era quello di sostituire il defunto nell'aldilà, qualora questi fosse stato chiamato a compiere lavori pensati. Il Capitolo 30, invece, veniva scritto sullo "scarabeo del cuore" perchè quest'ultimo non testimoniasse contro il suo padrone.
Il British Museum vanta il più consistente corpus di documenti riguardanti il Libro dei Morti. Tra questi il Papiro Greenfield che, con i suoi 37 metri di lunghezza è l'esemplare più lungo che si conosca. Il Papiro Greenfield fu rinvenuto a Deir el-Bahari, nella cachette di Nestanebtasheru, una donna vissuta durante la XXI Dinastia. Interessantissimo è anche il Libro dei Morti di Hunefer, scriba della XIX Dinastia, ricco di rappresentazioni vignettistiche a corredo delle formule magiche.

Un pizzico di Modena


Il fenomeno più importante per la città di Mantova e per il suo circondario è stato, senza dubbio la presenza degli Etruschi che ne fecero la città più importante della Pianura Padana. Il centro città ha restituito reperti persino anteriori al IV secolo a.C. che suggeriscono un'antichità maggiore a quella supposta sinora.
L'abitato antico sorgeva, presumibilmente, all'interno della civitas vetus medioevale ed è stato, nei tempi, nascosto. Da qui provengono resti di abitati con pavimento in battuto nonchè tracce del passato splendore della città: ceramiche attiche figurate, vasellame in bucchero, fibule a sanguisuga con anima in terracotta. Molte iscrizioni parlano di un luogo sacro agli Etruschi posto nella civitas vetus medioevale.
L'impianto della città romana fu definito dopo il 49 a.C., con l'acquisizione della cittadinanza romana e la trasformazione in municipium. E' in questo momento che, con tutta probabilità, il centro urbano viene allargato. La scoperta più importante risale al 2008, quando in piazza S. Barbara, durante i lavori per la posa in opera del teleriscaldamento, sono venuti in luce ampi tratti di basolato con andamento nord-est/sud-ovest, coincidente con un tratto del cardo romano. I basoli sono di forma poligonale, in trachite, e recano impressi, sulla superficie, alcuni solchi longitudinali creati dal passaggio dei carri.
A tutt'oggi non si conoscono quali siano gli edifici compresi all'interno delle mura. Nel 2000 è stata rinvenuta una domus di età imperiale, distrutta e spogliata in età antica. Della domus si conservano i pavimenti musivi di età adrianea, con motivi geometrici a tessere bianche e nere, tra i quali spiccano nodi di Salomone, svastiche e stelle.
Il complesso architettonico più interessante è stato scoperto in piazza Sordello, dove è stata ritrovata un'altra domus di età imperiale, con pavimenti a mosaici policromi. Sono stati identificati i limiti di un ambiente piuttosto grande con pavimentazione musiva, e di un altro ambiente con mosaico figurato. Sono stati parzialmente scavati altri ambienti, dei quali uno con un emblema rettangolare policromo. Nel motivo a treccia sono inserite due figure stanti che potrebbero essere quelle di Marte e Venere. In età tardo-antico la domus si degradò e venne destinata ad un uso più modesto. All'interno di alcuni ambienti furono scavate delle buche in cui furono gettati materiali di scarico.

Echi di battaglie lontane


Nell'area archeologica di Termini Imerese sono state rinvenute le tombe dei guerrieri che, nel 480 a.C., si opposero alle mire espansionistiche dei Cartaginesi in Sicilia. Si tratta di circa cento soldati sepolti in fosse comuni, ciascuna delle quali contiene fino 59 cadaveri.
Gli uomini sono morti in due distinte battaglie che hanno avuto luogo dinnanzi alle mura di Himera nel 480 e nel 409 a.C.. Gli scheletri ritrovati presentano segni di lancia. Nel 480 a.C. una coalizione composta da Greci di Sicilia, Imeresi, Agrigentini e Siracusani, guidati da Gelone di Siracusa, affrontarono e sconfissero i cartaginesi.
Il lavoro di scavo è stato intrapreso nel settembre 2008 e si è concluso nel dicembre 2010, portando alla scoperta una necropoli contenente 9.500 sepolture imeresi vissuti tra il VI e il V secolo a.C.. La maggior parte di queste sepolture era del tipo "a cappuccina", i cadaveri vi erano deposti in posizione supina. Elevata era la percentuale di sepolture di neonati, i cui resti venivano deposti in anfore accompagnati dal corredo funebre, nel quale spiccano i "guttus", piccoli vasetti di terracotta dotati di un beccuccio, con funzione di poppatoi.
La colonia greca di Himera fu fondata nel 648 a.C. dai Calcidiesi di Zancle (oggi Messina) e da esuli siracusani, alla guida di Euclide, Simo e Saccone. I suoi resti si trovano su un pianoro rettangolare bagnato dal fiume dal quale ha preso nome. Molti studiosi ritengono che il luogo fosse abitato, però, ancor prima dell'arrivo dei Greci. Il luogo doveva la sua fama alla sua funzione di avamposto greco contro i Cartaginesi ed allo sbocco sul Tirreno che permetteva i commerci con l'Etruria e la Spagna, dalla quale proveniva l'argento.
Himera contava tre rioni. I quartieri sud e nord sorgevano sul pianoro triangolare, dove la parte più settentrionale ospitava l'area sacra (che non comprende il Tempio della Vittoria). A nord-est vi erano abitazioni e sul lato occidentale la necropoli. La planimetria del reticolato stradale è ippodamea, scandita ritmicamente da isolati e vie rigorosamente parallele ed equidistanti.
L'area sacra era isolata dalla struttura abitativa della città e conteneva quattro templi e un altare. Il tempio che ha restituito maggiori reperti è quello della Vittoria, simile ai templi agrigentini. Sembra sia stato costruito nel 480 a.C. sul terreno in cui fu combattuta l'epica battaglia contro i Cartaginesi. E' un tempio dorico dedicato a Zeus, con pronao sul retro della cella. Durante gli scavi attorno al tempio sono state rinvenute 56 grondaie a forma di testa di leone, opera di diversi scultori.

Nuovi, sorprendenti ritrovamenti a Roma


Un eccezionale rinvenimento archeologico a Roma: sei eccezionali sculture di marmo del III secolo d.C. sono state ritrovate nel corso delle indagini archeologiche preliminari alla realizzazione del Piano di Zona Edilizio "Anagnina". Forse le statue provengono dalla villa di un alto funzionario di rango imperiale.
Le statue erano deposte in una vasca pertinente ad una villa romana. A ritrovarle gli archeologi coordinati da Roberto Egidi. Si tratta di un busto con ritratto e due teste ritratto di personaggi maschili della famiglia dei Severi, un ritratto femminile della stessa famiglia, un ritratto - coevo - di una bambina, una statua che ritrae, probabilmente, Zeus nudo a grandezza naturale.
E' stata, poi, recuperata un'erma arcaicizzante di grandezza superiore al vero. I pezzi, nel loro complesso, saranno custoditi al Museo Nazionale Romano, nella sede delle Terme di Diocleziano, dove saranno prestati i primi restauri. Il contesto dal quale provengono i resti ha già in passato restituito diversi reperti, quali una testa maschile in terracotta in stile ellenistico, più grande del naturale; un ritratto maschile della fine del I secolo d.C. e un rilievo marmoreo raffigurante un Galata morente di un tipo che richiama i rilievi pergameni.
Proprio l'appartenenza della maggior parte dei ritratti a personaggi della famiglia dei Severi ha fatto pensare che le statue ritrovate siano pertinenti alla villa di un funzionario di alto rango, legato alla famiglia imperiale. L'esistenza di un mausoleo di epoca tardo-imperiale adiacente l'impianto non fa che rafforzare questa ipotesi. Infatti nel II-III secolo d.C. era invalsa l'abitudine di seppellire il proprietario accanto alla sua dimora.

martedì 8 febbraio 2011

Horbat Midras


Durante uno scavo ad Horbat Midras, in Israele, è stato ritrovato un bellissimo pavimento in mosaico che apparteneva a una chiesa bizantina di oltre 1500 anni, con figure di leoni, volpi, pesci e pavoni.
Lo scavo è stato condotto per conto della Israel Antiquities Authority, al fine di prevenire ed evitare depredazioni del sito da parte di scavatori clandestini. Le rovine erano costruite sopra a un'altra struttura che, probabilmente, fu realizzata in epoca romana. I suoi tunnel sotterranei furono utilizzati dai ribelli giudei nel II secolo d.C.. La fortezza fu distrutta durante la ribellione di Bar Kokhba.
La basilica paleocristiana comprende un grande cortile lastricato a cui si accedeva attraverso un corridoio. Nella navata centrale vi erano otto colonne di marmo con ricchi capitelli decorati importati dalla Turchia. Alcuni studiosi ritengono che proprio nei pressi della basilica possa ritrovarsi la tomba del profeta Zaccaria. Le fonti cristiane analizzate, tra cui la "carta di Madaba", in Giordania, portano a credere che Horbat Midras possa essere stata una chiesa commemorativa proprio alla memoria di Zaccaria, costruita essenzialmente per custodire la tomba del profeta.

domenica 6 febbraio 2011

La misteriosa terra dei Colchi


Uno tra i miti più affascinanti tramandatici dai Greci antichi è, senza dubbio, quello degli Argonauti. Il mito narra di Giasone, giovane e avvenente principe della Tessaglia, partito per la Colchide (che si trovava sulle sponde orientali del Mar Nero) alla ricerca del Vello d'Oro.
La Colchide è veramente esistita, nell'antichità fu un vero e proprio calderone di civiltà. Oggi la regione appartiene alla Georgia occidentale. Negli ultimi venti anni, gli scavi archeologici in questa regione hanno restituito i resti umani più antichi d'Europa e d'Asia: quelli dell'Homo Georgicus, databili a 1.800.000 anni fa. Questa scoperta ha fatto pensare agli studiosi che il popolamento dell'Europa potesse aver avuto origine proprio dall'antica Colchide.
Tremila anni fa furono i Micenei a interessarsi della Colchide: la regione entrò a far parte della sfera d'influenza di Iolco, in Tessaglia, nella Grecia centro-orientale. I Colchi sono menzionati anche nelle iscrizioni assire e urartee e da molti autori antichi come Ecateo di Mileto, Erodoto e Arriano.
Tra i centri più importanti della regione c'era Vani, identificata, da alcuni studiosi, con la città di re Eete, che prosperò fino al I secolo a.C., quando venne distrutta. Fu proprio a Vani che si recò Giasone per cercare il famoso Vello. Il sito della città antica è a 40 chilometri di Kuaisi ed ha restituito molti reperti importanti, tra i quali monili d'oro, ornamenti e resti monumentali di sepolcri ed edifici.
L'antichità dei contatti tra Colchi e Greci è rintracciabile nei miti di Giasone e di Prometeo. Nel VI secolo a.C. i Greci fondarono, nella Colchide, le città di Phasis (oggi Poti) e Dioskourias (oggi Sukhumi), porti commerciali di notevole importanza.
Alla fine del IV secolo la Colchide divenne una regione ellenistica. Nel corso della sua storia la regione fu, comunque, al centro degli interessi di grandi imperi e il teatro di numerosi eventi bellici. Proprio come tremila anni fa, quando proprio in Colchide apparvero gli Argonauti, provenienti dal mar Mediterraneo. Duemila anni fa, invece, fu Pompeo Magno, alla testa di un esercito di 60.000 soldati e più di 3.000 cavalieri, a traversare la Colchide fino al Mar Caspio: doveva sconfiggere Mitridate. Nell'attraversare la Colchide, Pompeo sconfisse popolazioni come Albani e Iberi. Del passaggio del generale romano, come del regno di Albani e Iberi, non sono rimaste tracce evidenti, se si escludono i resti di un ponte in pietra che Pompeo fece erigere sul fiume Mtkvari, nei pressi dell'antica capitale della Georgia.
I Romani tennero in molta considerazione la Colchide e le regioni vicine come l'Iberia, che rappresentava un importante crocevia dei traffici con l'Oriente. Qui, inoltre, i Romani avevano la possibilità di controllare le popolazioni nomadi che minacciavano la regione.
Gli scavi archeologici che hanno interessato l'antica Colchide hanno permesso di mettere in luce monumenti che rispecchiano la penetrazione dell'ellenismo nell'antica società dei Colchi. Gemme, pietre dure e materiali di oreficeria attestano i reciproci rapporti e scambi culturali tra la Colchide, l'Iberia, l'Albania e Roma.
Dione Cassio fa menzione di un viaggio a Roma del re di Iberia Farasmane II con la sua famiglia e del suo incontro con l'imperatore Adriano che gli concedette di allargare il suo territorio, di sacrificare in Campidoglio ed eresse a Farasmane una statua equestre in Campo Marzio.
In Iberia è stato scavato il quartiere di Mtskheta, antica capitale del regno, chiamato Armazis Khevi e qui sono stati ritrovati i resti di costruzioni e tombe con ricchi corredi funerari. Nel villaggio poco lontano di Dzalisi, l'antica Zalissa, ricordata anche da Tolomeo, geografo del II secolo d.C., sono state riportate alla luce delle terme romane, decorate con splendidi mosaici nei quali spicca la figura di Dioniso ritratto con Arianna. E' stata ritrovata anche una piscina di grandi dimensioni proprio accanto alle terme.
Nel I-II secolo d.C. Roma impiantò delle fortezze a guardia della sponda del Caucaso, sino a Sebastopolis per combattere i pirati, compito, questo, della classis Pontica, la flotta che pattugliava il Mar Nero meridionale e orientale. All'interno le fortificazioni furono, invece, piuttosto rade. A sud di Bitumi, città sul Mar Nero, è possibile tuttora vedere il complesso della fortezza romana di Gonio, antica Apsaros, integra pur nelle ricostruzioni di epoche successive, con diciotto torri, un teatro e un impianto termale.
Ai margini della Colchide, invece, sono stati individuati i resti di Idessa, l'antica Phrixos, una piccola città fortificata menzionata da Strabone. Nella provincia di Aspindza è stata fatta un'importante scoperta archeologica: una vasta necropoli all'interno di una vallata nascosta.
La regione di Samtskhe, nella parte meridionale dell'attuale Georgia, è una terra storicamente preziosa. Qui abitava l'antica tribù georgiana dei Metskhebi, conosciuta anche dalla Bibbia. Proprio dalla regione di Samtskhe, sconfitto il re d'Armenia Tigrane (66 a.C.), fece il suo ingresso in Colchide Pompeo che, con tutta probabilità, si accampò nei pressi delle rive del fiume Mtdvari. Sulle due rive di questo corso d'acqua si estendeva la città più importante della regione: Sosangheti, uno dei nodi principali dei traffici commerciali verso la Persia. La città, all'arrivo del generale romano, vantava già 500 anni di vita. Sosangheti fu completamente distrutta da Pompeo, che la diede, poi, alle fiamme. Tracce di questo devastante incendio sono state ritrovate durante gli scavi dell'antica città. Attorno al territorio di Sosangheti sono state individuate centinaia di sepolture, di diversa forma e fattura, nonchè mura ciclopiche risalenti all'Età del Bronzo. I primi scavi archeologici sono stati iniziati nel 2009 ed hanno permesso di rilevare, oltre la straordinaria vastità dell'area sepolcrale, anche il vasto arco temporale delle sepolture, che abbraccia un periodo compreso tra il IV-III millennio a.C. e il II-III secolo a.C.. Sono stati estratti ricchi corredi funerari e una scultura in legno di carattere votivo che rappresenta le corna di un toro, risalente all'Età del Bronzo.
La prosecuzione della campagna di scavo permetterà di dare un volto e un nome alle popolazioni che abitavano, un tempo questa regione e a far luce sui tanti misteri che avvolgono questa bellissima terra che sembra essere stata dimenticata.

Turchia, gli "inviti" di Antioco I di Commagene...

Turchia, l'iscrizione di Antioco di Commagene (Foto: AA) Un'iscrizione trovata vicino a Kimildagi , nel villaggio di Onevler , in Tu...