sabato 31 marzo 2012

Quattro passi intorno al Faro di Alessandria

Moneta con raffigurazione del Faro di Alessandria d'Egitto
Il grande faro che, nel porto di Alessandria, indicava ai naviganti l'ingresso sicuro, prendeva nome dall'isola di fronte alla città, l'isola di Faro, appunto. Il faro è stato inserito tra le sette meraviglie del mondo antico, ma i cronisti dell'epoca non ne danno una descrizione esaustiva. Quel che si conosce del celebre faro, lo dobbiamo ai cronisti arabi, che poterono osservarlo agevolmente, visto che il monumento rimase visibile fino al XIV secolo.
Il documento più fedele sul faro è medioevale: un mosaico della cappella Zen di San Marco a Venezia, datato agli ultimi anni del XIII secolo. In questo mosaico è rappresentato l'arrivo ad Alessandria dell'Evangelista, a corredo delle immagini un testo recita: "il promontorio dell'isola è uno scoglio circondato dal mare, su cui si trova una torre a più piani, costruita mirabilmente in pietra bianca, che ha lo stesso nome dell'isola. Essa fu dedicata da Sostrato di Cnido, amico dei re, al fine di assicurare la salvezza dei naviganti, come si legge nell'iscrizione". Nel mosaico l'edificio appare a tre piani, il primo in opera isodoma, il secondo realizzato in mattoni, il terzo di forma cilindrica corredato da una cupola, probabilmente pertinente la moschea che si installò sulle rovine dell'antica costruzione.
La datazione più probabile del monumento l'ha data Eusebio: 283-282 a.C., all'inizio del regno di Tolomeo Filadelfo. La Suda, un lessico bizantino di autore ignoto, collega la costruzione del faro con la partenza di Pirro da Alessandria per riprendere possesso dell'Epiro (297 a.C.). Questa datazione dovrebbe essere considerata l'inizio della costruzione che, secondo alcuni calcoli, si protrasse per 14 anni. Sostrato di Cnido, considerato l'architetto della notevole struttura, era considerato, dagli autori antichi, una personalità di spicco nella società della sua epoca, come suggerisce l'attributo "amico dei re".
Le raffigurazioni del celebre Faro, però, sono piuttosto generiche: lo si trova su monete dell'epoca di Domiziano (81-96 d.C.) e rari oggetti d'artigianato (mosaici, lucerne, vetri, sarcofagi). Sicuramente la documentazione numismatica è quella più attendibile, da essa emergono le caratteristiche fondamentali della grande costruzione. Innanzitutto il corpo di fabbrica inferiore, a pianta quadrata, che appare più alto degli altri corpi di fabbrica.
Ai cronisti arabi, invece, si devono ulteriori descrizioni, se pure non visive. Uno di questi è Ibn al-Sayh, erudito originario di Malaga, esperto in architettura, che lasciò numerose descrizioni e compendi sugli argomenti più disparati tra cui anche una descrizione del Faro. Ci sono almeno altre dodici descrizioni arabe della costruzione, la più antica delle quali risale al IX secolo, l'ultima - che ne testimonia il crollo definitivo - del XIV secolo. Ibn al-Sayh, a differenza degli altri cronisti, riporta le dimensioni reali di questo edificio.
La città di Alessandria, fondata da Alessandro Magno, obbediva a precisi criteri di natura strategica e commerciale. Il suo porto era vicino al Delta del Nilo e consentiva l'approdo in qualunque condizioni meteorologiche, grazie alla presenza di due ingressi. Il suo bacino era sufficientemente ampio per ospitare una grande flotta. Alla morte di Tolomeo II quest'ultima comprendeva dieci grandi vascelli, ottanta vascelli di media stazza e 175 piccoli vascelli.
La rada antistante la città di Alessandria era chiusa, verso il mare, dall'isola di Pharos, che proteggeva l'insenatura dal mare aperto. Tolomeo I Sotere realizzò l'Heptastadion, un viadotto lungo circa un chilometro, che collegava l'isola alla terraferma. Fu questa l'opera che giustificò la costruzione del Faro. L'Heptastadion divise in due la rada, creando due porti: il megas limen ad occidente e l'eunostos ad oriente.
Quando il Faro fu edificato, non esisteva alcuna costruzione assimilabile. C'erano, è vero, altre torri di segnalazione, come quella ritrovata nell'isola di Thasos, ma quest'ultima è stata datata al VI secolo a.C. ed era alta appena tre metri e mezzo e sfruttava l'altezza del promontorio sul quale era costruita. La torre di Alessandria, invece, si elevava per ben 115 metri.
Oltre a segnalare la via da seguire, il Faro svolgeva un'altra importante funzione, quella di difendere la città dal nemico avvistandolo in tempo. La grande lanterna che costituiva la fonte luminosa, alimentata ad olio e potenziata attraverso supporti metallici, indicava l'imbocco del porto e fungeva da segnalazione in caso di allerta. Secondo antiche descrizioni, poi, erano presenti anche tritoni con buccine collocati in cima alla prima terrazza, che fungevano da richiami indicativi in caso di nebbia. Le stanze del primo piano della struttura alloggiavano sia il personale destinato alla manutenzione del Faro che un corpo di guardia.
Ibn al-Sayh ci rimanda le proporzioni, in cubiti, dei tre corpi che costituivano la struttura del Faro. Tradotto in metri, l'ingombro della base era di 30,50 metri, mentre l'intera struttura si elevava per 113 metri di altezza, dei quali 70 metri erano riservati al primo piano, 34 metri al secondo e 9 metri al terzo. Al centro del Faro vi era un vuoto simile ad un pozzo profondo attorno al quale si avvolgeva, a spirale, una scala, isolata dal pozzo esterno e dall'esterno. Superato l'ingresso - stando alla testimonianza diretta di Ibn al-Sayh - si percorreva un corridoio che attraversava diverse stanze.
Nel basamento del Faro dovevano essere custodite le cisterne che dovevano garantire l'autonomia della struttura in caso di assedio. Lo schema di base doveva essere una torre ottagonale larga 17 metri, quanto il secondo corpo, ed alta 104 metri circa, al di sopra della quale vi era una lanterna a base circolare. La forma ottagonale, simile a quella della Torre dei Venti di Atene, aveva un significato sia astronomico che geografico: il Faro, infatti, era orientato secondo gli assi cardinali e Alessandria era l'origine del sistema geografico.

Restaurati altare e croce del Battistero di San Giovanni a Firenze

L'altare d'argento dopo il restauro
Si è concluso il restauro dell'Altare e della Croce in argento del Tesoro del Battistero di San Giovanni a Firenze. L'altare fu realizzato in cento anni, con 200 chilogrammi di argento e 1.050 placchette smaltate. Alla sua realizzazione hanno collaborato gli artisti più insigni del Tre-Quattrocento: Bernardo Cennini, Michelozzo, Antonio del Pollaiolo e Andrea del Verrocchio. Ora l'altare sarà visibile dal prossimo 1° aprile, insieme con la grande croce che, un tempo, lo sovrastava.
Il restauro è durato circa sei anni, diretto dall'Opificio delle Pietre Dure su incarico dell'Opera di Santa Maria del Fiore. Un tempo sull'altare vi era la grande croce di argento realizzata tra il 1457 e il 1459 da Antonio del Pollaiolo, che sarà collocata al suo posto originario in occasione della mostra al pubblico. La croce era una sorta di reliquiario per un frammento di quella che si riteneva essere la croce del Cristo che, vuole la leggenda, fu donata alla chiesa da Carlo Magno. Sia l'altare che la croce erano mostrate solamente due volte l'anno ai fedeli: in occasione della festa del Perdono e della festa di San Giovanni Battista.
La mensa in argento fu commissionata nel 1366 dalla Corporazione dell'Arte di Calimala come dossale per l'altare maggiore del Battistero. Fu terminata circa un secolo dopo, nel 1483. Per la sua realizzazione furono mobilitati maestri orafi e scultori di più generazioni: Leonardo di ser Giovanni e Betto di Geri, Cristofano di Paolo, Tommaso Chiberti e Matteo di Giovanni, Bernardo Cennini, Antonio di Salvi, Michelozzo, Antonio del Pollaiolo e Andrea del Verrocchio che realizzò l'ultima, in ordine di tempo, delle dodici formelle che ornano la mensa d'altare. La formella del Verrocchio rappresenta la decapitazione del Battista. L'opera monumetale misura cm 310 x 150 x 88.
Andrea del Pollaio ebbe anche l'incarico di creare la grande croce posta sull'altare, realizzata con ben 50 chilogrammi di argento, alta 1,93 metri, della quale restano ancora i pagamenti per l'esecuzione dell'opera. Nel 1459 furono sborsati ben 3.036 fiorini d'oro, di cui 2.006 andarono al Pollaiolo e 1.030 all'orafo Betto di Francesco Betti. La croce era decorata di smalti traslucidi in gran parte andati perduti e fu realizzata affinchè la devozione per il frammento della vera croce di Cristo non passasse in secondo piano a causa del contemporaneo arrivo di un'altra reliquia di proprietà della Corporazione dell'Arte della Lana, rivale dell'Arte di Calimala.
Il restauro ha restituito lucentezza e leggibilità sia alla mensa d'altare che al crocifisso, che erano stati interessati dal progressivo degrado dovuto all'ossidazione dell'argento, ossidazione che, nel caso dell'altare, ha danneggiato gravemente ed irreparabilmente gli smalti. Il restauro è stato diretto da Clarice Innocenti, del laboratorio di restauro delle Oreficerie dell'Opificio delle Pietre Dure, in collaborazione con il settore Scultura lignea e il laboratorio scientifico. L'altare è stato scomposto in ben 1.500 pezzi, tutti sottoposti a pulitura e consolidamento. Parallelamente si sono restaurate anche la struttura lignea e le cornici in legno dorato e proprio grazie a questo restauro è stato possibile ritrovare il magistrale lavoro di intaglio. Dalla croce, invece, sono stati rimossi sali verdi di rame e vernice protettiva, anche se l'opera è risultata piuttosto compromessa da un precedente intervento di restauro

venerdì 30 marzo 2012

Le sorprese della necropoli di Montalto di Castro

Gli scavi a Montalto di Castro
Ancora sorprese dagli scavi di Montalto di Castro, in provincia di Viterbo. Lo scorso lunedì 26 marzo è stata aperta un'altra delle 40 sepolture rinvenute nella zona e tuttora in fase di studio. Gli scavi sono coordinati dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici dell'Etruria Meridionale ed hanno permesso il recupero di una sepoltura a camera della seconda metà del VII secolo a.C.
Nella stessa necropoli, chiamata dei Due Pini, sono state individuate anche altre sepolture risalenti sempre alla fine del VII secolo a.C., una delle quali presenta un ingresso particolare: due colonne alle quali sono stati incastonati dei blocchi sovrapposti. Questa inconsueta architettura ricorda quella di alcuni monumenti mediorientali. Nel frattempo si attende, con comprensibile eccitazione, l'apertura della Tomba della Sfinge, prevista per la fine di aprile presso la necropoli dell'Osteria, situata nel parco archeologico di Vulci. Questa tomba principesca risale al VI secolo a.C. ed ha già restituito una splendida sfinge in nenfro.
L'amministrazione comunale di Montalto di Castro intende rendere fruibile al pubblico tutto il complesso archeologico che si va mano a mano delineando.

Gli Svedesi e San Giovenale

Scavi di abitazioni a San Giovenale
L'area di San Giovenale, nei pressi del lago di Bracciano, nell'alto Lazio, è inserita nel tipico paesaggio tufaceo etrusco. Si tratta di un'altura fortificata naturalmente, dominata dai resti del castello dei Di Vico, costruito nel XIII secolo, e dalle rovine della chiesetta altomedioevale dedicata a San Giovenale, vescovo di Narni.
Qui scavò, a partire dal 1956 e fino al 1978, la scuola svedese, con un archeologo di eccezione: re Gustavo VI Adolfo di Svezia. Gli scavi rivelarono che l'acropoli di San Giovenale era stata occupata già nel corso del II millennio a.C.. Qui sorgeva un abitato di capanne, riportato alla luce nel settore orientale del pianoro, all'interno della corte del castello medioevale. Già in quest'epoca erano presenti opere di fortificazione del punto più importante dell'abitato, dove si apriva l'ingresso principale. Si tratta di massi tufacei risalenti all'Età del Bronzo, posti uno sull'altro, sui quali poggia il successivo muro etrusco.
Questo primitivo insediamento andò incontro alla totale distruzione a causa di un incendio e fu sostituito da un abitato protovillanoviano (XI-X secolo a.C.) che, per guadagnare spazio per l'insediamento, ricorse anche ad una serie di terrazzamenti artificiali.
Nel VII secolo a.C. le capanne vennero sostituite da abitazioni costruite con il tufo e dotate di un tetto di tegole che si estesero anche sulla collinetta chiamata "Borgo". Qui vennero maggiormente incentrare le operazioni di scavo che riportarono alla luce costruzioni ben conservate, edificate sul pendio settentrionale della collina e dotate di un sistema di canalizzazione per lo scolo delle acque. Le abitazioni sono piuttosto modeste ma ben costruite e presentano anche uno spiazzo antistante in cui sono stati individuati resti di focolari e di pozzi.
Un'abitazione di maggiori dimensioni, risalente sempre al VII secolo a.C., è stata ritrovata nella parte più settentrionale del "Borgo". E' costituita da tre vani affiancati, ciascuno con un ingresso sul lato lungo, verso sud. All'interno delle stanze sono stati individuati diversi focolari e quest'anomalia ha incuriosito gli archeologi. Lungo il muro settentrionale, poi, è stato ritrovato un passaggio che è rimasto un mistero anche per gli studiosi svedesi. Recenti studi e indagini hanno documentato come, in epoca etrusca, tutto il sito di San Giovenale fosse interessato da un'intensa lavorazione del ferro. Sono state ritrovate scorie di questo minerale che hanno suggerito che i numerosi focolari ritrovati nella struttura settentrionale del "Borgo" servissero proprio per forgiare il prezioso minerale. Probabilmente in questa parte dell'abitato si trovava una sorta di zona artigianale dove, già nel VII secolo a.C., si sviluppò l'attività siderurgica con la produzione di manufatti in ferro, un'attività di notevole importanza nell'economia locale.
Nel VI secolo a.C. San Giovenale era un'industriosa cittadina inserita nell'orbita della più nota Cere. L'omogeneità dei corredi funebri ritrovati suggerisce l'assenza di un'élite nobile che possedesse le chiavi della ricchezza del paese. Un'altra anomalia riscontrata durante il completamento degli scavi riguarda la totale assenza di edifici pubblici, sacri e amministrativi.
La crisi che colpì, nel V secolo a.C., tutta l'Etruria, finì per coinvolgere anche San Giovenale. L'abitato si restrinse, perdendo il controllo delle vie di comunicazione. In questo periodo pare che la cittadina sia ritornata all'agricoltura ed all'allevamento del bestiame. Particolarmente interessante è lo sviluppo della cultura della vite, con la liberazione dalle abitazioni di un'ampia zona nella parte settentrionale del "Borgo" al fine di sistemarvi laboratori per la lavorazione del vino. Il quartiere artigianale continuò ad essere operativo fino alla fine del V secolo a.C., quando fu anch'esso abbandonato, soppiantato da strutture in cui si lavorava e conservava il vino.
Il IV secolo a.C. è caratterizzato dal sorgere e dall'espandersi della potenza romana in tutto il territorio etrusco. Molti studiosi identificano San Giovenale con Contenebra o Cortuosa, avamposti fortificati di Tarquinia ricordati da Tito Livio per essere stati conquistati dai Romani nel 388 a.C..

Tracce di vita quotidiana a Yenikapi

Alcuni degli oggetti ritrovati nello scavo
del porto di Teodosio a Yenikapi
Gli straordinari ritrovamenti di Yenikapi, Istanbul, continuano a far parlare il mondo dell'archeologia. Ritrovamenti che parlano anche della vita quotidiana ai tempi dell'imperatore Teodosio. Si tratta di salsiere, coppe, piatti, tazze, bottiglie di vetro, pettini in legno e osso, zoccoli di legno, sandali di cuoio, specchi e bilance di bronzo, pesi di diverse fogge, stampi per il pane, monete, steli funerarie. Tutti questi oggetti sono stati rinvenuti negli scavi del porto di Teodosio o nelle zone limitrofe.
Il cibo, nella vita quotidiana dell'antica Costantinopoli, dimostra di avere un posto centrale. Particolarmente ricercati il formaggio, soprattutto quello della Paflagonia e quello di Creta, la frutta cruda e cotta, l'olio di oliva, il vino bianco e rosso (apprezzati erano quelli provenienti dalla Siria e dalla Palestina), il maiale ed i volatili fritti, bolliti o arrosto.
Gli studi effettuati sui resti animali nelle sabbie del porto hanno evidenziato che si macellavano in preferenza bovini, pecore, maiali, capre ma anche antilopi, importate dalla Tracia e dalla Bitinia. Spesso si asportava loro il cervello, dal momento che il consumo delle interiora non era una pratica rara: testa, cervello, polmoni, fegato e cuore degli ovini rientravano tra i consumi abituali.
La maggior parte delle proteine, però, gli abitanti di Costantinopoli la traeva dal mare: pesci, gamberi, granchi, uova di pesce, ostriche ed altri molluschi, alcuni dei quali importati dal Mar Nero o dal Nord Europa. Negli scavi sono stati ritrovati i contenitori che servivano a mantenere tiepide le salse che dovevano essere servite.
Sono state anche rinvenute molte calzature in cuoio con decorazioni di diverse forge. Su una suola di legno era inciso un augurio scritto in greco: "Indossa questo oggetto in buona salute e gioia, mia signora", segno che le calzature a cui le suole appartenevano erano state oggetto di dono.
Dal terreno sono emersi anche pezzi da gioco: dadi in avorio, pedine di osso, una pedina in avorio del gioco degli scacchi, che ci confermano che il gioco aveva un ruolo molto importante nella società bizantina. E' stato ritrovato anche un frammento di mattone che porta incisa una sorta di scacchiera, tre quadrati inscritti uno nell'altro e uniti da linee perpendicolari: un gioco originario dell'Asia Minore, conosciuto oggi come Tris o Filetto e molto popolare ad Istanbul, ieri come allora.

mercoledì 28 marzo 2012

Straordinaria riapertura di alcune tombe di nobili a Giza

Una delle sei tombe eccezionalmente riaperte a Giza
Nel cimitero occidentale della Piana di Giza, sei tombe del vecchio regno, appartenenti a nobili ed alti funzionari della IV Dinastia sono in attesa di riaprire i battenti dopo un lungo restauro. Scoperte all'inizio del secolo scorso, le tomba hanno facciate imponenti, simili a templi.
La prima delle sepolture appartiene alla principessa Mersankh, nipote del faraone Khufu. Originariamente il sepolcro era stato costruito per la madre di Mersankh, Hetepheres II, ma alla morte improvvisa della principessa, fu utilizzata per lei. La tomba fu scoperta nel 1927 dall'archeologo George Reisner. Al suo interno sono stati rinvenuti un sarcofago di granito nero, una serie di vasi canopi ed una statua in calcare che raffigura la regina Hetepheres II che abbraccia la figlia. Il sarcofago è ora custodito nel Museo Egizio del Cairo mentre la statua si trova al Museum of Fine Arts di Boston.
La seconda tomba è di Seshem-Nefer, sorvegliante di una delle due sedi della Casa della Vita e custode dei segreti del re, è una delle tombe più grandi della Piana di Giza. Al suo interno vi sono delle pitture raffiguranti scene di caccia e di vita quotidiana.
La terza sepoltura appartiene a Senefru-Kha-Ef, tesoriere del re e sacerdote del dio Apis.
La quarta tomba venne costruita per Nefer, sorvegliante dei sacerdoti. Le pareti di questa sepoltura sono decorate con scene di vita quotidiana.
La quinta tomba appartiene a Yassen, sorvegliante delle aziende agricole del re, la sesta era per Ka-Em-Ankh, sovrintendente del tesoro reale.
Tutte queste sepolture sono state aperte 25 anni fa per la prima volta e da allora sono state sempre chiuse a causa dei continui restauri.

Recuperate due statue di bronzo romane in Spagna

Le statue ritrovate in Spagna
Alcuni agenti della polizia spagnola hanno recuperato, a Cordoba, due statue di epoca romana, databili al tardo periodo imperiale che, forse, fanno parte del gruppo scultoreo di Castore e Polluce. Le statue sono valutate intorno ai sei milioni di euro e risalgono al I secolo d.C.. Sono state trovate in una fattoria appartenente a Pedro Abad e ai suoi fratelli che intendevano vendere i reperti al mercato nero.
La scoperta parte dalla constatazione di un'importante scavo clandestino nel giacimento archeologico di Alcurrucén, un'area occupata da ville e necropoli. Le statue salvate sono cave al loro interno e ricavate dal bronzo. Rappresentano due persone di sesso maschile, alte 1,30 e 1,50 metri. Quando sono state trovate, entrambe le statue avevano le braccia e le gambe amputate, ad una mancava la testa e parte del tronco, all'altra gli organi genitali. Anche i pezzi mutilati sono stati ritrovati.

La Kore ritrovata

La Kore ritrovata
La polizia greca ha recuperato un'antica statua dal valore incommensurabile, scavata illegalmente e nascosta in una stalla per capre vicino ad Atene. Il pastore che la deteneva illegalmente è stato arrestato.
La statua, in marmo, raffigura una giovane donna e risale al 520 a.C. circa. Appartiene al cosiddetto tipo Kore è alta 1,20 metri ed in gran parte ben conservata, tranne che per l'avambraccio sinistro e la parte dei piedi. I suoi equivalenti maschili, i Kouros, sono esposti in molti musei del mondo, tra i quali quello della stessa Atene.
Ora gli archeologi stanno cercando di capire dove si trovi il luogo in cui la statua era sepolta, poiché potrebbe svelare l'esistenza di un santuario o di una necropoli del VI secolo a.C.

AGGIORNAMENTO (7 aprile 2012)
Uno studio approfondito della scultura ha rivelato la presenza di bolle d'aria, sintomo di una colata. Al momento del ritrovamento gli esperti giudicarono la scultura unica e di valore inestimabile, ma analisi più approfondite hanno rivelato che si tratta di una copia perfetta di una statua rinvenuta nell'Acropoli di Atene nel 1886.

domenica 25 marzo 2012

Gli ustrina di Castell'Arquato

La lucerna scoperta a Castell'Arquato
Nel corso dei alcuni lavori a Castell'Arquato, in provincia di Piacenza, sono tornati alla luce degli ustrina di età romana. Gli ustrina erano dei luoghi in cui erano incinerati i corpi dei defunti. Le ceneri venivano, in un secondo tempo, raccolte e collocate in una tomba distante dal luogo di cremazione.
I reperti emersi sono fosse colme di ceneri e ossa combuste. Tra questi ustrina vi è una fossa in cui il defunto è stato deposto, una volta combusto, direttamente nella tomba ed i resti bruciati sono stati ricoperti con laterizi. Questo permette di indagare alcune delle modalità dell'incinerazione diretta e del rito funerario durante l'epoca romana.
Il comune di Castell'Arquato faceva parte dell'Ager Veleias e non ha finora restituito reperti concernenti il corredo funerario. E' stata rinvenuta una lucerna fittile firmata da chi l'aveva prodotta e altri modesti reperti. Le ossa cremate presenti sono state accuratamente raccolte per poter eseguire un'analisi antropologica che riveli qualcosa circa l'alimentazione e lo stile di vita degli antichi abitanti di Castell'Arquato.

La grande fullonica di Casal Bertone

L'area della fullonica di Casal Bertone vista dall'alto
Le indagini archeologiche preventive per la realizzazione della Ferrovia ad Alta Velocità Roma-Napoli in via di Casal Bertone (V Municipio del Comune di Roma), hanno riportato alla luce, tra il 2007 e il 2008, un importante impianto, ricondotto ad una fullonica oppure ad una conceria. L'impianto è risultato essere molto ampio, circa 1000 mq, il più ampio del genere finora ritrovato nel mondo romano.
L'impianto è allineato ad un vicino tratto della via Collatina antica, accanto a sette edifici funerari. Al suo interno una serie di piccole celle quadrangolari nei cui pavimenti erano inserite delle tinozze di terracotta deputate alla lavorazione dei tessuti e delle pelli. In tutto se ne sono individuate ben 57, dal cui esame gli archeologi sono riusciti ad attribuire l'intero complesso ad un periodo compreso tra il 123 e il 155 d.C.
Per approvvigionarsi d'acqua, l'impianto attingeva, presumibilmente ad un braccio secondario dell'Acquedotto Vergine, realizzato da Agrippa nel 19 a.C.. La fullonica (o conceria) possedeva anche un doliarium di 450 mq di superficie, nel quale sono state individuati 44 dolia frammentari.
Accanto alla fullonica è emerso anche un tratto di basolato di 4 metri, pertinente al tracciato viario identificabile con la Collatina antica, di cui non si conoscevano tratti in questa zona. Sono stati individuati, anche, cinque colombari risalenti alla tarda età repubblicana, di cui due sono già stati scavati e ne sono stati tratti due cippi marmorei.
Non potendo conservare in situ l'impianto, gli archeologi lo hanno mappato e smontato pezzo per pezzo in attesa di poterlo ricomporre in un luogo adatto alla sua conservazione ed alla visita del pubblico.

sabato 24 marzo 2012

Agsu, in Azerbaijan, ritorna alla luce

I resti della città di Agsu
Scavi archeologici che si sono sviluppati tra il 2010 e il 2011 ad Agsu, in Azerbaijan, hanno riportato alla luce i resti di un vasto borgo del XVIII secolo, ricco di resti architettonici e di manufatti. Questa scoperta farà parte di una mostra promossa dai locali Beni Culturali.
La città di Agsu era, nel XVIII secolo, un insediamento composto prevalentemente da persone deportate da un'altra città chiamata Shamakhti, distrutto a seguito della conquista di Nadir Shah, che governò come Sha dell'Iran dal 1736 al 1747 circa.
Malgrado la città sia stata, nel corso degli anni, esposta ad attacchi, distruzioni e deportazioni, è rimasta sufficiente traccia della vita che vi si svolgeva e degli abitanti che la animavano. Sono emersi i resti di un castello difensivo rotondo e di abitazioni edificate le une vicino alle altre.
Gli scavi sono stati diretti da archeologi dell'Istituito di Archeologia ed Etnografia dell'Accademia Nazionale delle Scienze dell'Azerbaijan e del Museo Nazionale di Storia di Azerbaijan ed hanno riguardato una vasta area dove sono emerse anche le mura della fortezza di Agsu, linee idriche e fognarie, un complesso di terme, abitazioni, negozi, laboratori di ceramiche, numerosissime monete ed altri materiali che confermano il ruolo centrale che la città svolse sulle rotte del commercio dell'epoca.

La Tomba del Piccolo Principe

La Tomba del Piccolo Principe
Un'equipe di studiosi italiani dell'Università di Roma ha riportato alla luce, nei pressi di Nassiriya, in Iraq, la Tomba del Piccolo Principe, così denominata dalla giovane età del suo occupante e dal prezioso corredo funebre che vi era contenuto. In quest'ultimo erano compresi strumenti di toletta, un vaso di bronzo a forma di nave e perle di cornalina di grande valore.
La campagna della Sapienza è la prima affidata a una spedizione straniera dopo i conflitti del Golfo ed è diretta dall'assiriologo Franco D'Agostino. Si delinea l'esistenza, in questo luogo, di un rilevante insediamento di III millennio a.C.. I ricercatori sono arrivati a questa datazione anche grazie al ritrovamento di cento coppette di ceramica ed a manufatti di bronzo. Sul sito è stato anche ritrovato un sigillo in conchiglia, dalla forma cilindrica, su cui appare la scena di un banchetto simile agli esemplari ritrovati nel Cimitero Reale di Ur.
Anche le perle in cornalina risalgono alla stessa data dei reperti di ceramica e di bronzo e provengono dalla Valle dell'Indo. Analizzando questa sepoltura gli esperti sperano di conoscere meglio le antiche procedure di interramento dei cadaveri che, finora, non sono mai state rivelate dagli scavi mesopotamici.
In una trincea a sud-est è stato individuato un muro in mattoni crudi che pare delimitare un ambiente piuttosto ampio. Probabilmente si tratta di un muro perimetrale risalente al periodo protodinastico.

Il papiro dell'Ave Maria...

Il Papyrus Rylands 470
Nel 1917 un inglese ritrovò un documento che conferma la tradizione cristiana che vuole che la preghiera più antica rivolta alla Madonna sia l'"Ave Maria". Il documento è catalogato come Papyrus Rylands 470.
Questo papiro fa parte di un lotto di papiri recuperato da un esperto di archeologia, paleografia e storia delle religioni dell'Università di Manchester, James Rendel Harris. Non si conosce, però, né il luogo esatto dove il ricercatore ha comprato il Papyrus Rylands 470 né la provenienza dei reperti. Si sa che la raccolta si trovava in terra egiziana fino al termine del primo conflitto mondiale.
L'Università di Manchester fece esaminare il Papyrus Rylands 470 dai suoi esperti che lo datano ad un periodo compreso tra il III ed il IV secolo d.C.. Il professor Colin Henderson Roberts, membro del comitato scientifico della Oxford University, sostenne che il titolo "Madre di Dio" era stato usato per la prima volta da Atanasio, patriarca di Alessandria d'Egitto morto nel 373. Sir Harold idris Bell, papirologo specializzato in reperti egiziani di epoca romana, ritenne che il papiro era un esemplare destinato ad essere usato come modello per un incisore. Ma fu un monaco benedettino a contribuire efficacemente all'identificazione e datazione dell'importante reperto, Feuillien Mercenier, membro di una comunità monastica belga a Chevetogne.
Padre Mercenier si procurò il testo del papiro e la traduzione latina della versione in copto. Essendo un esperto di studi orientali e liturgici, il benedettino non ebbe difficoltà a riconoscere l'antichissima invocazione mariana del "Sub tuum praesidium", la formula più antica dell'"Ave Maria" ora storicamente accertata. L'invocazione si ispira a testi biblici, soprattutto tratti dalla "Bibbia dei Settanta". L'inizio richiama l'immagine dell'ombra delle ali, che ricorda la protezione divina accordata anche da alcune divinità egiziane. Il termine "praesidium" è di origine chiaramente militare e si riferisce ad un luogo ben difeso, un presidio, appunto, all'interno del quale si rifugiavano coloro i quali erano perseguitati a causa della fede. Il che conforta ulteriormente l'appartenenza del frammento di papiro al III secolo d.C., all'epoca delle persecuzioni di Decio e Valeriano, durante le quali furono uccisi molti africani e che si scatenarono nella zona dove fu composto il primitivo testo del "Sub tuum praesidium".
Finora non si conosceva un testo che comprovasse il culto di invocazione alla Vergine per il periodo storico al quale appartiene il Papyrus Rylands 470.

S. Vincenzo al Volturno, una storia più che millenaria

La chiesa di S. Vincenzo al Volturno
Uno squarcio di luce in un periodo piuttosto buio della storia italiana stanno dando le ricerche e le scoperte che gli archeologi vanno facendo nel complesso di San Vincenzo al Volturno, in provincia di Isernia.
Il complesso è databile ad un periodo compreso tra il VII e l'VIII secolo d.C. ed è ricchissimo di bellezze al punto da spingere ad aprire, al suo interno, un sofisticato laboratorio di restauro pittorico, dove gli esperti hanno potuto comodamente analizzare le decine di migliaia di frammenti di affreschi che dovevano, un tempo, decorare le pareti.
L'area in cui si installò l'abbazia di S. Vincenzo al Volturno ha restituito, però, anche testimonianze antecedenti all'arrivo dei monaci benedettini. Sono state, infatti, riportate alla luce un insieme di 25 sepolture di VI-V secolo a.C., probabilmente attribuibili ai Sanniti. Nell'area vicino al fiume Volturno, invece, si era installato un complesso abitativo di II secolo a.C., al quale si sovrappose, in epoca alto medioevale, una chiesa con cimitero annesso (IV-VI secolo d.C.).
Notizie in merito al complesso monastico sono giunte fino a noi attraverso il "Chronicon Vulturnense" (conservato attualmente in Vaticano), compilato, nel 1130, dal monaco Giovanni che aveva attinto a fonti più antiche di quasi duecento anni.
Vincenzo, il martire spagnolo a cui è dedicato il complesso, sarebbe nato a Huesca, avrebbe studiato a Saragozza e sarebbe morto durante le persecuzioni dell'imperatore Diocleziano (303-311 d.C.). Il centro molisano a lui dedicato diventò ben presto il crocevia di interessi politici delicati, durante le lotte tra Franchi e Longobardi per il predominio in Italia.
Il primo impianto di cenobio vide la luce nel 702, quando tre monaci benedettini, provenienti dall'abbazia di Farfa - tali Paldo, Taso e Tato - ricevettero il beneplacito alla fondazione di un luogo di preghiera da parte del potente duca di Benevento, Gisulfo I. Il primo impianto dell'abbazia utilizzò quanto rimaneva delle strutture romane, integrandole con materiali deperibili come legno, fango e frasche. Il primo edificio in muratura era noto come Chiesa Sud, di fattura molto semplice, costruito sull'area cimiteriale tardoromana. In meno di un secolo da allora, sotto gli abati Giosuè ed Epifanio, il complesso si trasformò notevolmente dal punto di vista architettonico e artistico. Sul lato est, che si affacciava sul fiume, vennero installate le cucine del monastero e, accanto ad esse, i cellaria, magazzini dove venivano conservate le derrate alimentari. Sul lato ovest, oltre ad una serie di ambienti non ancora ben identificati, si trovava la basilica di San Vincenzo Maggiore, preceduta da un'area aperta occupata, probabilmente, da altri edifici e da alcune botteghe artigiane. Nel IX secolo S. Vincenzo al Volturno era una vera e propria cittadella, con ben nove chiese, alloggi, refettorio, laboratori artigianali. Non solo, ma vantava anche possedimenti in Abruzzo, nella parte meridionale del Lazio, in Campania, Puglia e Basilicata. Nel 787 Carlo Magno stipulò con i monaci di S. Vincenzo al Volturno un accordo che concedeva a costoro l'autonomia finanziaria ed amministrativa.
Il momento critico, per il grande complesso molisano, si ebbe il 10 ottobre 881. Esaurito il rito collettivo della cena (a base di carne di volatili, pesce di fiume e frutta), all'improvviso irruppero le orde saracene al servizio del duca-vescovo di Napoli Atanasio II. La cittadella monacale cadde rapidamente in mano agli assalitori e fu messo tutto a ferro e fuoco. Pochi monaci scamparono ed i primi a ritornare a S. Vincenzo al Volturno lo avrebbero fatto solo a cento anni dal disastro, nel tentativo di ripristinare l'antico splendore. Gli scavi hanno rivelato che le strutture della basilica furono riedificate ex novo nella parte orientale dell'edificio. La parte occidentale, invece, venne ristrutturata radicalmente. Fu realizzato anche un atrio quadriporticato, detto in latino medioevale paradisus, preceduto da una rampa monumentale, che inglobò parte delle strutture di IX secolo. All'interno del paradisus venne realizzata un'area di sepoltura per parte della comunità monastica di San Vincenzo. Intorno al 1030, sotto l'abate Ilario, si completò la chiesa con un nuovo ciclo di decorazioni pittoriche e si eresse, di fronte alla sua facciata, una struttura composta da tre torri, culminante con una torre campanaria posta in posizione centrale, più alta della stessa chiesa. Questo tipo di costruzioni, dette in latino triturrium e in tedesco westbau, dovevano monumentalizzare la facciata e sono di matrice tipicamente tedesca (si ritrovano anche a Farfa, Subiaco e Montecassino).
Alcuni edifici a nord e sud della grande basilica sono stati datati, dal ritrovamento di alcune ceramiche, all'XI secolo. Uno di questi edifici era decorato da un pavimento in mosaico ed opus sectile ed è stato identificato come una sala capitolare.
Il trasferimento della struttura monastica sulla riva destra del Volturno tra l'XI e gli inizi del XII secolo, determinò la progressiva e completa demolizione degli antichi edifici per poter recuperare materiale costruttivo. Il nuovo monastero fu concepito come complesso fortificato protetto su tre lati da un muro di cinta. La chiesa, che fu consacrata nel 1115, era preceduta da un atrio quadriportico ed affiancata da fabbriche monastiche ora scomparse.
Nel 1699 una bolla di papa Innocenzo XII decretò il passaggio di quel che restava del complesso cenobitico di S. Vincenzo al Volturno all'abbazia di Montecassino.
Tra i ritrovamenti archeologici che segnano la testimonianza delle vicende storiche del complesso di S. Vincenzo al Volturno, compaiono anche le punte di lancia saracena conficcate nel portone d'ingresso al monastero. La cripta del monastero è affrescata con un ciclo pittorico estremamente raffinato, che comprende le scene degli arcangeli menzionati nell'Apocalisse di S. Giovanni e le vivide scene di martirio di alcuni santi come Stefano e Lorenzo. Il ciclo pittorico risale al IX secolo. All'esterno della cripta, nell'area dell'antica cittadella, è stata riportata alla luce una necropoli con oltre 40 tombe in cui sono stati trovati inumati circa cento individui, alcuni dei quali erano, forse, gli abati che hanno retto il complesso monastico.
Alcune piattaforme di legno, rinvenute sul lato della cittadella che dà sul fiume, costituivano una sorta di banchine per l'attracco di imbarcazioni fluviali. Qui pervenivano merci e viveri. La dieta quotidiana dei religiosi è stata ricostruita, invece, indagando gli scarichi delle cucine, dove gli studiosi hanno rinvenuto ossa di uccelli e pesce (cefali, orate, trote ed anche anguille). C'è da ricordare, inoltre, sempre per la "dieta monacale", che S. Vincenzo al Volturno possedeva peschiere situate nlle lagune pugliesi di Siponto e Lesina.

venerdì 23 marzo 2012

Ritornano a "vivere" gli antichi Ercolanesi

La Marina di Ercolano con, in basso, i fornici
Sono stati "clonati" 150 dei 300 scheletri ritrovati nei fornici della marina dell'antica Ercolano. Gli Ercolanesi tentarono, invano, di sfuggire all'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. I loro resti furono scoperti nel 1980. In totale sono stati riprodotti i gruppi di scheletri ritrovati sotto le arcate che servivano da ricoveri per barche e magazzini.
I primi scavi degli arconi sottostanti le Terme di Ercolano e l'area sacra dedicata a Venere iniziarono il 2 luglio 1981, con la liberazione dal fango consolidato dell'arcone III.
Responsabile della clonazione degli antichi Ercolanesi è stato l'archeologo Mario Pagano, attuale responsabile della Soprintendenza archeologica dell'Umbria. I gruppi di individui sono stati ricostruiti servendosi di particolari materiali. Secondo alcune indiscrezioni trapelate dalla Soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei, nella prossima XIV settimana della Cultura (dal 14 al 20 aprile 2012), gli individui clonati dovrebbero essere visibili nei loro ambienti originari.

Domiziano e la camera con vista...

Lo Stadio di Domiziano
Anche Domiziano aveva una "camera con vista" che dominava il suo stadio privato, trecento metri di arena porticata con un sofisticato sistema di volte a cassettoni. Sta per svelarsi la stanza segreta dell'imperatore, la cosiddetta "Sala dei Capitelli", costruita nella seconda metà del I secolo d.C. e ora restituita al suo antico splendore da un complesso restauro della Soprintendenza archeologica di Roma.
La sala non è mai stata visibile al grande pubblico a causa delle sue condizioni di degrado provocate dalle infiltrazioni di acqua e dai frequenti distacchi e crolli. Ora il restauro ha permesso di impermeabilizzare le volte e preservarle da crolli ed infiltrazioni, soprattutto rendendo visibili gli spettacolari cassettoni di rarissima qualità, eseguiti direttamente sulla struttura muraria.
Il restauro, partito nel 2009, ha permesso anche di scoprire parti di decorazioni policrome in cui sono presenti tracce d'oro. La sala prende nome dai colossali capitelli che tuttora custodisce, provenienti dalla Domus Flavia nella quale è inserita. Si trattava sicuramente di un ambiente di rappresentanza direttamente collegato dallo stadio.

martedì 20 marzo 2012

Antiche incisioni in Sudafrica

Il frammento di ocra ritrovato in Sudafrica
Nella grotta del fiume Klasies, in Sudafrica, è stato ritrovato un pezzetto di ocra con una serie di incisioni lineari che gli archeologi ritengono essere la più antica incisione al mondo. Il pezzetto di ocra risale a circa 100.000 anni fa ed era associato a resti umani, quasi certamente è stato inciso da un Homo Sapiens.
Il frammento di ocra misura circa 7 centimetri di lunghezza e contiene una serie di grandi linee incise e diverse. Gli studiosi cercheranno di capire se le incisioni abbiano un valore simbolico. Disegni simili su ocra sono stati rinvenuti nella grotta di Blombos, sempre in Sudafrica, e su frammenti di guscio di uova di struzzo a Diepkloof Rock Shelter.

domenica 18 marzo 2012

La ragazza con la croce d'oro e granati

La croce d'oro e granati ritrovata sul corpo della fanciulla in Inghilterra
Gli archeologi hanno scoperto, nel Cambridgeshire, in Inghilterra, un letto sul quale era adagiato, da ben 1300 anni, il corpo di una giovane donna anglosassone con una croce d'oro tempestata di granati sul petto. Nelle vicinanze sono state ritrovate altre tre sepolture, due di donne più giovani e la terza di una persona anziana di cui non si è ancora potuto stabilire il sesso.
Gli specialisti sono al lavoro sulle ossa dei tre inumati ed hanno potuto stabilire che i resti della sepoltura più importante appartengono ad una fanciulla di circa 16 anni di età, le cui cause di morte non sono state ancora accertate. Certamente la fanciulla era cristiana, dal momento che è stata sepolta con la splendida croce cucita sul vestito da sposa, eppure fu seppellita secondo l'antica tradizione pagana, con tutte le cose che aveva di più preziose: un coltello di ferro, una catena appesa alla cintura e qualche perla di vetro, appartenente in origine, forse, ad una borsa che è andata perduta.
Il ritrovamento è stato effettuato alla periferia di Cambridge, all'interno di quello che si è rivelato come un insediamento anglosassone sconosciuto in precedenza. Potrebbe trattarsi di un ricco insediamento monastico che tuttora giace per gran parte al di sotto di una vicina fattoria e del suo cortile, anche se non sono state trovate tracce di registrazione di una chiesa antecedenti al XII secolo sul posto.
Croci pettorali e deposizioni su letti di legno sono estremamente rare per il cristianesimo degli albori, in Inghilterra. La croce ritrovata sul petto della giovane, in oro e granato, ha un'elevatissima qualità ed è uno degli esempi più sofisticati della lavorazione del metallo presso gli Anglosassoni. Finora ne sono state ritrovate solamente cinque. Pare che la giovane indossasse la croce quando era in vita, lo si è dedotto dalle tracce di sfregamento rinvenute sulle braccia dell'oggetto. Anche il letto di deposizione della defunta poteva essere stato quello comunemente utilizzato in vita dalla ragazza.
Questo ritrovamento contribuisce a gettare nuova luce su un periodo ritenuto, finora, piuttosto buio dagli archeologi.

Rarissima statua in legno di faraone scoperta in Egitto

La statuetta faraonica in legno ritrovata in Egitto
Un team di archeologi canadesi ha riportato alla luce una rarissima statua in legno appartenente ad un faraone in un sito nel sud dell'Egitto. Si pensa che la statua possa raffigurare Hatchepsut, la grande donna faraone vissuta circa 3500 anni fa, cancellata dalla storia dal suo successore e figliastro Thutmosis III.
I ricercatori canadesi sono guidati dall'archeologa Mary-Ann Pouls Wegner, dell'Università di Toronto ed hanno riportato alla luce anche degli edifici religiosi finora sconosciuti ed una notevole quantità di mummie di animali, tra i quali gatti, pecore e cani.
La statua ritrovata era stata scolpita nel legno in alternativa alla pietra, in quanto più leggera e facile da trasportare durante le processioni rituali. Ora si trova, insieme agli altri reperti riemersi durante la campagna di scavo, sotto sorveglianza. L'attribuzione ad una donna della statua è stata basata sulla sottigliezza della vita e sulla modellazione più delicata del mento, attributi che erano generalmente riservati, dagli scultori, a statue con soggetto femminile.

Ritorno in Iraq

Tavoletta cuneiforme da Ur
In Iraq abbondano i reperti di antiche civiltà: Babilonia, Ninive, Ur. Purtroppo le vicende del conflitto del Golfo hanno visto all'opera molti saccheggiatori che hanno depredato questi siti. Ultimamente le spedizioni archeologiche estere hanno ripreso a scavare nel Paese.
Una spedizione archeologica americana, di cui fa parte l'archeologa Elizabeth Stone della Stony Brook University di New York, sta accingendosi ad esplorare i dintorni dell'antichissima città di Ur, precisamente a Nassiriya, alla ricerca di una città di nome Dillo Sakhariya, che, secondo alcuni, sarebbe il luogo di nascita di Abramo. Le foto satellitari suggeriscono che questa città non doveva essere molto grande. Gli scavi hanno portato dapprincipio alla luce un accampamento di pastori che abitarono la regione dopo il 1800 a.C., con ossa di mucca e lische di pesce accanto ai resti di focolari. Le immagini satellitari evidenziano i resti di quella che appariva essere una fortezza, anche. Gli archeologi hanno effettuato dei sondaggi nel terreno ed hanno scoperto che quelle che si credevano delle mura erano solo depressioni ricolme di sale.
Sono state, invece, ritrovate sepolture di neonati ed una piattaforma di oltre 80 metri di diametro, con i bordi di argilla. Tra le scoperte anche delle iscrizioni su dieci mattoni di argilla che suggeriscono che la grande  piattaforma fosse stata utilizzata a scopo cerimoniale intorno al 2000 a.C.. All'epoca Ur era una delle più grandi città del mondo conosciuto, con importanti archivi che custodivano tavolette cuneiformi le quali registravano gli scambi e i commerci.
Per quanto riguarda il luogo appena scavato dagli archeologi americani, si pensa sia Ga'esh, una località dove i sovrani di Ur si recavano annualmente per celebrare una sorta di giubileo volto a rinnovare la loro sovranità.
Gli archeologi americani hanno ora richiesto un nuovo permesso di scavo per indagare nel luogo dove scavò l'archeologo inglese Sir Charles Leonard Woolley, che portò alla luce le tombe reali di Ur (2600 a.C.) tra il 1920 e il 1930. Dal momento che le tecniche di scavo sono state notevolmente perfezionate, dall'epoca, si spera di poter recuperare, grazie alle moderne tecnologie, maggiori informazioni sulla vita delle persone che abitarono questi luoghi agli albori della civiltà.

sabato 17 marzo 2012

La Grotta di S. Giovanni d'Antro e i suoi misteri

Le cappelle della grotta di S. Giovanni d'Antro a Pulfero
La grotta di San Giovanni d'Antro, in Friuli, è un vero e proprio gioiello di storia e di arte antico di millenni e ammantato ancora di molti misteri. La grotta si trova sul versante destro della valle del fiume Natisone, a 348 metri sul livello del mare, nel territorio del comune di Pulfero, non lontano dalla Slovenia. All'interno due cappelle, un altare barocco e un lungo percorso speleologico.
La storia di questa grotta non è stata mai completata e approfondita da alcuno. Alla base di una lunga scalinata di ben 86 gradini, si trova un'incisione che raffigura un reticolo, molto somigliante ad un gioco. Rimanda l'eco di antichi ordini cavallereschi. Né mai alcuno si è soffermato a indagare sul simbolismo dei cerchi cigliati rappresentati negli affreschi di una delle due cappelle.
Tra le cose che si sanno con certezza, vi è quella che qui abitò l'Ursus Splaeus e che, più tardi, vi ebbe sede un antichissimo culto pagano delle acque al quale subentrò il rito cristiano che volle consacrare la grotta a S. Giovanni Battista e a S. Giovanni Evangelista, collegati, entrambi, al passaggio dal paganesimo al cattolicesimo. Un misterioso "mortaio" circolare, scavato nella roccia e visibile nel percorso interno, rimanda ad un fonte battesimale ariano.
All'epoca dei Romani la grotta era una sorta di sentinella delle valli e faceva parte di una serie di fortificazioni poste ai confini della Decima Regio Venetia et Histria. In epoca bizantina, poi, ospitò un ordine monastico tra il 533 e il 568, prima dell'arrivo dei Longobardi che realizzarono la prima cappella che si incontra, entrando, sulla destra, rimasta intatta in più parti e chiamata Santa Maria Antiqua. Per realizzare questa cappella i Longobardi ricorsero a maestranze provenienti dall'Oriente.
Apertura: dalle ore 14.30 alle ore 17.00, dal lunedì al sabato; la domenica dalle ore 10.00 alle ore 12.00 e dalle ore 14.30 alle ore 17.00.
Per visitare il sito fuori orario o per informazioni: Tel. 0432.709065 - 339.7435342
Costo: € 3,00 (che comprende un contributo per il mantenimento del complesso).
Info: www.comune.pulfero.ud.it

Una stele in un campo in provincia di Massa

La testa della statua stele ritrovata in provincia di Massa
A Massa Carrara un contadino che stava arando il suo campo si è imbattuto in una particolare pietra, un frammento di stele di quasi tremila anni fa. La pietra raffigura una tesa con accenno di occhi, naso e bocca tirata appena in un sorriso. Per gli archeologi la pietra è una preziosa testimonianza dei culti diffusi tra i popoli che abitavano questa zona dell'appennino.
La testa era ad una profondità di almeno mezzo metro e potrebbe indicare l'esistenza di un importante giacimento archeologico, pari a quello che, a Groppoli, sempre in provincia di Massa Carrara, fu scoperto tra il 2000 e il 2005. A Groppoli furono dissepolte otto stele, di cui quattro integre, tre senza testa ed un frammento di testa.
La testa fortunosamente rinvenuta dal contadino sembra avere caratteri femminili. Le due coppelle laterali potrebbero alludere ad orecchini. A questa stele, come alle altre rinvenute nelle località limitrofe, è stato assegnato il nome di Venelia, in omaggio all'antica pieve di Santa Maria di Venelia, posta ai piedi del castello di Monti.
La sagoma lunata richiama il pomo del pugnale dell'Età del Rame, pugnale che appare, in orizzontale, in tutte le stele maschili della Lunigiana. In base alle modalità di creazione, gli studiosi hanno per ora datato la stele Venelia IV agli anni compresi tra il 2900/2800 e il 2400 a.C.. La testa andrà a raggiungere le sue "sorelle" nel Museo del Castello del Piagnaro.

La necropoli scoperta dal mare...

La necropoli di Rjich, in Tunisia
Una forte ondata di maltempo abbattutasi sulla Tunisia ha permesso di fare una scoperta interessante, una necropoli di epoca romana, ritenuta di enorme valore archeologico.
La scoperta è stata fatta sulla spiaggia di Rjich, nella regione di Mahdia. Dalla sabbia sono emerse tombe e monete in bronzo, il materiale è stato recuperato dall'Agenzia di protezione del patrimonio e messo a disposizione degli archeologi. Presumibilmente, però, molti dei reperti sono stati asportati dal mare. La scoperta della necropoli è considerata la più importante fatta nella ragione.

giovedì 15 marzo 2012

Una Stonehenge nel Lazio?

I cerchi di pietre del Monte Sambucaro
Il ritrovamento risale allo scorso anno, ma è stato reso pubblico solo in questi giorni. Il fotografo Antonio Nardelli, navigando su Google Map, ha scoperto, alle pendici del Monte Sambucaro, nella zona di San Vittore del Lazio, vicino all'insediamento montano della Radicosa, al confine tra Lazio, Molise e Campania, una curiosa formazione geometrica, artificiale, composta da sette grandi cerchi concentrici.
E' stata necessaria una ricerca sul campo per risolvere l'arcano. I ricercatori, coordinati sempre da Nardelli, hanno individuato i sette cerchi su un dosso del versante laziale del monte, costituiti da massi e pietre di ogni dimensioni ammonticchiati uno sull'altro senza l'utilizzo di malte. Si pensa che il diametro della circonferenza più esterna corrisponderebbe a ben 50 metri.
I sette cerchi non comunicano uno con l'altro ed i solchi tra una circonferenza e l'altra sono piuttosto larghi e profondi circa mezzo metro. Chi ha costruito il manufatto e quando? I pastori che abitano la montagna sanno da sempre dell'esistenza dei cerchi e ne attribuiscono la paternità ai Sanniti, dal momento che su un altro fianco del Monte Sambucaro sono tuttora visibili i resti di massicce mura megalitiche attribuite a questa civiltà.
Forse i cerchi rappresentano antichi centri di culto. Si spera che le future indagini archeologiche possano illuminare ulteriormente la storia e l'origine di questi misteriosi e "nostrani" cerchi di pietre.

Demetra a Taman

La penisola di Taman
Archeologi russi, guidati da Nikolai Sudarev, hanno scoperto, nella penisola di Taman, sul Mar Nero, un tempio dedicato a Demetra, più antico di cinquanta anni rispetto al Partenone. Questo tempio avrebbe ospitato i Misteri Eleusini.
Si tratta di un edificio pubblico realizzato con i soldi della locale comunità o dello stato e che ha visto l'impiego di valenti scalpellini ed altrettanto abili architetti: le pietre sono state tagliate con una precisione tale che tutt'oggi è impossibile inserire tra le fenditure la lama di un coltello. Il ritrovamento di una statua di Demetra che regge sulle spalle la figlia Persefone e quello di un altare non fanno che avvalorare la tesi che il santuario fosse dedicato alla dea della terra e del raccolto.

sabato 10 marzo 2012

Una necropoli vicino la Piramide Cestia?

Da uno scavo nel cantiere di Roma della linea 3 del tram, a due passi dalla Piramide Cestia, sono emersi, alla fine dello scorso febbraio, ossa, crani, pezzi di anfore e tombe. Sono stati anche ritrovati degli scheletri, uno dei quali quasi intatto, con le braccia incrociate sul petto.
Secondo una prima stima, i resti risalirebbero a quelli di una piccola necropoli del I-II secolo d.C.

Il misterioso vangelo di Barnaba e la Bibbia ritrovata

La misteriosa Bibbia turca
Il Vaticano ha chiesto alla Turchia il permesso di esaminare un'antica Bibbia scritta 1500 anni fa. Il manoscritto vale ben 17 milioni di euro ed è stato ritrovato nel sud della Turchia nel 2000. L'opera è stata affidata al Museo etnografico di Ankara. E' scritta su pagine di cuoio in lettere d'oro.
L'antica Bibbia è scritta in aramaico con alfabeto siriaco e sembrerebbe che contenga il controverso Vangelo di Barnaba che, secondo i musulmani, è un vangelo originale soppresso nel corso dei secoli. L'aramaico era la lingua parlata da Gesù e dai suoi discepoli. Le copie più antiche del vangelo di Barnaba risalgono al XVI secolo e sono compilate in italiano e spagnolo, esso contraddice il racconto canonico dei vangeli e presenta un incisivo parallelismo con la visione islamica di Gesù. In esso compare anche la previsione dell'avvento del profeta Maometto da parte di Gesù.
Il vangelo di Barnaba è considerato un vangelo apocrifo. Nel Decretum Gelasianum (fine V secolo d.C.) viene menzionato un apocrifo "Vangelo di Barnaba". Il testo descrive Gesù come un uomo, non Dio, precursore di Maometto e racconta che Giuda Iscariota fu processato e crocifisso al posto di Gesù.
La Bibbia scoperta in Turchia è considerata da molti studiosi, specialmente siriaci, un falso scritto da un ebreo europeo nel medioevo. Un ebreo che doveva avere una certa familiarità con il Corano e i Vangeli. Gli esperti di assiro moderno assicurano che ci sono molti errori. Inoltre chiunque parli l'assiro moderno (noto come neo-aramaico) può facilmente leggere l'iscrizione "Vangelo di Barnaba". L'iscrizione di fondo, poi si leggerebbe, nella traslitterazione moderna come "in nome di nostro Dio, questo libro è scritto dalle mani dei monaci dell'alto monastero a Ninive, nel 1500mo anno di Nostro Signore". Gli esperti affermano che in assiro non ci si riferisce mai alla Bibbia con la parola "libro", ma piuttosto come "Vecchio e Nuovo Testamento" o "Libro sacro".
Da più parti, inoltre, viene riportata la smentita, da parte del Vaticano, circa la richiesta di consultazione della misteriosa Bibbia rinvenuta in Turchia. Anche qui attendiamo ulteriori precisazioni e notizie.

La collina di Giona

Le mura scoperte ad Ashdod
Recentemente, in cima ad una collina in Israele, sono stati scoperti i resti di spesse mura di pietra. Su questa collina, secondo la tradizione, venne sepolto il profeta Giona, il che fa pensare che l'occupazione del sito risale a quasi 3000 anni fa. La località è Giv'at Yonah, la collina di Giona, che sovrasta l'attuale città di Ashdod.
Ebrei, Cristiani e Musulmani narrano che Giona, allontanatosi da Dio in una prima parte della sua vita, andò a predicare nella città assira di Ninive. Fuggito dalla città ed imbarcatosi, incorse in una tempesta che fece naufragare la nave che lo trasportava e Giona fu ingoiato da una balena, nel ventre della quale trascorse tre giorni e tre notti pregando. Queste preghiere gli procurarono il perdono di Dio. In alcune tradizioni, tra le quali quella musulmana, alla sua morte Giona fu seppellito proprio a Giv'at Yonah.
Pur non potendo confermare la presenza della sepoltura di Giona, gli scavi recenti sulla collina di Giv'at Yonah sicuramente confermano l'occupazione del sito durante l'epoca in cui è vissuto il profeta, tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII secolo a.C.. I resti di mura tornate alle luce sarebbero quel che rimane di una fortezza che occupava sicuramente una posizione strategica, affacciata sul Mediterraneo, dove oggi c'è un faro. Probabilmente questa fortezza era, un tempo, occupata dagli Assiri, che governarono questa regione. Negli anni '60 del secolo scorso, uno scavo effettuato nelle vicinanze mise in luce resti simili di mura ed un ostrakon che attestava il dono di soldi, da parte di un certo Ba'altzad, a un luogo sacro.

Un nuovo faraone?

Durante gli scavi nel tempio di Amon Ra, nel complesso templare di Karnak, un gruppo di archeologi franco-egiziani diretti da Christophe Thiers ha scoperto una porta in pietra calcarea importantissima per la comprensione della XVII Dinastia (1634-1543 a.C.), la Dinastia che determinò la cacciata degli Hyksos dall'Egitto.
Il nome del sovrano inciso sulla porta era stato trovato, finora, solo in tre documenti posteriori di uno o due secoli al suo regno. Il nome di questo semisconosciuto faraone è Senakht-en-Ra che, finora, era considerato un faraone di fantasia, dal momento che il suo nome non era stato mai trovato su alcun monumento.
Attendiamo ulteriori notizie sulla misteriosa figura di questo "nuovo" faraone.

venerdì 9 marzo 2012

Un nuovo aspetto degli Etruschi in mostra

L'elmo crestato in esposizione ad Asti
Dal 17 marzo e fino al 15 luglio 2012 a Palazzo Mazzetti ad Asti, sarà possibile visitare la mostra "Gli Etruschi, l'ideale eroico e il vino lucente", curata da Alessandro Mandolesi dei Musei Vaticani e da Maurizio Sannibale, dell'Università di Torino. La mostra si propone di affrontare il tema del rapporto socio-culturale tra gli Etruschi e l'area del Mediterraneo greco-orientale.
Gli Etruschi furono i mediatori di temi, oggetti, iconografie e ritualità eroiche dal mondo greco a quello italico e romano poi. Attraverso gli Etruschi arrivarono in Italia tecniche artigianali come la produzione di ceramiche artistiche, sistemi di produzione agricola come la viticoltura e l'ovicoltura, ma anche simboli religiosi come la barca solare, l'uso della scrittura, i ruoli sociali espressi attraverso l'ostentazione della ricchezza.
La mostra presenterà 300 oggetti, in maggior parte reperti inediti valorizzati attraverso restauri o riletti dopo essere stati "liberati" dai magazzini. Circa 140 di questi reperti provengono dal Museo Gregoriano Etrusco. La prima sezione della mostra riguarderà il rapporto tra gli Etruschi e le popolazioni stanziate nella valle del Tanaro. Esempio ne è un bellissimo elmo crestato villanoviano in bronzo, ritrovato ad Asti alla fine dell'Ottocento, frutto di contatti commerciali e militari tra l'Etruria e l'area celtica dell'Italia nord-occidentale. La seconda sezione analizza i cerimoniali greco-orientali del banchetto e del simposio attraverso servizi ceramici di pregio, arredi e opere pittoriche e scultoree.
Per l'occasione sarà totalmente ricostruita la "Tomba della Scrofa Nera" e sarà ricomposto, per la prima volta dopo la scoperta ottocentesca il sarcofago dei Vipinana da Tuscania, le cui parti erano state smembrate per alimentare il collezionismo antiquario. La terza sezione prende in esame alcune immagini degli Etruschi: teste votive provenienti da santuari, dal bambino in fasce all'anziano, fino a due volti grotteschi usciti dai depositi dei Musei Vaticani.

Info:
visite da martedì a domenica: h. 9.30 - 19.30 (lunedì chiuso)
Tel. 199.75.75.17
www.palazzomazzetti.it
Tel. 02.43353522
e-mail: servizi@civita.it

Sui contenuti della mostra:
Tel. 335.6175139
e-mail: etruschi@fondazionecrasti.it
sito web della mostra: www.etruschiadasti.it

Turchia, gli "inviti" di Antioco I di Commagene...

Turchia, l'iscrizione di Antioco di Commagene (Foto: AA) Un'iscrizione trovata vicino a Kimildagi , nel villaggio di Onevler , in Tu...