giovedì 31 marzo 2011

Dinosauro tunisino


A soli cinquanta centimetri sotto la superficie del terreno, in Tunisia, presso Tataouine, è stato ritrovato lo scheletro di un rettile preistorico. A fare la scoperta, un gruppo di archeologi dell'Università di Bologna e dell'Ufficio Nazionale delle miniere tunisino. Il dinosauro, risalente a centodieci milioni di anni fa, sarebbe il primo della sua specie pervenuto completo nonchè il primo grande erbivoro ritrovato in Tunisia. La sua scoperta può aiutare a ripercorrere la trasformazione dell'Africa del Nord, soprattutto i suoi grandi vertebrati, da confrontare con i loro "colleghi" europei e brasiliani. Ad aprile i resti del dinosauro verranno trasferiti a Bologna dove saranno studiati più approfonditamente prima di essere riportati in Tunisia, dove saranno esposti al Museo della Memoria della Terra.

mercoledì 30 marzo 2011

Le terme di Frosinone


Nei pressi di piazza De Mattheis, a Frosinone, è stato scoperto, nel 2007, un vasto settore di un impianto termale. Le indagini hanno permesso di evidenziare strutture murarie relative a un complesso tardo repubblicano. A nord è stato scavato un ambiente delimitato da murature a secco, costituite da pietre calcaree, frammenti di laterizio, dolia e terra argillosa. A questo ambiente era associato un dolio privo di orlo, interrato all'esterno, del diametro di 97 centimetri, conservato dal fondo per 70 centimetri di altezza. Il vano era parte, forse, di un piccolo insediamento rustico ed è stato datato, in accordo con la ceramica ritrovata in situ, tra il II e il I secolo a.C. Sono state ritrovate diverse strutture murarie, non connesse le une con le altre. La prima struttura emersa, coperta in parte dalla fogna moderna, è costituita da blocchi in calcare e basalto messi in opera a secco, con frammenti di laterizi. Nella costruzione a secco sono stati utilizzati basoli, pietre calcaree sbozzate, frammenti di dolia e di tegole. Questi muri sono stati intercettati e tagliati per la costruzione dell'impianto idrico del complesso termale e, poi, sono stati coperti da uno strato battuto, forse un piano di calpestio esterno alle terme. Fra i reperti ritrovati e pertinenti a queste strutture, vi sono frammenti di ceramica a vernice nera, impasto chiaro sabbioso e da fuoco, aghi e spatoline in osso, chiodini di bronzo e una pedina da gioco graffita ricavata da un recipiente in ceramica a vernice nera. La tecnica edilizia risale al III-II secolo a.C., mentre la ceramica invetriata romana e la sigillata italica sembrano suggerire un abbandono delle strutture in età imperiale. Le indagini archeologiche hanno evidenziato un'occupazione dell'area fra il III e il I secolo a.C., con una struttura abitativa di tipo rustico. Questo stanziamento sembra cessare nel primo secolo dell'mpero. Nel III secolo d.C. qui venne eretto un complesso termale. Le strutture individuate (il fronte meridionale e parte del limite occidentale del complesso) si estendono su un'area di 500 mq, ma la superficie originale doveva essere ben più estesa. Indicativi sono i rinvenimenti avvenuti nel 2000, vale a dire diverse strutture murarie analoghe a quelle delle terme ed una rampa basolata in pendenza. Questi resti possono essere parte delle terme con ingresso in via Latina. Si sono conservati solo ambienti dei sottoservizi, quali l'ipocausto o pilae o prefurnium, le vasche, le fondazioni e la rete idrica di drenaggio e smaltimento delle acque. Le strutture murarie sono costituite da cortina in opera laterizia con fette di mattoni su entrambi i lati e nucleo in calcestruzzo. Le suspensurae dell'ipocausto sono alte 50 centimetri e disposte su file parallele, distanti tra loro 30-40 centimetri. Molti dei laterizi impiegati ed altri frammenti conservano impresso un bollo del quale non è stato possibile riscontrare confronti diretti. Le intercapedini parietali sono costituite da tegole poste con le alette contro il muro.

domenica 27 marzo 2011

La Magna Mater a Roma


Per gli antichi Romani, la Magna Mater non era una dea estranea. Secondo la nota leggenda, infatti, i Romani discendevano dal troiano Enea. Troia si trovava in Asia Minore che era anche la patria della Magna Mater. Il culto tributato a questa divinità aveva un carattere orgiastico e dionisiaco. Durante le danze venivano suonati e percossi fortemente alcuni strumenti musicali, come i cembali o il timpano, strumento caratteristico della Magna Mater. I sacerdoti della Magna Mater erano chiamati arcigalli ed erano soliti flagellarsi e mutilarsi in onore di Cibele, la Magna Mater asiatica, appunto. Dopo le danze e le urla, i sacerdoti usavano girare rapidamente su se stessi ed emettere vaticini. Cibele era onorata, a Roma, con due culti. Quello romano, pubblico, si articolava nei Ludi Megalensi, dal 4 al 10 aprile, durante i quali si svolgevano rappresentazioni teatrali davanti al tempio dedicato alla dea. In seguito, alle rappresentazioni teatrali si aggiunsero gare e corse nel Circo Massimo. Era prevista anche l'offerta di un piatto di erbe chiamato moretum e l'invito reciproco dei Romani a banchetti che si svolgevano di sera. Il culto originario, invece, era officiato esclusivamente dagli arcigalli con cerimonie che iniziavano il 15 marzo e terminavano il 28. Il 15 marzo si svolgeva una solenne processione dei cannofori, una corporazione di portatori di canne che si recavano al tempio di Cibele, sul Palatino. Questa cerimonia era chiamata "Canna Intrat" e si rifaceva ad un antico rito agrario officiato per impetrare la pioggia. A questa cerimonia seguiva un periodo di penitenza, denominato "Castus Matris", il digiuno della Madre, che durava fino al 22 marzo, quando una processione onorava la dea e il suo amante Attis. La corporazione dei dendrofori (portatori dell'albero-fallo), esponeva nel tempio della dea un pino reciso dai componenti della corporazione. Poi lo privavano quasi completamente dei rami, lo avvolgeano in bende di lana rosso sangue, lo decoravano con ghirlande di viola e con strumenti musicali e vi aggiungevano una statuetta di Attis, attorno alla quale si svolgeva il compianto per la sua morte (cerimonia detta "Arbor Intrat"). Il giorno del sangue (detto "Dies Sanguinis" o più comunemente "Sanguem") era celebrato il 24 marzo. I fedeli si percuoteva, si ferivano, si flagellavano a sangue. Il sangue era il punto centrale della cerimonia e ricordava quello sparso da Agdisti e di Attis, da cui nacquero un melograno e le viole. In questo caso il sangue sottolineava la rinascita dopo la morte. Il pino veniva quindi sepolto fino al nuovo anno e seguiva una notte di veglia. Il 25 marzo era chiamato "Hilaria" e celebrava la simbolica rinascita del dio e l'entrata della primavera. Attis rinasceva e veniva celebrato con la presenza di una luce nel tempio. Il 26 marzo era il giorno del riposo ("Requetio"). Alla festa della "Lavatio", l'aspersione della statua di Cibele, prendevano parte i quindecemviri, il 27 marzo. Cibele veniva portata, su un carro, al fiume Almone. Nella testa della statua era incastonata la pietra sacra che il 4 aprile del 204 a.C. era giunta a Roma con il simulacro della dea. Il carro era spinto nel fiume e il sacerdote preposto ai riti, l'arcigallo, bagnava e poi asciugava la statua. Quindi la cospargeva di cenere. Livio e Varrone scrivono che, durante la seconda guerra punica, un'interpretazione sibillina profetizzò che Annibale si sarebbe allontanato dall'Italia e da Roma solo se si fosse portato in città la Madre degli Dei. Fu così che il Senato ufficializzò il culto di Cibele nel 204 a.C., facendone venire il simulacro di Pessinunte, una pietra nera, probabilmente un meteorite, per accogliere la quale venne costruito il tempio sul Palatino. Il 6 aprile 204 a.C. le navi con il simulacro aniconico di Cibele approdarono alle foci del Tevere. Momentaneamente la dea venne "ospitata" nel tempio della Vittoria. La scelta di edificarle un tempio sul Palatino fu senza dubbio ben studiata, in quanto su questo colle giacevano le memorie più antiche della fondazione di Roma e i culti ancestrali della città. Il tempio di Cibele venne completato solo nel 191 a.C., alla vigilia dello scontro con Antioco III che avrebbe aperto a Roma le porte dei regni ellenistici. Sono note altre due ricostruzioni del tempio, a causa di incendi avvenuti poco dopo il 111 a.C. e durante l'età augustea. Era un tempio corinzio a pianta rettangolare, con pronao più piccolo della cella. Nella cella vi era un colonnato lungo le pareti e un plinto per la statua di culto che, con tutta probabilità, era collocata in un'edicola nella parete di fondo. Il tempio si elevava su un imponente podio in opera cementizia di quasi 9 metri di altezza. Caratteristica del tempio di Cibele era una vasca per scopi rituali, collocata, durante la prima fase dell'edifici, nell'angolo sud est della scalinata. Il primo incendio di cui si ha notizia fu appiccato dall'edile Quinto Memmio, che si impossessò della pietra nera. Il tempio fu restaurato da Metello Numidico e dotato della sopraelevazione, mentre la vasca quadrata fu nascosta per costruirne un'altra in opera cementizia e più grande della precedente, ad ovest del podio. Il secondo incendio si ebbe nel 3 d.C., in circostanze mai chiarite, dopo di che si perdono le tracce del culto della pietra nera. Il culto della Magna Mater Cibele, caratterizzato da eccessi e da automutilazioni, una volta giunto a Roma venne subito incanalato verso il solco della normale prassi del culto latino. Il Senato proibì da subito ai cittadini romani di partecipare alle cerimonie e di far parte del collegio sacerdotale della dea. Ma fu proprio la censura a salvare il culto romano di Cibele, al contrario di quanto accadde per i Baccanali, ed a perpetrarlo senza soluzione di continuità. I resti del tempio, oggi, sono ridotti al podio in poera quadrata con scalinata al centro del lato frontale, sul quale è cresciuto un boschetto di lecci. Scavi recenti hanno individuato, ad est del tempio, le fondazioni e i resti del podio del tempio della Vittoria (294 a.C.). Sono state rinvenute molte terrecotte votive della prima fase del tempio.

sabato 26 marzo 2011

La lupa romana


E' da sempre il simbolo di Roma, la famosa lupa capitolina che allatta due gemelli - Romolo e Remo - aggiunti nel Rinascimento per suffragare la leggenda. Ora lo studioso Paolo Campidori evidenzia la somiglianza tra la lupa "classica", capolavoro dell'arte bronzistica etrusca, ed alcune raffigurazioni dello stesso animale che compaiono su alcune monete prettamente romane, denari della prima metà del II secolo a.C..
Nel primo denario - scrive lo studioso - la lupa è raffigurata in un atteggiamento diverso da quello conosciuto di allattare. E', piuttosto, l'animale per eccellenza, quello che caccia, si apposta, vive nei boschi. Nel secondo, più o meno dello stesso periodo, la lupa è effiggiata nell'atto di nutrire i gemelli sullo sfondo di un paesaggio in cui un contadino è occupato a raccogliere olive.
Queste due raffigurazioni distinte hanno portato lo studioso a credere che la celebre scultura bronzea della lupa capitolina fosse, in antico, posta a sorveglianza di qualche importante edificio pubblico e rappresentasse, in sostanza, la vigilanza e la protezione della Repubblica Romana e dei suoi cittadini. Del resto il nome antico di Roma, Ruma, corrisponde all'etrusco "mammella" e starebbe ad indicare un'ansa del fiume Tevere nonché il nome segreto della città.
La vicinanza di Roma alle terre etrusche, del resto, rendevano l'Urbe la città meno laziale, una città piuttosto cosmopolita, dove le etnie convivevano pacificamente e si mescolavano. Campidori sottolinea anche l'importanza che la raffigurazione delle mammelle aveva in antico. Esse erano la metafora dell'abbondanza, come nella Venere Polimastos, con tante mammelle, e, appunto, la rappresentazione della lupa con le mammelle gonfie di latte, a significare l'abbondanza. Proprio per questo, sostiene Campidori, la raffigurazione della lupa come oggi la vediamo può essere attribuita al mondo romano, supportato da maestranze etrusche. L'opera, dunque, secondo lo studioso, non risale al VI secolo a.C., come finora si è pensato, e non è di matrice etrusca. E', invece, la piena espressione dell'arte romana di epoca repubblicana.

venerdì 25 marzo 2011

Mummie sfasciate


A La Real, in Perù, un gruppo di ricercatori, mentre svolgeva indagini su manufatti e mummie, si è imbattuto in un rito piuttosto particolare. Le persone sepolte nel sito che stavano esplorando, appartenenti alla civiltà precolombiana, avevano l'abitudine di avvolgere i loro morti con sacchi, stoffe, spaghi e copricapo. Una volta avvolti, però, i corpi con questi elementi, i seppellitori usavano strappare il tutto.
La distruzione delle mummie, pertanto, poteva essere un rito che intendeva trasformare un individuo vivente in un appartenente a una morte collettiva. Il sito di La Real è una grotta sigillata che comprende anche una struttura periferica in cui sono state accumulate quelle che sembrano essere offerte votive. La grotta conteneva più di cento mummie e resti animali, tra i quali una zampa di puma, teste di cani e pappagalli e persino resti di un condor.
Nel sito è stato possibile ritrovare anche 1200 esemplari tessili e resti di offerte alimentari. E, inoltre, merci esotiche, come placche in rilievo in oro e argento, tessuti piumati e sette teschi umani con funzione di trofei. Il sito di La Real fu scoperto nel 1991, durante gli scavi per la costruzione di un campo di calcio.
Dei 104 crani di adulti ritrovati, 32 presentavano una ferita nella volta cranica. Le analisi hanno rivelato che gli uomini erano per la maggior parte deceduti per morte violenta, dovuta a un trauma da corpo contundente. In alcuni casi sono state trovate le tracce di reiterate percosse sul defunto.

mercoledì 23 marzo 2011

La reggia di campagna di Liutprando


Nel territorio di Corteolona (il cui nome deriva dal fiume omonimo e da Chorte, che nel linguaggio popolare era utilizzato per indicare la "corte"), in provincia di Pavia, potrebbe esserci un importante tesoro longobardo, magari sepolto nell'area in cui sorgeva il palazzo regio longobardo. E' stato questo l'argomento di una conferenza alla quale ha partecipato la ricercatrice di Archeologia Medioevale presso l'Università Cattolica di Milano Caterina Giostra.
Il paese era già denominato Curtis all'epoca di Alboino (568 d.C.), anche se non venne fondata dai Longobardi i quali, però, le diedero il ruolo di seconda capitale, a quanto afferma lo storico Paolo Diacono.
Secondo alcune fonti dell'VIII secolo, infatti, Liutprando (712-744), re dei Longobardi, volle costruire a Corteolona un palazzo di campagna, dotato anche di terme. Allo scopo si recò a Roma per asportare materiale di spoglio: marmi colonne, mosaici e suppellettili in metallo prezioso. Durante il viaggio, però, il re rinunciò a questa costruzione, si dice in preda a un fervore religioso e preferì far edificare la chiesa e il monastero di Sant'Anastasio. I materiali pregiati che aveva trasportato da Roma sono stati, poi, reimpiegati in paese o recuperati nei campi circostanti. Tra essi anche elmenti architettonici di provenienza egiziana e frammenti di antiche e pregiate sculture ora conservati presso i Musei Civici di Pavia.
Secondo il "Codex dipolomaticus Longobardorum", la curtis di Olona si estendeva dal fiume Olona fino al Po e, a nord, fino al territorio di Inverno. Dell'antica villa, però, non si è trovato nulla nei fabbricati della Cascina Castellana, almeno finora.
Il palazzo restò residenza regia anche durante l'epoca carolingia e ottoniana. Vi furono promulgate leggi e stesi diplomi e la villa venne, di volta in volta, definita palatium regium, curte imperiale, curte regia. Intorno al 900 Berengario I fortificò il complesso munendolo di torri e fossato contro l'avanzata degli Ungart che, nel 924, devastarono Pavia, capitale del Regnum Italicum.
Tra il 967 e il 972 Adelaide, moglie di Ottone I, donò il complesso e quanto gli era pertinente al monastero di S. Salvatore di Pavia. Questo condusse alla decadenza del palazzo. Tuttavia il sito rimase fortificato fino al '300, quando è chiamato castellarium, nome rimasto alla grande Cascina Castellaro, attualmente proprietà privata, in seguito alla soppressione napoleonica del monastero.
Sia la corte della cascina che l'ex chiesa di S. Anastasio potrebbero essere oggetto di scavo archeologico, dopo che si è verificato lo stato di conservazione delle stratificazioni più antiche. Tra i frammenti rinvenuti, un frammento di pluteo, scoperto nel 1888 e riutilizzato nelle murature di una delle abitazioni coloniche. Quattro colonnine con capitelli, ornati a motivi floreali e pulvini decorati a intreccio risalenti all'VIII secolo e provenienti dall'arredo di Corteolona, sono riutilizzati in una bifora dell'ex monastero di Santa Cristina Bissone.

martedì 22 marzo 2011

Le potenti famiglie romane: i Caetani


Le origini della nobile famiglia dei Caetani (o Cajetani) risalgono al XIII secolo, quando i Caetani appaiono già suddivisi tra i rami di Napoli, Roma, Pisa e Anagni. Il ramo di Anagni è, senza dubbio, quello più noto, arrivò a controllare Sermoneta e Fondi, imparentandosi con i Conti ed acquisendo potere anche e soprattutto grazie a Benedetto, papa nel 1294 con il nome di Bonifacio VIII. Fondatore della dinastia fu Anatolio, nipote di Teodorico re dei Goti da parte di padre e del conte di Tuscolo per linea materna, discendente dalla gens romana Anicia, investito del titolo di Conte di Gaeta nel 730 da papa Gregorio II. Nel 917 Giovanni Caetani fu nominato duca di Gaeta da Lotario I, imperatore del Sacro Romano Impero.
La linea pisana fu, invece, fondata da Ugone ed acquisì notorietà grazie a Giovanni (1083-1098), capitano gnerale dei Pisani e Genovesi, distintosi nell'assedio di Toledo e in Terra Santa durante la prima crociata. Altro notevole personaggio fu Gherardo, conte di Terriccio, vicario generale della Repubblica Napoletana, conte di Oriseo per volere di Pasquale II. I conti di Terriccio erano considerati signori di Pisa, una delle sette famiglie longobarde pisane, e si imparentarono strettamente con gli imperatori tedeschi.
Nel XII secolo un membro del ramo pisano divenne papa con il nome di Gelasio II. Malgrado questo, il ramo laziale ebbe solo un'influenza marginale, a Roma. Fino a Bonifacio VIII. Roffredo, padre di Bonifacio VIII, aveva sposato Emilia Patrasso, figlia di una sorella di Alessandro IV e imparentata con altri due papi: Innocenzo III e Gregorio IX. Queste nozze portarono i Caetani direttamente negli ambienti ecclesiastici. Uno dei figli di Roffredo ed Emilia, Roffredo II, fu senatore di Roma e conte di Caserta ed ebbe un ruolo chiave proprio nell'elezione di Bonifacio VIII che era, peraltro, suo fratello. Roffredo comprava e agiva in nome di Bonifacio e agevolò la sua alleanza con la casa regnante angioina. Non contento, Roffredo acquisì diversi terreni nella Campagna Romana. Al centro di questi terreni vi era Anagni, che i Caetani trasformarono ben presto in un loro caposaldo.
Pietro, figlio di Roffredo II, sposò Giovanna dei conti di Ceccano dalla quale, nel 1270, ebbe Roffredo III che si distinse come rettore del Patrimonio di San Pietro in Tuscia e sposò Margherita Aldobrandeschi. L'accordo prematrimoniale prevedeva il passaggio del contado degli Aldobrandeschi ai Caetani. Dietro quest'importante operazione pare ci fosse lo stesso Bonifacio VIII, che celebrò le nozze di Roffredo e Margherita ad Anagni nel 1296. Il matrimonio fu invalidato, però, perchè il primo marito di Margherita, Nello de' Pannocchieschi, era ancora in vita. Roffredo, però, si consolò presto con Giovanna dell'Aquila, figlia ed erede del conte di Fondi. Rimasto vedovo, poi, sposò Caterina, figlia di Diego della Ratta, conte di Caserta.
Ma già durante la vita di Roffredo III, il potere dei Caetani cominciò ad essere messo in discussione: gli scontri con i Colonna divennero sempre più frequenti. I Caetani finirono per ritirarsi a Roma, dove resistettero ai rivali per ben 24 anni. Del resto detenevano in potere circa duecento rocche nell'area tra i Colli Albani e il Garigliano, tra i quali: Anagni, Astura, Ceccano, Filettino, Marino, Morolo, Ninfa, Norma, Pofi, Ripi, San Felice al Circeo, Sermoneta.
Niccolò, figlio di Roffredo III fu l'unico barone a non sottomettersi a Cola di Rienzo, quando questi tentò di instaurare un suo regime personale a Roma. A Niccolò successe, nel 1348, Onorato I, che ospitò i cardinali dissidenti che elessero l'antipapa Roberto di Ginevra (Clemente VII), che lui stesso incoronò, mentre Urbano VI lo scomunicava e Caterina da Siena tentava di convincerlo all'obbedienza alla chiesa di Roma. Nel 1321 papa Urbano VI incoronò re di Napoli Carlo III di Durazzo, che catturò il genero di Onorato e lo fece uccidere. Onorato, rimasto privo di eredi diretti, intraprese una disperata lotta contro il papa e le famiglie che lo sostenevano: i Durazzeschi e i sempiterni nemici dei Caetani, i Colonna.
Rimasto solo dopo la morte del figlio, del genero, della sorella e della moglie, Onorato vede persino i suoi familiari passare dalla parte avversa. Il cardinale Fieschi, vicario di tutti i beni un tempo possesso dei Caetani, mosse contro di lui con Andrea Tomacelli, fratello di papa Bonifacio IX. Onorato dovette arrendersi e finì per morire per un colpo apoplettico.
Con Giacomo II Caetani, nel 1420, i domini della potente famiglia furono divisi tra il ramo dei Caetani di Aragona e il ramo dei Caetani di Sermoneta. Questi ultimi furono parte attiva negli scontri per il controllo dell'Italia centrale (nel 1499 Alessandro VI tentò addirittura di annientarli, ne vendette comunque i feudi e fece acquistare Sermoneta a Lucrezia Borgia).

lunedì 21 marzo 2011

Le pietre di Inveresk


Gli archeologi hanno esaminato due pietre d'altare riportate alla luce in Scozia nel marzo 2010, durante la costruzione del nuovo padiglione del Lewisvale Park, a Inveresk, nel II secolo d.C. sede di un forte romano.
La prima piera ha pannelli laterali raffiguranti una lira e un grifone, un'immagine di una brocca e una scodella, oggetti che richiamano scene d'offerta. La parte anteriore presenta un'iscrizione che dedica l'altare al dio Mitra. Non è mai stata trovata una lastra simile in una zona così a nord.
La parte anteriore della seconda pietra mostra teste femminili rappresentanti le quattro stagioni, tutte con copricapi fatti di diversi elementi. Al centro della pietra è scolpito il volto del Sol Invictus, con la corona solare, occhi, bocca e raggi del quale sono forati per permettere alla luce di una lanterla di penetrare, proprio come una zucca di Halloween. C'è anche un'iscrizione, solo parzialmente leggibile, che gli esperti ritengono essere il nome di colui che ha dedicato la pietra.

Tutti i tesori di Morgantina


La Venere di Morgantina è uno dei migliori esempi della statuaria greca classica, soprattutto per la qualità della fattura e lo stato di conservazione. La statua, di notevole altezza (2,40 metri), è stata eseguita con due materiali differenti: il marmo di Paro per la testa, le braccia e i piedi, e il calcare della zona di Ragusa per il resto del corpo. L'abito indossato dalla dea è un sottile chitone (veste di lana, lino o altro tessuto, indifferentemente indossato da uomini e donne. Era un ampio rettangolo di stoffa, lungo fino ai piedi o corto alle ginocchia, che avvolgeva il corpo, al quale era stretto con una cintura) ed un ampio himation (ampio mantello in lana o lino da avvolgersi attorno al corpo con fitte plissettature. Si indossava sopra il chitone o il peplo), che copriva, originariamente, anche le spalle e parte della testa. In origine la statua doveva essere dotata di una vivace policromia.
La datazione della Venere è stata proposta al 410 a.C. ed è stata identificata con la dea dell'amore ma anche con Demetra, Persefone ed Hera. Il corpo sensuale, l'abito e la posa fanno pensare a Venere, purtroppo non si è in possesso di attributi che consentano l'identificazione definitiva. Il problema dell'identificazione della grande statua fu posto dall'archeologo e storico dell'arte Antonio Giuliano, che riconobbe la statua all'epoca esposta al Getty Museum come Demetra, la divinità in assoluto più venerata nella Sicilia dell'epoca, soprattutto nel territorio di Enna. Il dibattito in merito, però, è ancora aperto. Se di Demetra si tratta, essa è rappresentata nel momento in cui si mette alla ricerca di Persefone, rapita da Ade.
Ma oltre all'Afrodite, sono rientrati a Morgantina anche diversi altri antichi tesori razziati da predatori e trafficanti senza scrupolo. Tra questi gli acroliti detti di Morgantina, pertinenti una coppia di statue realizzate introno al 530-520 a.C., in marmo pario, con tre mani ed altrettanti piedi, che gli studiosi hanno riconosciuto come le più antiche testimonianze di questa tecnica nel mondo greco.
Gli acroliti erano parte di rappresentazioni, a grandezza naturale, delle principali divinità di Morgantina, Demetra e Persefone, trafugati alla fine degli anni '70 dalla più monumentale tra le aree di culto dell'antica città, il santuario extra-urbano in località San Francesco Bisconti. E', quest'ultima, una delle aree più suggestive dell'intera Sicilia, tra la collina della Cittadella, sede di Morgantina arcaica, e l'altopiano di Serra Orlando, che ospita le strutture e le architetture della polis ellenistica.
L'area sacra del santuario è venuta alla luce tra il 1977 e il 1978, dopo un intervento devastante degli scavatori di frodo. Gli archeologi hanno potuto studiare la complessa planimetria del luogo, un sistema di ambienti di diverse dimensioni, allineati tra loro e dislocati su terrazzamenti artificiali a diverse quote di altezza. L'area è attribuita ad un ampio arco cronologico che va dal VI al III secolo a.C.. Le indagini più recenti hanno permesso di scoprire un ampio terrazzamento dove, forse, si svolgevano i riti all'aperto, comprendenti essenzialmente offerte e sacrifici.
Un altro dei tesori di Morgantina, da poco restituiti alla città, è il più importante insieme di oggetti di oreficeria pervenuti dalla Sicilia ellenistica, detto il tesoro di Eupolemo. Polibio, Livio e Cicerone parlano diffusamente delle importanti opere di argenteria della Siracusa di Ierone II (275-215 a.C.), tutte purtroppo perdute. Il tesoro di Eupolemo cominciò ad essere noto nel 1981, quando si fece cenno a due corni d'argento esposti, con un altro gruppo di oggetti, al Metropolitan Museum of Art di New York, che li aveva acquistati in diversi anni.
Verso la fine degli anni '90 gli archeologi americani condussero uno scavo là dove si presumeva che il tesoro fosse stato trovato, riportando alla luce una casa greca del IV secolo a.C., quasi del tutto scavato clandestinamente. Il tesoro di Eupolemo era, forse, stato riposto in un posto sicuro in un momento di grande crisi. Le incisioni riportate su alcuni oggetti, in particolare su un'arula e su una pisside con figura femminile, fanno riferimento a un personaggio che potrebbe essere stato, forse, l'ultimo proprietario, Eupolemo, appunto, di cui si conosce ed è documentata l'esistenza a Morgantina nel III secolo a.C. e che aveva una casa nelle vicinanze del luogo dove fu trovato il tesoro.
Gli oggetti del tesoro di Eupolemo sono, in tutto, sedici e sono fatti in argento dorato. Nove di essi sembrano essere destinati al simposio: due grandi coppe (mastoi), con i piedi a forma di maschere teatrali, dove si mescolava il vino con l'acqua e con aromi vari; la brocchetta (olpe) e l'attingitoio (kyathos) per servirlo nonchè le quattro coppe, di cui tre con il medaglione fondo. Quattro degli oggetti hanno sicuramente una funzione sacra, poichè recano dediche votive: il piatto ombelicato (phiale mesomphalos) che, con tutta probabilità, serviva per versare liquidi durante i sacrifici; il piccolo altare (bomiskos), decorato con ghirlande e bucrani che si utilizzavano per bruciare i profumi; le pissidi di cui una con coperchio decorato con un Amorino (Erote) e l'altra con una figura femminile che regge una cornucopia che venivano utilizzati per contenere essenze e unguenti.

sabato 19 marzo 2011

Venere torna a Morgantina


La Venere di Morgantina torna nella sua terra d'origine dopo un esilio di 30 anni. A scolpirla fu, forse, un discepolo di Fidia. Ha passato tutti questi anni nel Paul Getty Museum di Malibù. La direzione del museo ha deciso di restituire la preziosa statua, realizzata tra il 425 e il 400 a.C., scolpita su ogni lato, a significare la sua posizione cenrale nell'agorà dell'antica Morgantina. I tombaroli che la ritrovarono, divisero il reperto in tre pezzi e la immisero sul mercato clandestino delle antichità che dalla Francia portava in Svizzera, dove venne acquistata da Renzo Canavesi e rivenduta a Robin Symes, mediatore inglese di antiche opere d'arte.
Il 5 marzo 2001 il Tribunale di Enna ha condannato a due anni di reclusione senza benefici di legge e al pagamento di 40 miliardi di lire il ricettatore della Venere, Renzo Canavesi.
La statua è alta 2,20 metri e fu scolpita quando Morgantina era stata assegnata a Kamarina dopo gli accordi di Gela del 424 a.C.. Il materiale in cui fu scolpita è il marmo per il viso e le parti del corpo nude. Il drappeggio è in tufo calcareo siciliano. Per molti archeologi essa rappresenta la dea Persefone o sua madre Demetra, a causa di una certa somiglianza con una piccola statua di terracotta esposta nel Museo di Aidone. La dea Persefone, tra l'altro, era molto venerata a Morgantina, al punto di essere rappresentata anche sulle monete coniate dalla zecca locale.

venerdì 18 marzo 2011

Gioielli d'Italia - Castelseprio


Castelseprio, provincia di Varese, era conosciuto, un tempo come Castrum Sibrium. Questa denominazione la si ritrova sulle monete d'oro fatte coniare da Desiderio (756-774 d.C.). Il castrum vero e proprio è posto su un'altura a 350 metri di altezza e si estende per otto ettari, difesa naturalmente da profonde valli che ne impediscono l'accesso su più fronti. Da questa posizione privilegiata, Castrum Sibrium poteva facilmente controllare la valle dell'Olona e la rete viaria che collegava i centri maggiori urbani della regione nonchè i valichi alpini.
Il castrum di Castelseprio sorse nel V-VI secolo d.C. ma era già frequentato in età preistorica e protostorica. Di queste frequentazioni rimangono tracce nei materiali ritrovati in tutta l'area e, soprattutto, nella necropoli a incinerazione scavata presso la chiesa di S. Maria fors portas. In epoca romana c'era, forse, un abitato poco distante, in pianura, lungo la valle dell'Olona. Il castrum, comunque, si trova al centro della rete viaria romana. Epigrafi, are votive e pietre di spoglio da edifici romane, documentano la pratica del reimpiego nelle strutture del castrum.
Il presidio militare risale alle prime invasioni germaniche, risalibili al IV secolo d.C.. In questo periodo furono costruite tre torri che sono nel pianoro. Una di queste torri divenne, più tardi, la torre campanaria della basilica di S. Giovanni. Le mura di Castelseprio vennero erette nel V-VI secolo. In età gota l'abitato era piuttosto popolato, sono, infatti, stati ritrovati recipienti in ceramica e vetro. I Longobardi elessero Castelseprio a giudicaria, distretto territoriale fiscale.
Si accenna a Castelseprio nella Cosmografia Ravennate, un'opera di anonimo autore scritta nel VII secolo, in cui viene qualificata come città-castello. Testimonianze della nobiltà locale, invece, provengono dall'epigrafe del nobile Wideramn (VII secolo), dalla tomba di un cavaliere, scavata nella facciata della basilica di S. Giovanni, e nelle sepolture coperte da pietre con croci astili, ritrovate a S. Giovanni e S. Maria foris portas. In un pozzo vicino la basilica di S. Giovanni è stata, inoltre, ritrovata una moneta d'oro di Giustiniano e sono stati trovati gli abiti in broccato d'oro indossati dal defunto sepolto presso la chiesa nobiliare di S. Maria foris portas. Anche gli arredi religiosi parlano di ricchezza ed opulenza: calici in vetro ma, soprattutto, i recinti presbiteriali, i plutei di S. Giovanni e gli affreschi di S. Maria.
La gente del borgo era prevalentemente occupata nella filatura e tessitura. Era anche praticata una modesta agricoltura, l'allevamento del bestiame, la caccia e la metallurgia. L'analisi degli scheletri sepolti nella basilica di S. Giovanni testimoniano la durezza della vita della popolazione, dedita ai lavori più duri e pesanti. Sono attestate degenerazioni ossee, periostiti, traumi provocati da oggetti contundenti. Ci si nutriva prevalentemente di carne di capra, di pecora e di maiale. I resti botanici attestano un buon consumo di pane, polenta di farina di castagne, zuppe d'orzo, segale e miglio.
La giudicaria è attestata a partire dal 721 nel Codice Diplomatico Longobardo ma il primo atto che stabilisce definitivamente i confini del distretto risale al 1185, quando l'imperatore Federico II concede ai Milanesi tutte le regalie che possedeva nel Seprio. L'età d'oro di Castelseprio corrisponde, pertanto, al regno longobardo.
Nel IX secolo, durante l'impero di Lotario e Ludovico, Leo, conte di Seprio godette di un discreto potere, diventando, tra l'altro, notaio nel monastero di Farfa. L'autonomia del comune di Castelseprio cominciò a venir meno con il coinvolgimento nelle lotte tra Comuni lombardi e imperatori, quando divenne feudo della nobile famiglia dei Della Torre, antagonisti acerrimi dei Visconti per il dominio di Milano. Nel 1287 l'esercito di Ottone Visconti sconfisse il nemico e prese il castello, che ordinò di demolire impedendo alla popolazione di ricostruire le case e di vivere all'interno delle rovine.
Perduta la vocazione e il ruolo di città, Castelseprio conservò funzioni di pieve, rappresentate nell'antico complesso monumentale della basilica di S. Giovanni, con il battistero e il cimitero. A questi edifici, nel XIV-XV secolo, vennero ad aggiungersi la casa dei canonici (12 individui nel 1398, 17 ecclesiastici nel 1564) e una struttura che venne adibita ad attività artigianli esclusivamente al servizio del clero.
Con il tempo il luogo andò sempre più decadendo fino al completo abbandono, dal momento che i luoghi erano infestati dai briganti. La pieve venne trasferita, pertanto, da Castelseprio a Carnago, pur rimanendo attivo il piccolo convento francescano di S. Giovanni, che fu poi trasformato in cascina rurale e che ora è un Antiquarium dell'area archeologica. Ad essi si aggiunse la chiesa di S. Maria foris portas, frequentata dai fedeli fino al 1933, quando i celebri affreschi altomedioevali erano ancora coperti di calce.
Il battistero ottagonale della basilica di S. Giovanni si pensa sia stato costruito in età tardo-antica. Ha una vasca battesimale a immersione ed era, un tempo, riccamente ornato: le pareti erano affrescate, la vasca battesimale era coperta da lastre marmoree. Gli studiosi hanno tracciato un continuum edilizio che parte dalla metà del V secolo per arrivare al VII secolo, con un impianto a tre navate, di cui resta l'alzato dell'abside. Gli apparati liturgici della basilica di S. Giovanni sono poco conservati ma si può intuire che l'illuminazione era garantita da lampade in vetro a olio, montate su lampadari a più bracci, come in uso nella tradizione bizantina. I sottarchi delle finestre erano stati affrescati con girali vegetali, documentati da foto degli anni Quaranta del secolo scorso. Nel basso Medioevo vennero ricavate delle tombe ad arcosolio nei muri perimetrali. Una di queste sepolture conteneva le spoglie di un cavaliere di cui restano gli speroni (XIV secolo).
Il conventino di S. Giovanni, invece, è attestato dal 1569, anche se l'impianto dell'edificio è tardo-trecentesco, completamente ruralizzato. L'area conventuale ha due piani lungo il lato orientale. La parte residenziale era chiusa da una chiesa, in origine un'aula quadrata, con elegante abside quadrata, con zoccolo esterno. Nel XVI secolo la chiesa fu ampliata con un vano coperto a spioventi. L'abside venne affrescata con una raffigurazione della Pietà commissionata a un pittore di scuola vercellese, France de Gattinara.
In seguito alle conquiste napoleoniche, agli inizi dell'Ottocento, la casa ed i terreni andarono in proprietà ai nobili Archinto, che furono anche i primi a scavare il castrum. Costoro ridussero l'abside in piccolo oratorio, il che contribuì in parte alla conservazione del suo apparato decorativo: intonaci parietali, affreschi del sottarco absidale, della volta e della parete di fondo.
Nel 1990 furono fatti interventi di manutenzione e restauro e ai primi del Duemila è stato progettata la rifunzionalizzazione del complesso come Antiquarium e come tale fu aperto nel 2009.
Visite a Castelseprio
- Parco Archeologico: Via Castelvecchio n. 58
info: Tel. 0331.820438
mail: parcoarcheologico.castelseprio@beniculturali.it
- Orari del Parco
1.2-30.11: martedì-venerdì 8.30-19.30;
sabato 8.30-19.00;
domenica e festivi 9.45-18.00
1.12-31.1: martedì-venerdì 8.30-18.00;
domenica e festivi 9.15-14.45
- Orari Antiquarium
1.2-30.11: martedì-venerdì 8.30-13.15 (solo gruppi, scuole con prenotazione)
sabato 14.45-17.15;
domenica e festivi 14.45-17.15
chiuso dal 1.12 al 31.1

Un'Annunciazione ritrovata


E' stato scoperto un inedito dipinto del pittore Seicentesco Giovanni Martinelli (1600-1659). Si tratta di un'"Annunciazione" con l'Arcangelo Gabriele sospeso da terra che saluta la Vergine. A scoprire lo sconosciuto dipinto è stato il tenore Luca Canonici. L'opera è stata ritrovata a Terranuova Bracciolini, in provincia di Arezzo, non lontano da Montevarchi, paese nativo di Giovanni Martinelli, unoi dei protagonisti del Seicento fiorentino.
Martinelli dipinse l'opera nel 1633, stando ad alcune ricerche, per la compagnia religiosa Traiana di Terranuova Bracciolini. Nello stesso periodo realizzò la "Samaritana al pozzo" per l'Arcipretura di Santa Maria Bambina di Terranuova Bracciolini. La notizia della scoperta di questa nuova oper di Martinelli, arriva proprio nel momento in cui a Montevarchi è in fase di realizzazione una mostra a lui dedicata, organizzata dalla Galleria degli Uffizi di Firenze dal 19 marzo al 19 giugno 2011.
L'"Annunciazione" verrà esposta per la prima volta dopo il restauro nella mostra "I Concini, tra mecenatismo e avventura" che si aprirà a Terranuova Bracciolini dal 2 aprile al 19 giugno 2011. La mostra è incentrata sulla potente famiglia dei Concini, originaria di questi luoghi, cui appartenne Concino Concini, maresciallo d'Ancre alla corte di Francia, ucciso a Parigi dai nobili francesi che gli avevano scippato sia il potere politico che quello economico.
Il particolare più rilevante dell'opera di Giovanni Martinelli appena scoperta è lo straordinario Arcangelo Gabriele che, praticamente, domina la scena, nella mano destra reca un ramo di gigli mentre con la sinistra saluta la Vergine che lo guarda. In alto, tra le nuvole e gli angeli, Dio padre. La tela è rovinata da un'estesa bruciatura che ha interessato anche il volto della Vergine, per il quale Martinelli utilizzò la stessa modella che aveva posato per la "Samaritana al pozzo".

giovedì 17 marzo 2011

Un fortunoso rinvenimento


Durante uno scavo per la costruzione della connessione tra la strada statale 36 "del lago di Como e dello Spluga" ed il sistema autostradale di Milano, sono stati ritrovati alcuni reperti archeologici. Si tratta di strati di due tipi di pavimentazioni sovrapposte: una in conglomerato e materiale lapideo, spessa circa 20 centimetri e l'altra in solo materiale lapideo di forma ovale, anch'essa spessa 20 centimetri.

Il fecondo mare laziale


Il mare antistante il Lazio non cessa di riservare sorprese. La direttrice del nucleo di archeologia subacquea della Soprintendenza del Lazio, Annalisa Zarattini, ha scoperto ben sei relitti di navi romane tra il maggio ed il luglio 2010.
Il fondale antistante l'isola di Ventotene aveva già restituito 5 relitti di navi romane, nel 2008. I relitti ritrovati lo scorso anno nei fondali pontini sono lunghi tra i 18 e i 20 metri e sono carichi di anfore. L'epoca di appartenenza è piuttosto varia: dal I secolo a.C. al IV secolo d.C., due di essi provengono dalla Spagna e quattro dall'Africa, lo si è dedotto studiando le anfore recuperate. Queste ultime servivano per il trasporto di olio, vino e conserve di frutta. Nell'antichità Ventotene era un punto noto per i naviganti, vi era un porto e si poteva caricare l'acqua potabile.
Nelle acque antistanti Civitavecchia, invece, a circa 600 metri di profondità, nel maggio 2010 è stato individuato e riconosciuto un relitto romano di epoca augustea, databile, quindi, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., contenente numerosi dolia, vasi di forma sferica caricati al centro della nave, utilizzati per il trasporto del vino. Si trattava di una sorta di chiatta con chiglia poco profonda. Dai bolli impressi sui dolia è stato possibile ricostruire un traffico di vino dalla Campania verso la Gallia e la Spagna, lungo rotte che non si allontanavano molto dalla costa.

Etruschi, signori della Toscana allora come oggi


La regione Toscana si sta impegnando a diffondere un nuovo modo di fare turismo e cultura, quello incentrato sull'archeologia e, soprattutto, sugli Etruschi. Per portare al maggior numero di utenti quest'iniziativa, la regione si è servita anche di un portale dedicato al turismo e di numerose iniziative speciali dedicate alla prima grande civiltà dell'antica Italia, la civiltà etrusca.
Ad impreziosire il lavoro fatto finora dalla regione si aggiungerà, in primavera, una vera gemma, il Parco Archeologico di Carmignano, in provincia di Prato, 40 chilometri quadrati di territorio che comprende, al suo interno, il nuovo Museo Archeologico di Artimino e siti etruschi di notevole importanza quali il Tumulo di Montefortini (VII secolo a.C.), uno dei monumenti etruschi più importanti e spettacolari della Toscana.
L'inaugurazione del parco è prevista per il 26 marzo 2011 in un contesto paesaggistico tra i più suggestivi e spettacolari della regione, non lontano da Firenze, in cui gli Etruschi conviveranno felicemente con alcuni tra i più importanti capolavori rinascimentali, come la Visitazione del Pontormo e la Villa Medicea di Artimino. Il nuovo Museo di Carmignano, ricavato da un antico edificio posto sulle mura medioevali del borgo, di fronte alla Villa Medicea La Ferdinanda, si estende su 600 metri quadrati distribuiti su due livelli e mostra quanto ritrovato nel territorio di Carmignano, a partire dagli anni '60.
Oltre al Museo, il Parco Archeologico di Carmignano presenta ben quattro siti di notevole interesse: la necropoli di Artimino a Prato Rosello, il tumulo di Montefortini, la tomba dei Boschetti a Comeana e l'insediamento fortificato di Pietramarina.

mercoledì 16 marzo 2011

Duemila anni d'amore a Pompei


Nel 79 d.C. avvenne la famosa eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei ed Ercolano. A quasi due millenni di distanza da questo terribile episodio, gli archeologi continuano a mettere insieme i frammenti di una storia d'amore che un liberto stava facendo incidere sul sepolcro che doveva accogliere le sue spoglie e quelle della moglie.
L'incisione è stata effettuata su marmo e la dichiarazione, ad oggi, suona così: "Lucius Catilius Pamphilus, liberto di Lucius, membro della tribù Collinian, per sua moglie Servilia, con amore". I frammenti recuperati e ricomposti sono sette. I primi quattro contengono il nome dello schiavo, gli altri due, invece, riportano la parola latina che significa moglie ed erano custoditi da tempo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Mancava solo il nome della moglie, che è stato scoperto su un altro pezzetto di marmo, ricollegato, dopo duemila anni, agli altri sei.

domenica 13 marzo 2011

Il Caravaggio e i lombardi


Ha aperto una mostra dedicata al Caravaggio nel Museo Diocesano di Milano. Sono esposte 60 opere che ripercorrono il filo della vita del grande artista in terra lombarda e che vogliono accennare anche a qualche ombra nella sua grandezza: quella, per esempio, dei debiti contratti con i suoi conterranei.
Le opere attribuite al Caravaggio in esposizione sono tre. "La testa di Medusa", dipinta su uno scudo, fu realizzata nel 1597, un'opera giovanile, dunque, dipinta all'indomani dell'arrivo dell'artista a Roma e prova generale della versione che oggi si trova agli Uffizi. E' il primo degli unici due dipinti firmati da Caravaggio, entrambi con il sangue di una testa mozzata, entrambi autoritratti. Uno è "La testa di Medusa", l'altro, oggi custodito a Malta, è la "Decapitazione di Giovanni Battista".
Altra opera esposta è la "Fuga in Egitto", con un angelo violinista sprovvisto di aureola e con i piedi ben piantati per terra. Infine c'è la "Flagellazione di Cristo", proveniente dal Museo di Capodimonte di Napoli, una delle ultime opere dell'artista.
"Gli occhi del Caravaggio"
Museo Diocesano - Corso di Porta Ticinese, 95
Tel. 02.89420019
Orari: 10.00-18.00 (chiuso il lunedì) fino al 3 luglio

Numa Pompilio e i Salii


Tito Livio narra che a succedere al primo re di Roma, Romolo, fu Numa Pompilio, uomo giusto e timorato degli dèi. Il suo regno fu pacifico e prosperoso. Numa istituì diversi riti religiosi, tra i quali, forse il più importante, fu quello dei salii, sacerdoti saltellanti del dio Marte (la parola saliens vuol dire danzante), e la carica di flamens, sacerdoti che si occupavano del culto di una sola divinità.
Dagli inizi e durante tutto l'impero, Roma ebbe due collegi di salii. Il culto dei salii palatini era concentrato su Marte e su un antico scudo miracoloso chiamato ancile. Questo scudo si diceva che fosse stato consegnato da Marte Gradivo a Numa Pompilio e che fosse pegno dell'invincibilità di Roma. Esso, per prudenza, era nascosto tra altri undici scudi (ancilia) identici. Questi scudi erano stati fabbricati da Mamurio Veturio, fabbro al quale si era rivolto Numa, appartenente alla gens Veturia, e riposti nella Reggia, dove erano custoditi dal Flamine Diale.
I salii collini erano, invece, devoti al dio Quirino, nome sabino di Marte, derivante dal termine sabino per indicare la lancia. Dunque esistevano due collegi di salii separati, prima che le comunità sabina e romana si fondessero, intorno al 600 a.C.. I Sabini occupavano il Quirinale, i Romani il Palatino.
Molte delle caratteristiche dei due collegi dedicati a divinità guerresche, hanno portatogli studiosi a supporre che la loro nascita fosse collegata alle scorribande di guerrieri consacrate a Marte. Ciascuno dei due collegi erano composti da 12 membri a vita, provenienti da famiglie patrizie, i cui genitori dovevano essera ancora viventi. Questo ha fatto pensare che, in origine, la divisione sociale tra patrizi e plebei si basava quasi esclusivamente su ragioni militari: solo i patrizi, infatti, erano abbastanza ricchi da potersi permettere l'acquisto delle armi per partecipare alle guerre.
A capo di ogni collegio era posto un magister, termine di origine militare che, nelle iscrizioni in lingua etrusca, si riferisce ad una magistratura oppure a un comando militare. Al magister si affiancava un Presul, incaricato di dirigere le danze mostrando agli altri salii le movenze ed i passi da fare. Il Vates dirigeva, invece, il coro. La benevolenza della divinità, specie per quel che riguarda istituzioni sociali e politiche di origine recente, era una pratica ricercata e comune. Nella cultura superstiziosa dell'antica Roma, la soppressione di un clto, poi, sarebbe stato considerato un atto sacrilego, fonte di guai per l'intera comunità a causa dell'irritazione della divinità oltraggiata. Per questo alcune caratteristiche dell'istituzione dei salii possono riverberare, in un certo modo, usanze militari romane precedenti la costituzione del sistema tribale. Forse alla guerra erano soliti partecipare solo giovani patrizi che non fossero capi famiglia. Essi si costituivano in una sorta di bande di guerrieri di dodici uomini (i dodici membri dei collegi), che si dedicavano a Marte in cambio del suo sostegno nelle battaglie.
Collegi simili ai salii esistevano anche in altre città latine, quali Ariccia, Alba, Lavinium, Tusculum, Tivoli e Anagni. Sembra, quindi, che queste tradizioni belliche fossero diffuse in tutto il Lazio.
Livio, Dionigi di Alicarnasso e Plutarco affermano che i salii indossavano una tunica multicolore decorata in porpora e con un bronzo a copertura del petto (Livio). Forse si tratta di un pettorale quadrato, come quelli ritrovati nelle tombe dell'Esquilino. Sulla tunica si indossava la trabea, una sorta di toga a strisce scarlatte, bordata in porpora e fissata con una spilla. Plutarco aggiunge che i salii indossavano cinture ed elmi bronzei e brandivano pugnali corti. Dionigi, invece, dice che il loro armamento era composto di corte lance o aste.
L'elemento che più caratterizzava i salii era, però, l'ancile, uno scudo ovale in bronzo con motivi decorativi sulla parte esterna. I lati di questi scudi erano provvisti di incavi e la sua forma ricorda vagamente un otto. Molti hanno pensato, proprio a causa di questa forma, che lo scudo potesse rifarsi a modelli micenei, ma si tratta, in realtà, di un modello comune in diverse parti del Mediterraneo. Purtroppo non sono stati ritrovati ancilia o scudi aventi una forma simile, abbiamo solo piccoli scudi votivi in bronzo che hanno questa forma e che risalgono al 700 a.C. oppure ad epoche successive. Questi ex voto sono stati ritrovati soprattutto nel Piceno e nelle regioni confinanti, il che suggerisce che l'uso dell'ancile si sia diffuso attraverso gli Appennini giungendo nel Lazio nel VII secolo a.C..
Altra caratteristica propria dei salii era l'elmo a punta chiamato apex, un esempio del quale è stato ritrovato in un contesto tardo repubblicano: è in argento e, quindi, non può essere riferito ad un modello arcaico, probabilmente replica semplicemente uno dei primi elmi di questo tipo. Forse solo le stecche laterali, il frontale e le borchie, anticamente, erano in metallo, il berretto era probabilmente in cuoio. La punta di ulivo alla sommità dell'elmo potrebbe essere stata utilizzata, un tempo, come sostegno per un pennacchio.
Il periodo bellico era solitamente aperto in marzo, mese dedicato, appunto, a Marte. Il primo del mese i salii Palatini sfilavano in processione con i dodici ancilia, rappresentanti l'autorità giuridica, e le dodici hastae Martiae, che rappresentavano l'autorità militare. Nell'incedere intonavano, senza l'ausilio di strumenti musicali, ma battendo il ritmo percuotendo gli scudi con un bastoncino, canti particolari in latino arcaico. In questi canti, detti Carmina Saliana, si invocava su Roma la protezione degli dèi. I canti erano anche detti assamenta od axamenta, forse perchè cantati solo con la voce (assa voce). Alla sera, terminata la festa, lance e scudi erano nuovamente riposti nella Regia e nel tempio di Giove i salii consumavano un abbondante e raffinato pasto, divenuto proverbiale. Il 14 marzo, poi, presidedevano alle gare di cavalli chiamate Equirria, che servivano per purificare i cavalli destinati alla guerra. In onore del fabbro che confezionò gli undici scudi falsi, queste feste erano anche dette Mamuralia e corrispondevano, nell'antico calendario romano, al capodanno. Mamurio Veturio era rappresentato come un vecchio vestito di pelli che incarnava l'anno trascorso e veniva cacciato, a colpi di bastone, dalla folla che, poi, accoglieva l'anno nuovo. Il 23 marzo i salii presiedevano al Tubilustrium, festa di purificazione delle trombe, che chiudeva l'apertura della stagione di guerra. I salii erano incaricati anche di chiudere quest'ultima nel mese di ottobre, con le festività di purificazione del Tigillum Sororium, dell'Armilustrium e dell'October Equum, che purificavano uomini e cavalli.

sabato 12 marzo 2011

I tesori di una terra martoriata


Dieci anni fa i Talebani distruggevano i Buddha di Maniyan. Un disastro incommensurabile, che fu immortalato addirittura in un video e trasmesso in tutto il mondo. Sempre nello stesso periodo, questi criminali avevano fatto a pezzi migliaia di opere conservate nel Museo Nazionale di Kabul.
Ora, fino al 3 luglio 2011, sarà possibile ammirare, al British Museum di Londra, la mostra "Afghanistan, crocevia del mondo antico", in cui sono esposti oltre 200 manufatti in prestito dal Museo di Kabul. Gli allestitori della mostra hanno puntato sul colore, la luce, le fotografie e i video per dare maggiore enfai ai reperti, appartenenti ad un periodo che va dal III secolo a.C. al I secolo d.C.. Si parte da una scultura del II secolo a.C. ritrovata negli anni '70 del secolo scorso, restaurata ed esposta al Museo di Kabul, poi distrutta dai Talebani nel 2001.
I pezzi scampati alla furia ignorante dei Talebani sono stati salvati grazie alla lungimiranza del personale del museo che, nel 1988-1989, aveva trasferito migliaia di reperti in un sotterraneo del palazzo presidenziale. Di questi oggetti nulla si sapeva, finchè non sono stati riaperti, nel 2003, i sotterranei.
La mostra è completata dalla narrazione della storia del paese e dalle immagini del paesaggio montuoso che costituiscono lo sfondo di sculture, avori, bronzi e ori, riportati alla luce tra il 1937 e il 1978. Spiccano gli avori intagliati che provengono dai depositi segreti del Palazzo di Begram; il Tesoro Battriano, costituito da una raccolta di oggetti d'oro ritrovati in sei sepolture a Tillia Tepe. L'esposizione si chiude con una sezione riguardante la ricostruzione del Museo di Kabul e il restauro di edifici tradizionali afghani.

Il ritratto di Roma


Ha preso il via la seconda tappa del progetto quinquennale denominato "I Giorni di Roma", che vuole offrire, in cinque grandi esposizioni, una all'anno, ai Musei Capitolini, un'immagine tridimensionale della civiltà romana a contatto con i popoli contemporanei conquistati o che l'hanno conquistata con l'arte.
Quest'anno è la volta della ritrattistica. La mostra è intitolata "Il volto dei potenti" ed è stata aperta il 10 marzo. Essa si propone di ricercare le matrici culturali comuni tra la ritrattistica romana, quella greca ed anche quella egiziana. Esempio di quest'ultimo, interessante, spunto di riflessione è la testa verde di sacerdote isiaco che il Museo di Berlino ha prestato per l'occasione. Il pezzo è stato datato ad un periodo compreso tra il V e il III secolo a.C., prima che il ritratto romano si sviluppasse e si fissasse definitivamente sulla falsariga del ritratto greco.
Per quel che riguarda l'arte greca, invece, si può ammirare in esposizione una splendida testa in bronzo di fine IV secolo a.C., in prestito dal Getty Museum di Malibu. Il punto nodale dell'esposizione restano le due grandi tipologie del ritratto romano: la realistica e la tipologica. Queste due tipologie, contrariamente a quanto accade per il ritratto greco, si fondono e confondono continuamente.
Diffuso, in area romana, il ritratto dell'imperatore o del nobile come divinità o eroe. Esempio ne sono le donne raffigurate realisticamente ma con parrucche enormi e corpi ideali da Veneri nude. Ci sono anche statue intere, come il Germanico di Amelia, in bronzo, scoperto nel 1963 e mai esposto a Roma integralmente, attraverso il quale il visitatore può avere un'idea precisa di come venisse raffigurato il corpo intero e che tipo di messaggio i Romani volevano far pervenire attraverso queste raffigurazioni.
In esposizione saranno anche notevoli pezzi in terracotta, marmo, bronzo prestati dal Louvre, da Berlino e da musei italiani, con importanti ritratti repubblicani come il Bruto Capitolino, la testa di San Giovanni Lipioni e quella di Fiesole.
La mostra occupa un intero piano dei Musei Capitolini: parte della sala degli Orazi e Curiazi e si conclude nel Giardino romano con le sculture di Costantino e Marco Aurelio, esposte permanentemente in questo luogo.

I Lucani a Tortora


Nei pressi del comune di Tortora, in provincia di Cosenza, sono riemersi reperti archeologici di incommensurabile valore, che parlano dell'antica cultura lucana. Tra le testimonianze recuperate grazie alla collaborazione tra le Fiamme Gialle di Scalea e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, ci sono reperti a figura rossa pertinenti un recipiente per il vino (skyphos), un cratere e un'anfora. Sono riemersi, inoltre, frammenti di un'anfora di fattura attica, e un puntale di anfora da trasporto.
Ma la testimonianza sicuramente più importante è una tomba lucana a cassa in laterizi che risale alla fine del IV secolo a.C.. La sepoltura ha restituito un vaso integro e chiuso, a vernice nera, e lo scheletro di un adulto. La scoperta è stata segnalata da un cittadino che ha avvertito i Carabinieri che, durante alcuni lavori effettuati dal Comune di Tortora per la sistemazione di una piazza, erano stati trovati frammenti di vasellame ed oggetti antichi. Il sito archeologico si estende per circa 200 metri quadrati ed è, ora, sotto sequestro.

Le rotte di Omero a Punta Campanella


Durante un'immersione nell'area Marina Protetta di Punta Campanella, a Vervece, è stata riconosciuta, a quaranta metri di profondità, un'ancora antica in una grossa pietra. Gli esami effettuati in loco dagli archeologi subacquei non lasciano dubbi: l'ancora risale all'età degli antichi Greci.
Si è pensato ad un equipaggio che, sulla scorta delle rotte omeriche, abbia attraversato lo stretto di Messina, percorso il mare delle isole Eolie e doppiato Punta Campanella, riparando a Marina della Lobra, prima di riprendere il mare verso Cuma, Ischia o Neapolis. L'ancora ha un foro in alto, che serviva ad attaccarvi le cime, e due fori in basso per inserire dei frammenti di legno che facessero presa sul fondale.
Prima di ancore del genere, venivano utilizzate solamente pietre non lavorate e scanalate al centro, attaccate a una cima. Soltanto altri tre siti della Campania hanno restituito ancore simili a quella individuata a Vervece. Ora gli archeologi pensano di approfondire le indagini e sperano di trovare, sull'ancora, anche dei graffiti che possano dare un'idea sul luogo di provenienza. Il ritrovamento dell'ancora è anche indicativo dell'importanza dei fondali di Marina Protetta di Punta Campanella.

Una strada made in Britannia

Durante lo scavo di un'autostrada, è stata scoperta, in Inghilterra, una strada costruita prim'ancora della conquista romana dell'isola. La strada è ingegneristicamente perfetta e la scoperta potrebbe cambiare quello che abitualmente si pensa degli antichi abitanti della Gran Bretagna.
Finora sono state messe in luce solamente due sezioni della strada, per un totale di circa 400 metri, ma gli archeologi pensano che essa unisse due centri politici chiave del regno dei Cornovi. La strada appare essere stata accuratamente costruita. E' stato posto un primo strato di sambuco, poi uno strato di limo per poter avere una buona superficie. La strada presentava anche un marciapiede, deducibile dal ritrovamento di alcuni montanti di legno, ed era periodicamente sottoposta a manutenzione. Solchi profondi sul tracciato dimostrano che la strada fu percorsa da un intenso traffico di veicoli la cui larghezza dell'asse è stata simata in 1,9 metri.

venerdì 11 marzo 2011

Harpastum e rugby


Marina Piranomonte, della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, ha scoperto un'antica necropoli romana che si estende sotto un campo da rugby, lo Stadio Flaminio. Qui è stato trovato l'ingresso alla città dei morti e sono state ritrovate 23 iscrizioni funebri, decine di monete di bronzo, lampade ad olio e migliaia di frammenti di ceramica.
Si ipotizza che la necropoli possa contenere fino a 50 tombe collegate da una rete di strade. Recentemente la dottoressa Piranomonte ha scoperto altre cinque tombe ed iscrizioni con nomi greci, che suggerirebbe l'idea che vi siano stati sepolti schiavi liberati. Il sito risale al I secolo a.C., ma il vasellame medioevale che è stato rinvenuto indica che le tombe sono diventate, in seguito, le case dei romani. Sono state trovate scale che portavano a piani superiori.
Inoltre vi è un fortunoso legame tra il campo da rugby ed il gioco romano dell'harpastum, praticato con una palla semirigida dai legionari in libertà dai loro servizi quotidiano. Non si conoscono le regole del gioco, ma si sa che era un gioco piuttosto violento e che i giocatori spesso finivano in terra e subivano contusioni e fratture. Il gioco prese piede in Gran Bretagna. Una fonte narra come i Romani avessero perso contro la squadra britannica, nel 276 d.C.
Il gioco fu mutuato da uno simile, chiamato arpaston, giocato dai Greci. I Romani ne stravolsero le regole e lo resero famoso, al punto che attirava sempre un gran numero di spettatori..
Tornando alla necropoli, gli studiosi sono convinti che ci sia un vero e proprio tesoro, sotto il cemento di Roma.

Uomini contro: Lucio Sergio Catilina


Uno dei personaggi più controversi della storia romana fu, senz'altro, Lucio Sergio Catilina, celebre per aver tentato di sovvertire, negli ultimi anni della Repubblica, l'ordine costituito. All'epoca, siamo nel 63 d.C., la Roma repubblicana era dilaniata dalla lotta tra due fazioni distinte: gli optimates, vale a dire l'aristocrazia che voleva conservare l'antico mos maiorum e il potere, e i populares, giovani ambiziosi che erano favorevoli ad una redistribuzione delle ricchezze e del potere, anche se, segretamente, miravano al potere personale.
La dittatura di Silla dell'82 a.C. mise fine temporaneamente alle diatribe, anche se tracciò una linea netta di demarcazione tra chi era stato beneficiato in qualche modo dal dittatore e chi, invece, era stato emarginato e privato di ogni speranza di carriera politica. Proprio in questo particolare momento storico, si concentrano più figure di uomini particolarmente interessanti. Tra loro Marco Tullio Cicerone (106-48 a.C.) e Gaio Giulio Cesare (101-44 a.C.). Cicerone era un homo novus, poichè veniva da fuori Roma e non era di origini nobili. Cesare, invece, discendeva da una delle più nobili, se non la più nobile in assoluto, famiglia romana.
Catilina ben incarnava questo periodo storico così convulso, confuso, agitato. Era un nobile di antico lignaggio che, dapprincipio, militò negli optimates e fu particolarmente prezioso nel rendere operative le famigerate proscrizioni di Silla. Fu questore nel 78 a.C., edile nel 70 e pretore nel 68. Nel 66 a.C. cercò di candidarsi al consolato, ma la sua candidatura fu respinta ed egli fu accusato di aver abusato del suo potere mentre era governatore della provincia d'Africa.
Nel 64 a.C. Catilina si ripresentò alle elezioni da console in qualità di rappresentante dei populares. Proponeva la cancellazione dei debiti, la revisione dei sistemi giudiziari, la redistribuzione della ricchezza. Il Senato, spaventato da tale programma politico, gli oppose un formidabile avversario: Cicerone.
Sallustio e Cicerone affermano che Catilina cominciò a tramare per aizzare il popolo sia a Roma che in altri luoghi d'Italia, in particolare in Etruria, dove poteva contare sull'appoggio del suo legato Gaio Manlio. I sostenitori di Catilina erano sia uomini che donne, tra queste ultime vi era Sempronia, appartenente all'antica famiglia dei Gracchi. Molti nobili, frustrati nelle loro aspettative dal comportamento del Senato, finirono per avvicinarsi a Catilina che, oltre a loro, riuscì ad affascinare anche persone di rango più basso, plebei e popolani.
La congiura, in verità, non iniziò sotto buoni auspici: fu, infatti, scoperta e denunciata ancor prima che potesse essere messa in atto. Fulvia, confidente e amante di Quinto Curio, avvertì Cicerone, che era console in carica, dei disegni di Catilina. La congiura venne denunciata in Senato e Cicerone ebbe un inaspettato appoggio da un ricchissimo uomo politico Marco Licinio Crasso, un tempo protettore di Catilina.
Il 20 ottobre del 63 a.C. Crasso fece visita a Cicerone portando con sé alcune lettere anonime indirizzate a vari senatori, nelle quali si annunciava un'improvvisa azione sanguinaria e si invitavano i senatori complici a lasciare la città. Cicerone, allora, convocò una seduta urgente del Senato e denunciò il fatto. Il 21 ottobre il Senato conferì pieni poteri ai consoli perchè bloccassero e richiamassero gli uomini alle armi per contrastare l'esercito di Catilina.
Il 6 novembre si tenne una riunione dei congiurati a casa di uno di loro e Catilina stabilì di dare inizio al colpo di stato dal giorno seguente, uccidendo Cicerone. Sallustio vuole che, in questo frangente, i congiurati siano stati obbligati, dallo stesso Catilina, a giurare bevendo sangue umano mescolato con vino. Anche stavolta, però, Fulvia rovinò tutti i piani e Cicerone fu in grado di evitare gli assassini spediti a casa sua per ucciderlo.
L'8 novembre i senatori si riunirono nel tempio di Giove Statore sul Palatino e, presente Catilina, Cicerone demolì la reputazione dell'avversario pronunciando un'orazione rimasta celebre come Prima Catilinaria. Catilina, da parte sua, pregò i senatori di pensare bene alle accuse di Cicerone alla luce della sua appartenenza al patriziato romano, mentre l'oratore non era altro che un forestiero. I senatori non si lasciarono persuadere. Quelli che erano seduti accanto a lui si allontanarono dai loro seggi.
Catilina si recò, allora, in Etruria, dove Manlio aveva concentrato, vicino Fiesole, diverse truppe. A Roma, intanto, avrebbero agito alcuni complici di Catilina se non fosse stato per i rigidi controlli voluti dai consoli in carica, ai quali consoli il Senato aveva conferito poteri speciali. I congiurati, inoltre, piuttosto ingenuamente, cercarono di associare a loro alcuni Galli Allobrogi ospiti a Roma in qualità di ambasciatori, i quali rivelarono ben presto i piani dei congiurati. Coloro dei cospiratori che non avevano lasciato Roma, furono catturati e imprigionati. Il Senato cominciò a discutere della sorte dei prigionieri. Sallustio afferma che parlarono due brillanti oratori, Gaio Giulio Cesare, che sostenne che gli accusati dovevano essere privati dei loro beni e imprigionati a vita e Marco Porcio Catone l'Uticense che si espresse, invece, a favore della pena capitale, anche in considerazione del pericolo rappresentato dalle forze militari che i congiurati erano riusciti a radunare in Etruria. Fu il parere di Catone a prevalere, appoggiato da Cicerone. La pena di morte venne messa in atto nel Tullianum, detto anche Carcere Mamertino, ancor oggi visitabile alle pendici del Campidoglio, su uno dei lati del Foro Romano. I congiurati furono strangolati con una fune. Alcuni erano tra gli uomini più in vista della città.
Non c'era scampo, quindi, per i cospiratori che si vedevano tagliati anche i rifornimenti di truppe e che furono circondati da tre legioni fedeli al Senato. Catilina, con una infiammata arringa, esortò i suoi a combattere per la patria, la libertà e la vita. Tutti i soldati preferirono, alla fine, una morte onorevole alla resa. La battaglia fu cruenta. Alla fine dello scontro Catilina fu trovato agonizzante, dopo aver combattuto, al pari dei suoi, fino allo stremo.

Lucio Domizio Enobarbo


Il suo nome per intero, il suo nome di nascita, era Lucio Domizio Enobarbo, ma noi lo conosciamo meglio come Nerone. La storiografia cristiana lo ha consegnato ai posteri con un'aurea di nefandezze, crudeltà, spietatezza che hanno pochi precedenti. Si arrivò, addirittura, ad indentificare Nerone con l'Anticristo poichè aveva messo a morte gli apostoli Pietro e Paolo, oltre a numerosi altri cristiani.
Lucio Domizio Enobarbo nasce ad Anzio il 15 dicembre del 37 d.C. da Agrippina, discendente diretta di Augusto, e da Gneo Domizio Enobarbo, che fu console del 38 e morì nel 40 d.C.. Agrippina ha un altro "illustre" quanto sconcertante fratello, Caligola, ed un imperiale zio, Claudio, fratello del padre di Agrippina Germanico. Lucio Domizio Enobarbo non ha, quindi, un'infanzia granchè facile. Alla morte del padre, Agrippina viene mandata in esilio, e Lucio Domizio è affidato ad una zia. Caligola muore nel 41 d.C. e questo permette ad Agrippina di tornare a Roma. Ansiosa di vendicarsi delle ingiustizie subite, la donna affida suo figlio ad uno degli uomini più colti dell'epoca, Lucio Anneo Seneca, un filosofo che era stato mandato in esilio in Corsica e che Agrippina fa tornare nell'Urbe.
In questo periodo a governare Roma è Claudio, succeduto a Caligola, un uomo ultrasessantenne che si è appena sbarazzato dell'ingombrante e adultera Messalina, sua moglie. Agrippina è appena trentaquattrenne e decide che Claudio, malgrado i legami di parentela che li uniscono, sarà suo marito nonchè il padre adottivo di Lucio Domizio che diventerà, in questo modo, erede diretto dell'impero malgrado la presenza di Germanico, figlio naturale di Claudio e Messalina.
Lucio Domizio Enobarbo viene, dunque, adottato da Claudio con il nome di Nero Claudius Drusus Germanicus e viene fidanzato alla cugina Ottavia, lui tredicenne lei di appena nove anni. I due si sposano prima che Claudio muoia, forse avvelenato dalla stessa Agrippina. Così, nel 54 d.C., a soli 16 anni, Nerone divenne imperatore di Roma.
Nerone è sicuramente un uomo di erudizione e di fascino, circondato da uno staff di ottimi consiglieri, tra i quali il citato filosofo Seneca e il prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro. L'intento di Nerone è di rimettere ordine nella pubblica amministrazione cercando di aumentare, nel contempo, il benessere dei cittadini. Riduce, a questo proposito, il potere dei liberti di cui si era circondato Claudio. Toglie, poi, il controllo degli appalti dalle mani dei senatori e ripristina la dignità della magistratura del consolato. Fa, inoltre, distribuire 400 sesterzi ad ogni cittadino bisognoso, una pensione ai membri del senato e frumento gratuito ai pretoriani.
Nerone, però, mira a riformare il sistema economico, osteggiato, in ciò, dai Senatori. Propone di eliminare alcune imposte indirette, sostituendole con altre che avrebbero colpito i proprietari ricchi alleggerendo il peso fiscale sui ceti meno abbienti. Ma i senatori si oppongono. Tuttavia Nerone riesce ad abolire le procedure segrete e discrezionali per appalti e procedimenti giudiziari e pone un limite alle parcelle degli avvocati, riducendo i compensi dei delatori. Tra il 54 e il 60 fa processare dodici governatori delle province per malversazione e vieta ai non residenti in Egitto di possedere nel paese delle terre. Nel 57 d.C. toglie il controllo dell'amministrazione della tesoreria al Senato, che non può coniare più monete.
I reali problemi di Nerone, però, sono, per così dire, intra moenia. Sua madre Agrippina è convinta di poter governare e per questo briga, cerca visibilità, ottiene cariche, trama nell'ombra, anche contro il figlio. Il matrimonio di Nerone con Ottavia finisce del tutto a causa della passione dell'imperatore per Atte, una liberta di origine greca. Seneca e Burro si incaricano di coprire l'adulterio ma Agrippina ne viene comunque a conoscenza e questo infastidisce Nerone che allontana dalle finanze imperiali Pallante, amante di Agrippina. La madre minaccia il figlio di detronizzarlo a favore del giovane Britannico, erede legittimo di Claudio. Il giovane, però, morirà ufficialmente per un colpo epilettico, in realtà si sospetta sia stato avvelenato. Nerone si stanca delle trame e della guerra intestina con sua madre ed incarica i sicari, nel 59 d.C., di ucciderla.
Nel 62 d.C. compare, nella vita dell'imperatore, Poppea Sabina, una donna bellissima, intelligente ed astuta. In pochi mesi Poppea fa esiliare la liberta Atte in Sardegna e riesce a far inviare suo marito Otone come legato imperiale nella lontana Lusitania. Ottavia, sfortunata prpia moglie di Nerone, è accusata di ogni nefandezza, ripudiata ed esiliata nell'isola di Ventotene dove verrà uccisa. Così Nerone può sposare Poppea, già incinta della piccola Claudia, che però muore dopo soli quattro mesi di vita, a causa di un'improvvisa malattia.
L'intento dell'imperatore, oltre a quello di riequilibrare l'economia imperiale, è sicuramente quello di dirozzare la civiltà romana avvicinandola ai più raffinati modelli ellenistici. Comincia, quindi, a costruire ginnasi e palestre in cui i giovani vengano istruiti nelle arti, oltre che nella cura del corpo. Istituisce gli Augustani, atleti dediti alla cultura, nel 59 d.C. celebra gli Juvenalia, con competizioni di musica, teatro e danza. Nel 60 d.C. è la volta dei Neronia, giochi alternanti sfide artistiche a sfide atletiche e corse sui coccchi. Nel 64 d.C., infine, Nerone si esibisce in pubblico, a Napoli, città di cultura greca. Il successo e lo scandalo dei senatori sono entrambi enormi. Ancora più scandalo suscita l'imperatore tra i senatori quando decide di esibirsi nei secondi Neroniani.
Nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C., un improvviso incendio divampa da un lato del Circo Massimo. Il fuoco è una delle grandi tragedie di una Roma ancora costruita in legno e "raffazzonata" alla bell'e meglio. A causa del forte vento, le fiamme arrivano dal Circo Massimo alla Suburra, un quartiere popolare con vie strettissime, ingombre di materiale di ogni genere. Poi, da qui, investono anche le lussuose abitazioni dei ricchi. Nerone è ad Anzio e, alla notizia, si precipita a Roma per coordinare la guerra contro il fuoco. Per prima cosa fa aprire il Campo Marzio, il monumento di Agrippina, terme, templi e i suoi giardini sull'Esquilino per ospitare e dare conforto agli sfollati. Mobilita, quindi, le legioni e fa giungere da Ostia aiuti alimentari ed altri vigiles. Egli stesso viene visto correre, solo e senza scorta, nei luoghi più colpiti. Ma il fuoco, tragicamente, sembra non diminuire e divora la città in sei giorni. Solo quattro delle 14 regiones augustee riescono a scampare al disastro.
Nerone, contrariamente all'iconografia cristiana che lo ha immortalato contemplare l'incendio dalla sua terrazza e bearsi al suono della cetra, non perde un minuto per organizzare i soccorsi e avviare la ricostruzione. Fa redigere un nuovo piano regolatore, nel quale le case devono essere distanziate tra loro, costruite in mattoni, fronteggiate da portici e su strade larghe. Inizia, nel contempo, la costruzione del complesso denominato Domus Aurea. In soli sette mesi Roma rinasce più bella e i 400 mila senzatetto hanno un luogo in cui vivere che è più sicuro del precedente. Si cercano anche i colpevoli di quell'immane disastro. Si sa, a Roma, che ebrei e cristiani sono spesso protagonisti di sanguinose faide. L'inchiesta di polizia, condotta dal ministro Tigellino, porta proprio alla comunità giudaica, protetta da Poppea, che accusa i cristiani. In questo modo finiscono sul rogo o dilaniate dalle fiere del circo, ben 300 persone, secondo le pene previste, all'epoca, per i piromani. Quindi non fu una persecuzione univoca e immotivata contro la comunità cristiana.
Nerone rimette, a questo punto, mano alla riforma monetaria. Svaluta i pezzi d'oro e d'argento, creando un utile per le casse dello Stato, promuove i ceti emergenti, gli imprenditori e i mercanti e "punisce" chi accumula ricchezza che non reimmette in circolo. I privilegi degli aristocratici sono sempre di più nell'occhio del ciclone. Conseguenza ne è la congiura, scoperta, del 65 d.C., che aveva coinvolto il senatore Gaio Calpurnio Pisone. I congiurati sono tutti senatori e cavalieri, appoggiati dai cavalieri della guardia pretoriana e da intellettuali quali Petronio, Lucano e lo stesso precettore dell'imperatore Seneca, costretto a suicidarsi. Sono 41 i congiurati, di questi solo 18 morirono, gli altri sono perdonati o esiliati.
Una nuova congiura viene scoperta nel 66 d.C., ordita da Annio Viniciano, genero del generale Gneo Domizio Corbulone, che preferisce suicidarsi piuttosto che presentarsi dinnanzi a Nerone. Alla fine dell'estate del 66 Nerone, stanco delle trame di corte, parte per la Grecia con una corte di 5000 persone. Sbarca a Corfù, poi raggiunge Nicopoli, Azio e Corinto che elesse a sua residenza. Qui dà il via al taglio del Canale di Corinto, taglio ripreso e concluso nel XIX secolo, che avrebbe dato vigore e impulso ai commerci. L'entusiasmo che circonda l'imperatore è enorme, al punto che lo si paragona a Giove e Apollo. Nerone realizza, in questi frangenti, l'ultimo dei suoi sogni: la partecipazione a quattro giochi panellenici, Olimpici, Pitici, Istimici e Nemei. Conquista in questo modo 1808 ghirlande.
Dopo un anno e mezzo di assenza dall'Urbe, Nerone torna a Roma, spinto anche dalla notizia della rivolta di Vindice. Costui è un legato imperiale e convince alla sua causa il governatore della Spagna Citeriore, Servio Sulpicio Galba e il legato della Lusitania Salvio Otone. Nerone assume, allora, il consolato per avere i poteri necessari a reagire. Alla fine di maggio le truppe di Virginio Rufo, fedele legato della Germania Superiore, sconfiggono quelle di Vindice a Vesantio (Besançon). Vindice si suicida.
I nemici di Nerone, però, non demordono. C'è una nuova congiura, fomentata da Galba, che sarà poi imperatore. Tigellino, prefetto di Roma, si allontana dall'urbe con una scusa, consentendo al prefetto del pretorio Ninfidio Sabino, di convincere Nerone a lasciare la Domus Aurea per motivi di sicurezza. Denuncia, quindi, l'allontamento dell'imperatore come fosse una fuga. I sostenitori di Nerone, tratti in inganno, lasciano Roma. L'8 giugno il Senato dichiara Nerone nemico pubblico. Il giorno seguente questi scopre che i pretoriani non presidiano più il palazzo e che la sua terza moglie, Messalina, è scomparsa. Si rifugia, quindi, nella casa di campagna di uno dei suoi liberti ma, all'arrivo dei pretoriani inviati a catturarlo, si toglie la vita facendosi aiutare dal segretario Epafrodito. Ha solo 30 anni.

La patria delle MIlle e una Notte


Si dice che il califfo Harun al-Rashid, disturbato dall'insonnia, una notte fece chiamare il Gran Visir Gia'far il Barcemide e gli propose di andare in giro per le vie di Baghdad travestiti da mercanti, per vedere e sentire quel che la popolazione della città diceva sul conto del sovrano. Così inizia il corpo di novelle forse più famoso del mondo, "Le Mille e Una Notte".
Baghdad. La scelta della località dove erigere questa magnifica città fu piuttosto accurata. A determinare il luogo fu il cosiddetto "quarto clima", che i geografi arabi medioevali dipingevano come "il clima mediano, perfetto". Il cuore di questa felice condizione climatica è la Mesopotamia, la regione compresa tra i paesi degli Arabi, quelli dei Persiani e due fiumi altrettanto noti: il Tigri e l'Eufrate. Baghdad sorse sulla sede di un'altra, antichissima e favolosa città: Babilonia.
Il nome della città, nelle fonti del 762-767 d.C., anno di fondazione di Baghdad, è Madinat as-Salam, la "Città della Pace o della Salvezza". Il nome si rifà ad un versetto del Corano che, riferendosi al paradiso in cui abiteranno i credenti, dice: "Per questi è la Dimora della Pace presso il loro Signore, ed Egli sarà loro Patrono in compenso del bene ch'essi operavano". A volere la fondazione di Baghdad fu il califfo al-Mansur, che scelse, quale luogo privilegiato, un territorio nei pressi di Ctesifonte, capitale dell'impero dei Sasanidi. Il nome di Baghdada, secondo alcuni, deriverebbe dal persiano "Dio [ha] dato" (Bagh=Dio e dad=dato), mentre per altri deriverebbe dall'aramaico "recinto per pecore".
I fondatori vogliono che la città sia munita di una fortezza circolare che abbracci i palazzi reali e la grande moschea. Il messaggio che la dinastia abbaside vuole dare, attraverso l'edificazione di questa splendida città, è quello di una netta distinzione tra la gente comune e la corte che, a sua volta, è articolata in complesse gerarchie che hanno, al loro centro, il califfo ed i suoi compagni e collaboratori più fidati. Queste regole furono dagli Abbasidi ereditate dalla dinastia precedente, quella dei Sasanidi, la dinastia iranica scomparsa con le grandi conquiste arabo-islamiche del VII secolo d.C.
Nonostante questo il califfato del IX secolo non è un regime tirannico in senso stretto. L'ideologia musulmana, anzi, postula chiaramente che il sovrano deve garantire il benessere dei cittadini. Il mezzo attraverso il quale egli opera è l'amministrazione della giustizia, che garantisce a chiunque si consideri vittima di un sopruso, la possibilità di rivolgersi al califfo in persona.
Baghdad fu un centro commerciale di primaria importanza, capitale di un impero ricco e florido, dislocata su uno snodo viario di grande in teresse. Da un lato, infatti, per via di terra, passavano le carovaniere provenienti dall'Iran Orientale, regione di raccordo con l'Estremo Oriente, dall'altro Baghdad è ben collegata con il Golfo Persico, grazie a Bassora, il porto posto alla confluenza del Tigri e dell'Eufrate, dove inizia lo Shatt al-'Arab, dove arrivano le merci dall'India e dall'Africa.
In Baghdad si fondo gli antichi villaggi preesistenti che, alla fine, diventano veri e propri quartieri, come Karkh, sede di una fiera annuale prima della fondazione di Baghdad e diventato, dopo la nascita della città, il quartiere dei mercanti. Il mercato di Baghdad è suddiviso per strade o aree, ciascuna delle quali preposta ad una particolare categoria di venditori oppure ad una specifica professione artigianale. Ogni categoria artigianale e commerciale ha un suo capo che la rappresenta nei confronti dell'amministrazione centrale. Poichè l'Islam è contrario all'usura, le transazioni commerciali sono, praticamente, degli scambi.
Baghdad ritorna nell'ombra con la fine del califfato abbaside, nel 1258, pur se il suo ruolo predominante nell'area irachena non venne mai meno.
Archeologi italiani del Centro Ricerche e Scavi Archeologici di Torino, hanno contribuito fin dal 1971 al recupero di antichi fabbricati ed alla ristrutturazione di fatiscenti strutture islamiche, in accordo con le competenti autorità locali. Nel 1971 furono monitorati, per eventuali interventi, dei monumenti dell'architettura religiosa e cimiteriale irachena, sopravvissuti nel centro storico della città, al-Karkh e ar-Rusafah. Si tratta di monumenti estremamente importanti, perchè coprono l'intero sviluppo dell'arte islamica in Mesopotamia dal tardo periodo Abbaside al periodo Ottomano.
Nel 1982 fu iniziato un progetto per la creazione di una "Città della Cultura", posta su una fascia lungo la riva destra del Tigri, compresa tra la Mustansiriyah, il Palazzo Abbaside, il Qasr as-Seray, quartiere amministrativo dell'Iraq ottomano. Nel 1993 iniziò un nuovo programma per la documentazione dell'architettura abitativa tradizionale di Baghdad. Il primo quartiere ad essere interessato è stato quello di al-Khraimat, fondato a metà del XIX secolo sulla riva destra del Tigri, appena fuori le mura medioevali della città. Al-Khraimat conservava numerosi edifici di notevole interesse. Purtroppo la Guerra del Golfo non ha permesso di proseguire le indagini e rilievi su altri quartieri adiacenti.

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Turchia, l'iscrizione di Antioco di Commagene (Foto: AA) Un'iscrizione trovata vicino a Kimildagi , nel villaggio di Onevler , in Tu...