domenica 29 maggio 2016

Un auriga d'oro: Gaio Appuleio Diocle

Panem et circenses. Lo sapevano bene i Romani, lo sapeva Giovenale che molto ebbe a scrivere sull'ossessione, tutta romana, dei giochi del circo. Anche gli antichi Romani avevano atleti strapagati, un esempio è Gaio Appuleio Diocle che, secondo il Professor Peter Struck, dell'Università di Chicago, riuscì ad accumulare la stratosferica cifra di 35.863.000 sesterzi in premi in denaro. Una cifra rispettabilissima, equivalente a miliardi di attuali euro.
Ma chi era Gaio Appuleio Diocle? Secondo le fonti era nato in Lusitania (una regione che comprendeva la Spagna e il Portogallo attuali), probabilmente ad Emerita Augusta, nel II secolo d.C.. Iniziò la sua carriera di auriga all'età di circa 18 anni, nella squadra dei bianchi. All'età di 24 anni passò nella squadra dei verdi e a 27 - e fino al suo ritiro, avvenuto all'età di 42 anni - passo in quella dei rossi. La sua carriera durò, pertanto, oltre 24 anni, durante i quali collezionò 1.462 vittorie su 4.257 corse di quadrighe.
La stratosferica - allora come ora - cifra guadagnata da Gaio Appuleio Diocle era frutto solo delle vittorie nelle competizioni e non comprendeva, ovviamente, i benefici che, attualmente, provengono dalla pubblicità e dalle sponsorizzazioni.
Gaio Appuleio Diocle era con tutta probabilità, un illetterato che firmava con quella che attualmente definiremmo "croce". Portò a casa cinque volte i guadagni di un governatore di provincia ben pagato e abbastanza per fornire grano per un anno all'intera città di Roma.

Fonte:
realmofhistory.com

Incantesimi d'amore nell'Egitto del III secolo d.C.

Il papiro che riporta un incantesimo d'amore (Foto: Papyri Project, University of Oxford & Egypt Exploration Society)
Un antico papiro egizio contiene un incantesimo d'amore nel quale si fa appello a diverse divinità per "bruciare il cuore" di una donna, finquando questa non si innamorerà di colui che ha lanciato l'incantesimo. Il papiro è stato decifrato di recente e risale a 1700 anni fa. L'ha decifrato Franco Maltomini, dell'Università degli Studi di Udine.
Un altro incantesimo era, invece, destinato ad un uomo ed utilizza una serie di parole magiche rivolte al maschile. Entrambe le magie non sono indirizzate ad una persona specifica, piuttosto sono state scritte in modo tale che la persona che voleva fare l'incantesimo potesse inserire il nome della persona alla quale era destinato.
I ricercatori fanno risalire il papiro al III secolo d.C.. Gli incantesimi sono stati scritti in greco, una lingua al tempo ampiamente diffusa in Egitto. Il papiro fa riferimento a diverse divinità gnostiche (lo Gnosticismo era un'antica religione che incorporava anche elementi del cristianesimo). Nel papiro si afferma che il mago doveva bruciare una serie di offerte nelle terme (purtroppo non è più leggibile di quali offerte si trattasse) e scrivere un incantesimo sulle mura dell'edificio in questione.
L'incantesimo è stato tradotto da Maltomini in questo modo: "Io vi scongiuro, terra ed acque, per il demone che dimora in voi e (giuro) per la fortuna di questo balneum che come tu bruci e fai ardere la fiamma, così fa bruciare costei (e qui si poteva inserire il nome della donna) partorita da (e qui si inseriva il nome della madre della donna) fino a che non verrà da me." A questo punto l'incantesimo chiama in causa diverse divinità e menziona diverse parole magiche e continua dicendo: "(nome delle divinità) infiammate e bruciate il cuore di lei" e questo fino a che la sventurata non si fosse innamorata della persona che aveva pronunciato l'incantesimo.
L'altro incantesimo, anch'esso decifrato, richiedeva che la persona che lo pronunciava incidesse le parole magiche su una piccola targa di rame. Sul retro del papiro sono state riportate alcune ricette che utilizzavano sterco animale per trattare diversi malesseri, tra i quali il mal di testa e la lebbra.

Fonte:
livescience.com

Antico birrificio cinese...

Imbuto per la birra di 5000 anni fa (Foto: Jiajing Wang)
Il ritrovamento di alcuni manufatti in terracotta rivela che la Cina, oggi maggior produttore di birra al mondo, è anche fra quelli in cui questa bevanda a base di cereali era apprezzata fin dall'antichità.
La scoperta offre la più antica testimonianza della presenza dell'orzo in Cina e suggerisce che proprio il gusto per la bevanda inebriante possa aver fatto sì che si iniziasse a coltivarlo. "Per quel che ne sappiamo, questa è la più antica testimonianza diretta della produzione di birra in Cina", dice la responsabile della ricerca Jiajing Wang, studentessa di dottorato alla Stanford University. "E la scoperta dell'orzo è sorprendente perché non pensavamo di trovarlo in epoca così antica".
Nel 2004 un altro gruppo di archeologi portò alla luce due pozzi sotterranei a Mijiaya, un sito sulle sponde di un affluente del fiume Wei, nella provincia dello Shaanxi. I pozzi, larghi circa 3,5 metri e profondi 2,5, ospitavano vari manufatti in terracotta, tra cui recipienti dall'imboccatura stretta e il fondo a punta. Molti manufatti presentavano dei residui gialli nella superficie interna. Gli archeologi avevano scoperto anche, in entrambi i pozzi, i resti di forni primitivi. Basandosi sul particolare stile dei recipienti, gli studiosi avevano dedotto che risalissero al tardo periodo Yangshao, che dal 3500 al 2900 a.C.
Lacrime di giobbe (Foto: pintamedicea.com)
Quando Wang e il suo team hanno rivisto queste scoperte, pubblicate nel 2012, ne hanno ipotizzato una nuova interpretazione. Basandosi sui reperti, sono giunti alla conclusione che Mijiaya ospitasse uno dei più antichi birrifici dell'umanità, provvisto di strumenti per ogni fase del processo di produzione: recipienti e un forno per la macinazione e la fermentazione, imbuti per filtrare e vasi per contenere il prodotto finito.
Per mettere alla prova questa ipotesi, Wang e il suo team hanno isolato i cereali contenuti nel residuo giallo e li hanno identificati, in base alla struttura degli amidi e dei cereali, confrontandoli in un vasto database. I loro risultati, pubblicati sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences", mostrano tracce di orzo, miglio e lacrime di Giobbe (Coix lacryma-jobi), un cereale tropicale in voga al momento in quanto privo di glutine, assieme ad altri ingredienti come la pianta rampicante Trichosanthes cucumerina, igname e giglio.
Uno dei recipienti analizzati dagli archeologi cinesi (Foto: Jiajing Wang)
"E' una ricetta molto interessante", spiega Wang. "L'orzo proviene dall'Occidente, non è originario della regione; gli altri ingredienti invece si. Quindi questa bevanda era frutto di entrambe le tradizioni, cinese e occidentale". Oltre a conferire alla birra un gusto unico, questi strani ingredienti avevano probabilmente un'altra funzione: quella di aumentarne il contenuto di zuccheri, e di conseguenza il tasso di alcolicità.
Identificare i cereali utilizzati in genere per la produzione della birra non basta a provare in maniera definitiva che questa venisse effettivamente prodotta. Ma una successiva indagine al microscopio ha mostrato che i chicchi erano stati danneggiati: i segni sulla loro superficie sono assolutamente coerenti con le tipiche alterazioni provocate durante il processo di maltizzazione.
Per confermare ulteriormente la scoperta, i ricercatori hanno sottoposto ad analisi chimiche il residuo su alcuni recipienti, scoprendovi un elevato tasso di un ossalato, un sottoprodotto del processo di fermentazione. Inoltre, per assicurarsi che il contenuto dei recipienti non avesse subito contaminazioni, Wang e colleghi hanno esaminato i materiali sulla superficie esterna dei manufatti ed altri frammenti all'interno dei pozzi, trovandovi tracce minime dei cereali e nessun ossalato.
I cinesi hanno iniziato a produrre bevande alcoliche a base di riso già 9000 anni fa, ma questo è il primo ritrovamento di orzo nell'antica Cina, il che indicherebbe che la domanda di birra sia stata alla base dell'arrivo di questo cereale già prima che fosse introdotto nell'agricoltura, circa 3000 anni più tardi. Birrifici simili a quello di Mijiaya, risalenti attorno al 3400 a.C., sono stati scoperti in Egitto e in Iran, il che suggerisce che la conoscenza di questo metodo di produzione abbia accompagnato la diffusione dell'orzo attraverso le rotte commerciali.
I birrifici scoperti in Medio Oriente contenevano a loro volta recipienti simili e forni adatti a produrre una quantità di aria e calore sufficiente a rompere gli enzimi degli amidi, così come contenitori dall'imboccatura stretta che potevano essere sigillati per impedire all'alcol di trasformarsi in aceto.

Fonte:
nationalgeographic.it

Le magnifiche pitture rupestri di Atxurra, in Portogallo

L'archeologo Diego Garate osserva le pitture rupestri di Atxurra
(Foto: Provincial County of Bizkaia)
Nei Paesi Baschi, nel nord della Spagna, sono state scoperte una serie di pitture rupestri preistoriche. Si tratta di una di quelle scoperte eccezionali che avvengono una volta sola in una generazione.
Le pitture raffigurano bisonti, cavalli e capre. La scoperta è stata fatta dall'archeologo Diego Garate ad una profondità di 300 metri nelle grotte Atxurra, a circa 50 chilometri da Bilbao. Le pitture hanno tra i 12.000 e i 14.000 anni e raffigurano scene tradizionali di caccia e la prima rappresentazione rupestre, in Europa, del bisonte.
"Scoperte di questo calibro non si fanno tutti gli anni, al massimo vengono effettuate in un decennio. Si tratta di una scoperta importante per la quantità di dati rappresentati, per l'eccellente stato di conservazione e per la presenza di altri materiali associati come strumenti in carbone e selce", ha affermato Garate. "Senza dubbio è la scoperta più importante della mia carriera", ha aggiunto.
Le grotte Atxurra sono state scoperte nel 1929. La Spagna vanta una serie di importanti pitture rupestri, tra le quali quelle di Altamira, definite la "Cappella Sistina dell'arte paleolitica". Nel mese di marzo 2015 sono state scoperte più di 20.000 pitture rupestri in Cantabria, nel nord della Spagna. 

Fonte:
The Local

Croazia, scoperta per caso una necropoli romana

Una delle sepolture rinvenute negli scavi (Foto: Museo di Trogir)
A Trogir, in Croazia, durante alcuni lavori edili sono stati fatti importanti ritrovamenti archeologici. Si tratta di urne romane, emerse durante la costruzione di un parcheggio nella zona di Put Dragulina, lungo una strada che ricalca il percorso dell'antica strada romana che conduceva nell'entroterra di Trogir.
Alcune delle tombe sono state danneggiate dagli scavi per la costruzione del parcheggio, ma il tempestivo intervento delle autorità ha permesso l'arresto dei lavori e il recupero di quattro urne in pietra e diverse lapidi intatte. In una delle urne è stato rinvenuto un balsamario in vetro mentre un ago in bronzo è stato recuperato tra le ossa deposte in una seconda urna. Purtroppo il materiale distrutto nello scavo del parcheggio è stato portato in una discarica.
Olle funebri e altri resti di sepolture (Foto: Museo di Trogir)
Gli archeologi pensano che vi siano molte tombe in questo sito. Al momento sono state individuate altre tre sepolture in urne in pietra e la copertura di una tomba danneggiata. Finora sono state repertate 18 sepolture, ma sicuramente ce ne sono altre che devono ancora essere scoperte.
Si tratta di un ritrovamento eccezionalmente raro per la zona di Trogir. Il materiale trovato è stato attribuito, ad un primo esame, al I secolo d.C.. Dal momento che è ancora in corso l'esplorazione della necropoli occidentale della Tragurium romana, questa scoperta potrebbe fornire ulteriori informazioni sui rituali di sepoltura romana e una panoramica delle relazioni familiari e della struttura sociale dell'epoca. Le prime indagini mostrano che in questa zona vennero sepolti i membri più in vista della locale comunità.

Fonte:
total-croatia-news.com

Sattjeni: madre, figlia e moglie di nobili

Il sarcofago di Settjeni (Foto: Ministero delle Antichità egiziano)
Gli archeologi spagnoli hanno scoperto, nella necropoli di Qubbet el-Hawa, ad ovest di Assuan, la sepoltura di una donna di nome Sattjeni che, in vita, doveva ricoprire un importante ruolo sociale. Gli archeologi dell'Università di Jaén stanno lavorando sul sito dal 2008 e da allora hanno portato alla luce diverse sepolture intatte, risalenti a diverse epoche.
Sattjeni doveva essere una donna di una certa importanza, al tempo in cui visse. Venne sepolta in due bare di legno ed un'iscrizione ha consentito agli archeologi, guidati da Alejandro Jiménez-Serrano, di conoscere il suo nome. Sattjeni viene citata come madre, figlia e moglie di grandi governatori. La sua famiglia prestò servizio durante il periodo di Amenemhat III (1800-1775 a.C.).
Sattjeni era figlia del principe Sambhut II e madre di Heqa-Ib III e Amaeny-Senb, due delle più alte autorità di Elefantina sotto il regno di Amenemhat III. Il corpo della donna era avvolto nel lino e il legno dei suoi due sarcofagi era cedro del Libano. Il volto di Sattjeni era ancora coperto dalla maschera funeraria in cartonnage. Il sarcofago interno è stato trovato in buone condizioni di conservazione e questo ha permesso la sua datazione. La defunta giaceva nella posizione in cui fu deposta quando morì, con alcuni resti del rivestimento originario. Il corpo è anch'esso in ottime condizioni di conservazione, il che permetterà di effettuare le analisi che potranno fornire informazioni sull'età, le patologie, le abitudini di vita della donna.
L'epoca in cui regnò Amenemhat III fu una delle più importanti nella storia dell'antico Egitto. Il faraone fu un grande costruttore di piramidi ed un brillante capo militare. Realizzò, tra le altre cose, anche la costruzione del canale che collegava la depressione del Fayum con il Nilo, lungo 16 chilometri. Durante il suo regno sembra che anche le donne, al pari di Sattjeni, potevano ambire a ricoprire ruoli di prestigio nella corte faraonica. La figlia di Amenemhat III, Nefrusobek, divenne, infatti, faraone d'Egitto. Il suo nome, legato al dio coccodrillo Sobek, significa "colei che mostra la bellezza di Sobek".
Nel 2014 la missione spagnola a Qubbet el-Hawa, guidata sempre dal Dottor Alejandro Jiménez-Serrano, ha scoperto la sepoltura del figlio di Sattjeni, Hekaib III, che in vita aveva ricoperto il ruolo di governatore di Elefantina e sacerdote di Khnum. All'interno della sepoltura è stato trovato un sarcofago dipinto e i resti della maschera della mummia. Tra le scoperte più importanti della missione archeologica spagnola vi è quella dei resti di una donna, vissuta durante al VI Dinastia (2200 a.C. circa) che reca tracce di cancro al seno.
L'obiettivo che si sono posti gli archeologi spagnoli è quello di ricostruire la vita e i rituali funerari dei governatori di Elefantina. La necropoli di Qubbet el-Hawa custodisce ancora molti tesori che attendono di essere scoperti.

Fonti:
ujaen.es/investiga/qubbetelhawa
degruyter.com/dg/viewarticle.fullcontentlink:pdfeventlink/$002fj$002fzaes.2015.142.issue-2$002fzaes-2015-0013$002fzaes-2015-0013.pdf?t:ac=j$002fzaes.2015.142.issue-2$002fzaes-2015-0013$002fzaes-2015-0013.xml

La Signora di Cao sotto analisi

Come doveva apparire la Signora di Cao
Una delegazione di ricercatori della Harvard University è andata in Perù per prelevare campioni di Dna dai resti mummificati della Signora di Cao, una potente regina della cultura Moche. Il Dna sarà confrontato con quello delle altre persone sepolte con lei, probabilmente vittime di un sacrificio umano collettivo, allo scopo di determinare se queste fossero, e se si in che modo, legate alla regina. Il corteo funebre è composto da cinque persone in tutto e si spera che i risultati delle analisi possano essere disponibili alla fine del 2016 o agli inizi del 2017.
I resti di una delle persone sepolte con la Signora di Cao appartenevano ad un bambino, i corredi con i quali furono sepolti tutti indicano che la regina era realmente la governante del suo popolo. La sepoltura conteneva anelli nasali, bastoni cerimoniali, acconciature e vari altri simboli di status e ricchezza. La Signora di Cao venne sepolta a Huaca El Brujo (Luogo Sacro della Lucertola) nella capitale dei Mocha che si affaccia sulla costa settentrionale del Perù.
Nella città le due piramidi chiamate Huaca del Sol e Huaca de la Luna avevano, un tempo, funzioni sociali e religiose per la popolazione della zona. La Signora di Cao morì 1500 anni fa, probabilmente per complicazioni dovute al parto. I Moche non mummificavano i loro defunti, ma le circostanze in cui venne sepolta la Signora di Cao, il clima e il luogo di sepoltura, ne hanno conservato non solo i resti ma anche i tatuaggi impressi sulla pelle. Gli studiosi non ritengono che i Moche fossero tatuati ma, probabilmente, i tatuaggi servivano a distinguere i membri dello strato sociale più elevato della popolazione, rafforzavano, simbolicamente, il collegamento tra costoro e le divinità.
Resti mummificati della Signora di Cao
(Foto: ethnicjewelsmagazine.com)
Il ritrovamento della Signora di Cao ha indotto gli archeologi a rivedere in parte il loro modello maschio-centrico della struttura politica Moche. Il ritrovamento di altre otto regine Moche ha rafforzato la convinzione che non era un caso che le donne nobili di questa cultura potessero ambire allo scranno reale. La maggior parte delle scoperte è stata fatta in questi ultimi dieci anni.
La cultura Moche fiorì tra i 200 e il 600 d.C. sulla costa settentrionale del Perù e divenne ben presto una civiltà potente e rispettata. Si trattava di una cultura votata all'arte, all'agricoltura e alla lavorazione dei metalli. I ricercatori non hanno, finora, trovato alcun esempio di scrittura. I Moche costruirono piramidi composte da milioni di mattoni di fango e crearono una vasta rete di condotti idrici che permetteva di portare acqua ai loro campi. Furono pionieri nelle tecniche di lavorazione dei metalli quali la doratura e la saldatura. La mancanza di testi scritti, però, non ha permesso di aggiungere altro alla conoscenza di questa misteriosa cultura, soprattutto per quel che riguarda le loro credenze religiose ed i loro costumi.
La scoperta di dettagliati dipinti su ceramica e su pareti di templi, tuttavia, ha dato un parziale contributo sulla cultura e le credenze Moche. Il sito di Huaca de la Luna è famoso per un enorme murale che ritrae vivaci scene di sacrifici umani e di guerra unitamente a scene di caccia e pesca.

Fonte:
ancient-origins.net

Gerusalemme, il misterioso tunnel di Ezechia

La sorgente di Gihon (Foto: biblepaces.com)
Il tunnel di Ezechia, o tunnel di Siloe, era, un tempo, parte dell'eccezionale sistema idrico di Gerusalemme. Venne costruito durante l'Età del Ferro (fine VIII secolo a.C.) e tuttora è considerato uno dei tesori architettonici della città. Venne menzionato anche nella Bibbia, che afferma che a farlo realizzare fu re Ezechia di Giuda (2 Cronache 32, 2-4; 2 Re 20,20), che stava preparandosi a difendere Gerusalemme dall'attacco del re assiro Sennacherib.
Il tunnel è di circa 530 metri di lunghezza, il che lo rende, forse, il tunnel più lungo costruito nell'antichità. Quello di Euphalios, in Grecia, è lungo 335 metri. Serviva a fornire di acqua tutta Gerusalemme ed era noto persino in Egitto. Ezechia temeva che gli Assiri avrebbero stretto Gerusalemme in un lungo assedio e che i suoi cittadini avrebbero finito per morire di sete. Così fece scavare una serie di gallerie per evitare che ciò accadesse. Il tunnel collega la sorgente di Gihon con la piscina di Siloe.
Il tunnel di Ezechia (Foto: Daniel Wong)
La sorgente di Gihon, una sorgente di origine carsica il cui nome significa "sgorga", era anche chiamata la Fontana della Vergine e per secoli fornì l'acqua a Gerusalemme. Si trova in una grotta nei pressi della Valle del Cedron e si stima potesse fornire acqua per 2500 abitanti. La piscina di Siloe è stata scavata nella roccia nella parte meridionale delle Gerusalemme vecchia. Nel corso dei secoli è stata alimentata grazie a due acquedotti.
Il tunnel di Ezechia è stato utilizzato dagli abitanti di Gerusalemme per molti anni. Non si sa ancora di preciso quando ha smesso di fornire acqua alla città. Venne descritto per la prima volta in un testo moderno nel 1625, dallo scrittore e orientalista italiano Francesco Quaresmius, che aveva visitato la città.
Nel XIX secolo il tunnel è stato esplorato dal biblista americano Edward Robinson. Nel 1865 l'ufficiale britannico Charles Warren lo esplorò a sua volta, ma nessuno di loro riuscì a dare una descrizione dettagliata del sito. Warren credeva che fosse legato alla storia della piscina di Siloe che, forse, venne anch'essa scavata per ordine di re Ezechia.
Nel 1884 venne scoperta l'iscrizione della piscina di Siloe e questo ha portato ad approfondire meglio la storia della struttura. La piscina era parte della struttura del Tempio di Gerusalemme. Vi erano piscine inferiori e superiori, a Siloe, per cui il complesso, in passato, doveva essere molto più grande. La piscina tuttora esistente si trova accanto a quella ricostruita durante il periodo bizantino.
La cosiddetta piscina di Siloe ha forma trapezoidale e mostra dalle tre alle cinque fasi di ristrutturazione. Nello scavo gli archeologi hanno rinvenuto monete del periodo della prima guerra giudaica (66-70 d.C.) che suggeriscono che la piscina fu in funzione per almeno otto secoli. L'iscrizione trovata in situ è stata datata al 701 a.C. ed è stata scolpita su una lastra di pietra di 1,32 metri di larghezza e 0,21 metri di altezza. Essa riporta le fasi finali e le misure della costruzione, ma non menziona né re Ezechia né Sennacherib.
La piscina di Siloe
In base alla tipologia di roccia del tunnel di Gerusalemme, i geologi Amihai Sneh, Eyal Shalev e Ram Winberger pensano che il tunnel sia stato scavato in quattro anni. Il che stride con la tradizione che vuole Gerusalemme sotto assedio o in procinto di esserlo, quando il tunnel venne realizzato, anche se la Bibbia non specifica il tempo intercorso tra la minaccia portata dagli Assiri e l'assedio vero e proprio.
I ricercatori stanno ancora discutendo sulla datazione del tunnel che alimentava la piscina di Siloe. Ronny Reich ed Eli Shukron sostengono che la costruzione potrebbe essere anteriore a quanto si è creduto finora, forse nei primi anni del IX-VIII secolo a.C.. Gli stessi studiosi sono convinti che il punto di partenza del tunnel di Ezechia si trova nei pressi della sala rotonda della piscina scavata nella roccia, dove sbocca un altro tunnel, il tunnel IV. Qui è presente una particolarità: una parete spianata come per contenere un'iscrizione. La somiglianza tra questa parete e l'iscrizione trovata nella piscina di Siloe supporta, secondo gli studiosi, l'ipotesi che proprio qui iniziasse il cosiddetto tunnel di Ezechia. Tunnel la cui fine sarebbe stata contrassegnata dal luogo dove è stata trovata l'iscrizione di Siloe.
Una casa è stata costruita, inoltre, sulle macerie che hanno riempito, nel tempo, l'ingresso al tunnel IV. Parte della ceramica trovata tra le macerie è stata datata al IX-VIII secolo a.C., datazione antecedente, appunto, a quella in cui re Ezechia governava Gerusalemme.
Il tunnel resta, comunque, una delle attrattive più misteriose di Gerusalemme ed uno dei più antichi sistemi di approvvigionamento idrico. Archeologi e studiosi continuano a cercare risposte alle domande sulle origini e la storia del misterioso tunnel, ma avrebbero necessità di scavare di più nelle fondamenta di Gerusalemme.


Fonti:
biblicalarchaeology.org
coastdaylight.com/hez1.html
bibleplaces.com/heztunnel

giovedì 26 maggio 2016

Bologna, trovato un crocefisso medioevale

Il crocefisso trovato a Santa Maria Maggiore, Bologna
(Foto: ilrestodelcarlino.it)
(Fonte: Il Resto del Carlino) - La croce lapidea monumentale rinvenuta a Santa Maria Maggiore a Bologna è sicuramente la più antica tra tutte quelle datate di età medievale mai recuperate in città. “È un ritrovamento di notevolissimo valore”, ammette Roberta Budriesi, già ordinario a Bologna di Archeologia cristiana e medievale, e socio corrispondente della Pontificia accademia romana di archeologia che da tempo studia la storia della più antica chiesa mariana di Bologna.
Nel 2013 la chiesa era chiusa per i lavori di restauro del portico a causa dei danni causati dal sisma dell’anno prima. “Durante quei primi lavori – racconta Budriesi – all’altezza del secondo pilastro del porticato, subito sotto il pavimento, è stata trovata questa grande croce latina”. Lunga 95 centimetri e larga 77, con uno spessore di 15 centimetri, raffigura sul davanti il Cristo in croce con gli occhi profilati e sovrastato da un grande rosone, mentre sul retro ha un motivo fitomorfo. Ma soprattutto, sullo spessore di un lato, è inciso l’anno di realizzazione che rende la sua datazione certa: 1143.
"Il parroco don Rino Magnani me l’ha mostrata – continua la professoressa – È stata trovata così com’è, sdraiata con il Redentore rivolto verso l’alto appena sotto il pavimento. La croce è spezzata in più parti, certe rotture sono più datate di altre e purtroppo manca buona parte del viso e dei piedi. Ma rappresenta un importante simbolo di Bologna che nel Medioevo era contraddistinta da torri, ma anche da croci”. Le croci monumentali, sorrette da alte colonne, venivano posizionate come punti di adorazione nei pressi di trivi, quadrivi o basiliche e spesso erano inserite in edicole, “com’erano quelle oggi conservate in San Petronio – continua Budriesi – Quelle con la data impressa sono pochissime e tra tutte quelle medievali datate rinvenute in città questa è la più antica, oltre a essere di ottima fattura”. Di particolare pregio, infatti, la raffigurazione del Cristo, “non sempre prevista nelle croci monumentali dove, a volte, si trovano incisi solo motivi fitomorfi – continua – Ma soprattutto siamo certi che questa croce fosse installata qui, in via Galliera (era il cardo maior della pianta romana di Bologna, mentre il decumano massimo via Rizzoli-Bassi, ndr), perché Pietro da Villola ne dà conto nella sua cronaca trecentesche, là dove correva il torrente Aposa”.
All’epoca Santa Maria Maggiore era un monastero benedettino femminile e al momento non è chiaro chi abbia commissionato quella croce, chi l’abbia realizzata, quanto sia rimasta esposta nella sua collocazione d’origine e perché alla fine venne seppellita anziché distrutta. “C’è ancora molto da indagare e il restauro del manufatto è tutto da fare – spiega – Sarà importante capire, ad esempio, da dove viene il materiale usato che appare calcareo. Le croci monumentali vennero distrutte nel periodo napoleonico. Questa fu realizzata appena due anni dopo il ritrovamento del corpo di Petronio, in un momento storico di particolare sintonia tra Chiesa e Comune”. Tanti ancora i punti da chiarire, quindi, in questa vicenda che ora necessita di un intervento di restauro. “Speriamo di trovare quelche sponsor – auspica don Rino – il sogno sarebbe poterla esporre qui dove è sempre stata”.

Il Dna dei Fenici e Ariche

La ricostruzione del "Giovane di Byrsa" o "Ariche" (Foto: Adnkronos)
(Fonte: Adnkronos) - Un antichissimo popolo di commercianti e viaggiatori inizia a rivelare i suoi più intimi segreti, grazie alla medicina moderna. Un team di scienziati guidato da Lisa Matisoo-Smith, dell'Università di Otago in Nuova Zelanda, ha sequenziato il primo genoma mitocondriale completo di un fenicio di 2500 anni fa, soprannominato il "Giovane di Byrsa" o "Ariche".
Questo è il primo Dna antico ottenuto esaminando resti fenici, sottolineano gli scienziati, e l'analisi del team dimostra che l'uomo apparteneva a un raro aplogruppo europeo - un gruppo genetico con un antenato comune - cosa che probabilmente collega la sua discendenza materna ai centri collocati da qualche parte sulla costa del Mediterraneo, molto probabilmente nella penisola iberica.
Secondo Matisoo-Smith, del Dipartimento di Anatomia, i risultati forniscono la prima prova della presenza dell'aplogruppo mitocondriale U5b2cl europeo in Nord Africa e datano il suo arrivo almeno al tardo VI secolo a.C.. Questo "è considerato uno dei più antichi aplogruppi in Europa ed è associato con le popolazioni di cacciatori-raccoglitori. E' straordinariamente raro nelle popolazioni moderne: oggi si trova in Europa con una frequenza inferiore all'1%", dice l'esperta. Inoltre l'analisi mostra che "il make up genetico mitocondriale di Ariche si avvicina a quello dei moderni abitanti del Portogallo", prosegue Matisoo-Smith.
Si pensa che i Fenici abbiano avuto origine dalla zona che ora è il Libano, e la loro influenza è arrivata attraverso il Mediterraneo a ovest della penisola iberica, dove questi mercanti avevano stabilito insediamenti e stazioni commerciali. La città di Cartagine in Tunisia era un un porto fenicio, chiave per i commerci. I ricercatori hanno analizzato il Dna mitocondriale di 47 libanesi moderni e non hanno trovato tracce del lignaggio U5b2cl. Precedenti ricerche le avevano individuate, invece, in due antichi cacciatori-raccoglitori in un sito archeologico nel nordovest della Spagna.
"Un'ondata di popoli dal Vicino Oriente ha sostituito questi cacciatori-raccoglitori, ma alcuni dei loro lignaggi potrebbero aver resistito nella penisola iberica e sulle isole", finendo a Cartagine, "tramite la rete commerciale fenicia". La cultura fenicia e il commercio hanno avuto un impatto significativo sulla civiltà occidentale. Ad esempio, questo popolo ha introdotto il primo sistema di scrittura alfabetica.
"Sappiamo ancora poco sui Fenici stessi, fatta eccezione per le fonti di parte e sui testi dei rivali romani e greci. Si spera i nostri risultati e altre attività di ricerca gettino ulteriore luce sulle origini, l'impatto dei popoli fenici e la loro cultura", conclude l'esperta.

Trovata la sepoltura di Aristotele?

Aristotele (Foto: Adnkronos)
(Fonte: Adnkronos) - E' stata scoperta durante una campagna di scavi a Stagira quella che potrebbe essere la tomba di Aristotele, il celebre filosofo greco padre del pensiero moderno. L'annuncio è stato dato oggi nel corso di un convegno a Salonicco dallo stesso autore della scoperta, l'archeologo greco Kostas Sismanides. La tomba è situata negli scavi archeologici dell'antica città di Stagira, nella parte orientale della penisola Calcidica vicino a Olympia, ed è un edificio a forma di ferro di cavallo.
"Ci sono forti indizi che indicano che abbiamo trovato la tomba del grande filosofo", ha dichiarato Sismanides alla tv di Stato Ert. Secondo l'archeologo, il popolo di Stagira avrebbe riportato le ceneri di Aristotele, morto a Calcide nel 322 a.C., nella sua città natale, seppellendole proprio nell'edificio che è stato ritrovato. Secondo quanto ha riferito Ert, Sismanides dirige la campagna di scavi a Stagira fin dal 1996.

mercoledì 25 maggio 2016

Le meraviglie della chiesa di San Raffaele a Dongola

L'interno della chiesa dell'Arcangelo Raffaele a Dongola
(Foto: M. Rekljtis, Università di Varsavia)
La missione archeologica dell'Università di Varsavia ha scoperto il numero più grande di affreschi dell'VIII-IX secolo d.C. all'interno della chiesa di San Raffaele, che si trova nel complesso reale di Dongola, nel Sudan settentrionale. La chiesa sorge accanto ai resti di un palazzo medioevale.
Dongola era la capitale del potente regno di Makuria, che governò dal VI al XIV secolo l'area compresa tra la I e la V cateratta del Nilo. La potenza di questo regno è particolarmente esaltata dal fatto che l'esercito di Makuria fermò l'invasione musulmana nel VII secolo d.C.. La chiesa dedicata all'arcangelo Raffaele venne scoperta nel 2006. Lo studio della sua struttura è stato fondamentale per i ricercatori. Solamente nel 2015 è stata predisposta una copertura che ha permesso di iniziare scavi più approfonditi del complesso religioso.
Gli affreschi ritrovati raffigurano arcangeli, angeli, sacerdoti e santi del regno Nubiano a partire dal IX secolo. Originariamente ciascuna figura aveva una sorta di iscrizione che ne descriveva la funzione. Il Professor Wlodzimierz Godlewski, dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Varsavia che lavora da lungo tempo da Dongola, ha attirato l'attenzione su una delle iscrizioni scoperte sul muro del battistero della chiesa di San Raffaele.
L'iscrizione riporta l'incontro dei vescovi del regno di Makuria con il re e l'arcivescovo di Dongola, che ebbe luogo proprio nella chiesa di San Raffaele. Quest'iscrizione sottintende, a detta dello studioso polacco, la divisione territoriale dell'autorità ecclesiastica del regno di Makuria. Alla riunione menzionata dall'iscrizione parteciparono il vescovo di Faras, una località dove, diversi decenni fa, un'altra spedizione archeologica polacca ha scoperto una chiesa con dipinti, alcuni dei quali si trovano, oggi, nel Museo Nazionale di Varsavia.
La chiesa di Dongola fu voluta e fatta realizzare da re Joannes, del quale, fino ad oggi, non si sapeva molto. L'iscrizione ne parla come di una persona molto importante all'interno della gerarchia ecclesiastica locale, un uomo che aveva anche una notevole influenza politica.
Un'altra importante scoperta fatta dalla missione archeologica polacca e la più antica immagine regale conosciuta di un re della dinastia Makuria fatta in una chiesa. L'affresco si trova nell'abside della chiesa di Dongola. Gli affreschi della chiesa sono stati fatti su intonaco di calce liscia. Gli artisti hanno utilizzato diversi pigmenti costosi, tra gli altri i lapislazzuli, utilizzati per il colore blu, cavati dagli affioramenti rocciosi che sono molto distanti dal luogo in cui sorgeva la chiesa.
Tra i ritrovamenti più interessanti vi è anche un pulpito costituito da blocchi di granito asportati da un tempio di età faraonica. Ancora oggi sono visibili le iscrizioni geroglifiche che decoravano i blocchi. Altro importante ritrovamento è il frammento di un'icona su legno, il primo del genere scoperto nel Sudan. L'icona ha una doppia rappresentazione, una su ogni lato. Da una parte vi è l'immagine della Vergine con una preghiera e dall'altra la raffigurazione di un governante locale. L'oggetto risale al periodo d'oro del regno di Makuria, tra l'VIII e il IX secolo d.C.

La misteriosa sepoltura di Givat Hamivtar, a Gerusalemme

L'ossario di Abba (Foto: Wikimedia Commons)
La grotta di Abba è conosciuta per essere la sepoltura dei resti di una persona che sembra essere stata crocifissa. La grotta si trova nel quartiere di Givat Hamivtar, alla periferia nord di Gerusalemme. Il nome le deriva dalla scritta in aramaico rinvenuta sul muro della sepoltura. La scritta recita: "Sono Abba, figlio del sacerdote Eleazar. Sono Abba l'oppresso, il perseguitato, nato a Gerusalemme ed esiliato a Babilonia, (colui) che ha riportato Mattathiah figlio di Giuda, sepolto nella grotta che ho acquistato". Molte sono le domande, ancora senza risposta, che aleggiano intorno a questa sepoltura.
Innanzitutto è interessante notare che la grotta di Abba non è distante da un'altra sepoltura, più famosa, quella scavata nel 1968 anch'essa a Givat Hamivtar, che conteneva le ossa di uomo crocifisso nel I secolo d.C., di nome Yehohanan.
La grotta di Abba venne scoperta negli anni '70 del secolo scorso, quando alcuni operai erano intenti a edificare una casa privata. L'esplorazione della grotta portò alla scoperta di due camere, all'interno di una delle quali venne trovato un ossario riccamente decorato. L'ossario era in calcare ed era una sepoltura secondaria per le ossa di un defunto.
L'iscrizione nella grotta di Abba (Foto: Wikimedia Commons)
La grotta è stata datata al I secolo a.C.. All'epoca la pratica rituale era quella di raccogliere in un ossario le ossa dei defunti al termine dell'anno di sepoltura. L'identificazione del defunto è stata determinata dall'iscrizione in aramaico trovata sulle pareti della grotta. Abba, il defunto, era figlio di Eleazar, un sacerdote e nipote di Aaron, un sommo sacerdote.
Abba nacque a Gerusalemme e venne mandato in esilio a Babilonia. Quando tornò nella sua città natale, portò con sé un uomo (o i resti di quest'ultimo, forse) di nome Mattathiah, figlio di Giuda, che "fu sepolto nella grotta che ho acquistato", riporta l'iscrizione, vale a dire nella grotta di Abba.
Il nome Mattathiah ha stimolato la curiosità dei ricercatori. Nelle prime indagini, svoltesi nel corso del 1970, Mattathiah è stato identificato come Antigono II Mattathias, ultimo re della dinastia degli Asmonei, la famiglia reale ebraica che governò dopo la cacciata dei Seleucidi in seguito alla rivolta dei Maccabei. Secondo le fonti letterarie antiche, Antigono venne catturato da Marco Antonio e in seguito condannato alla crocifissione ed alla decapitazione nel 37 a.C..
Antigono II Mattathhiah
Le prime analisi del contenuto dell'ossario rinvenuto all'interno della grotta di Abba, ha indotto gli studiosi ad affermare che quest'ultimo conteneva i resti di Antigono. L'ossario è uno dei più belli e decorati tra quelli ritrovati finora e questo porta a credere che i resti che vi sono contenuti appartengono ad una persona di una certa importanza, forse un re, come lo era, in effetti, Antigono. Le analisi preliminari delle ossa hanno stabilito che appartenevano ad un uomo di circa 25 anni, età coerente con quella che aveva Antigono al momento della morte. Inoltre sono stati trovati, sulle ossa stesse, segni di crocifissione e decapitazione. L'ossario, poi, era stato ben nascosto all'interno di una nicchia nel pavimento della grotta, segno che la sepoltura era stata fatta in segreto, per evitare che venisse trovata da parte dei sostenitori del regime che, all'epoca, governava il Paese, nemico degli Asmonei.
Il caso venne chiuso e tale rimase per molti anni. Fino al 2013, per la precisione, quando Yoel Elitzur, storico della Hebrew University e studioso di lingue semitiche, pubblicò uno studio che individuò in Abba il capo di una famiglia sostenitrice degli Asmonei anche all'indomani dell'ascesa al trono di Erode il Grande. Un altro esperto, Isarel Hershkovitz, antropologo dell'Università di Tel Aviv, ha riesaminato il contenuto dell'ossario ed ha scoperto che effettivamente era penetrato un chiodo nelle mani dell'individuo che vi era sepolto. Il chiodo era stato inserito nel palmo della mano e poi era stato piegato per mantenere le braccia sulla traversa della croce. Questo rafforza l'ipotesi che le ossa appartengano ad uomo, dal momento che i Romani non hanno mai crocifisso delle donne.
La sepoltura della grotta di Abba continua a rimanere un enigma, per gli archeologi. Per molto tempo questa sepoltura è stata dimenticata tra la raffica dei ritrovamenti archeologici avvenuti intorno Gerusalemme. Recentemente il Dottor James Tabor, docente di giudaismo e cristianesimo primitivo all'Università del North Carolina, ha trattato il "problema" sul suo blog, sollevando alcune questioni che potrebbero indurre gli studiosi a tornare sull'ossario della grotta di Abba per indagini più approfondite.

domenica 15 maggio 2016

Tutte le vite dell'antica Rhegion

Scavi a Reggio Calabria, vicino le mura greche: resti di un podio
(Foto: La Stampa)
(Fonte: La Stampa) - Doveva sorgere un banale parcheggio interrato, invece in quell'area è stato scoperto un tesoro di 1900 anni fa. I resti di una città rimasta sotterranea e sconosciuta per secoli. Vestigia misteriose di una tra le tante civiltà che hanno partecipato alla costruzione della storia di Reggio Calabria.
Gli ultimi scavi hanno fatto affiorare diversi reperti archeologici di età romana, a pochi metri da quelle mura greche che ricordano il passato ancora più remoto dell'antica Reghion. Gli uomini dimenticano, la terra ricorda. E conserva.
A diversi metri dalla superficie, i tecnici hanno trovato il podio di un edificio romano che potrebbe essere stato un monumento funerario o un tempio. Gli esperti del ministero dei Beni culturali non hanno ancora sciolto il dubbio. Ma hanno comunque colto al volo l'importanza della scoperta e disposto quattro saggi esplorativi al fine di fare una mappatura completa di tutti i resti presenti nel sottosuolo. Il parcheggio può attendere. Perché adesso Comune e Mibact hanno intenzione di valorizzare appieno i reperti venuti alla luce. Il primo passo sarà quello di proseguire le indagini archeologiche, che potrebbero far affiorare altri segni della storia; il secondo riguarda la progettazione di "un ambizioso piano di musealizzazione, valorizzazione e fruizione in situ di quanto emerso", come spiegato in una nota diffusa ieri dall'ex Soprintendenza per i beni archeologici calabresi.
Non è un mistero: sotto i palazzi della modernità giacciono le rovine di tante altre città. Fondata nell'VIII secolo a.C., Reggio è stata uno dei principali centri della Magna Grecia, un'alleata di Roma e tra le più grandi metropoli dell'impero bizantino. Senza contare le dominazioni di normanni, svevi e angioini. E infatti prima di approvare il progetto del parcheggio, erano stati prescritti tre saggi esplorativi allo scopo di determinare la consistenza e la natura dei reperti del sottosuolo.
I lavori di piazza Garibaldi, iniziati il 18 aprile scorso al limite dell'area dove dovrebbe essere costruito il parcheggio, in un primo momento avevano fatto emergere "un consistente nucleo di malta di calce". Poi la scoperta di "una massiccia costruzione che affiora a 2,30 metri dall'attuale piano stradale e che si sviluppa in altezza per poco meno di 2 metri". E' il podio di un edificio di età romana, probabilmente risalente al I secolo d.C., il cui nucleo centrale è stato realizzato in conglomerato cementizio con rivestimento in mattoni. La struttura presenta diversi fori utilizzati come agganci di perni per il fissaggio di lastre di rivestimento in marmo colorato. La base del podio è costituita da una cornice in calcare durissimo e sagomato, delimitata a sua volta da altri blocchi di calcare. L'antico edificio ha una larghezza di 13 metri. La lunghezza non è stata accertata perché una parte del podio prosegue in una zona del terreno non ancora interessata agli scavi. Le prime indagini hanno restituito numerosi materiali, tra cui alcune anfore, grazie ai quali è stato possibile stabilire la datazione del monumento, da inquadrare in età romana imperiale.
La struttura forse era situata in un'area al di fuori delle mura della città antica, ma non è ancora chiaro se fosse una tomba o un santuario.
Il secondo saggio, effettuato nell'estremità occidentale di piazza Garibaldi, ha consentito il rinvenimento di un tratto di una canaletta di scolo dell'acqua, visibile per circa 6,5 metri di lunghezza. Pochi giorni fa è iniziata la terza esplorazione del terreno, ma al momento non sono emerse stratigrafie significative. Un quarto saggio dovrebbe essere avviato a breve.
Il 12 maggio scorso si è svolto un incontro tra l'assessore ai Lavori pubblici del Comune, Angela Marcianò, il Dirigente Marcello Romano e il soprintendente all'Archeologia della Calabria, Salvatore Patamia, nel corso del quale sono state stabilite le linee guida per il prosieguo delle indagini nell'area.
"Siamo seduti su un tesoro, basta scavare tre metri e spunta fuori una meraviglia nascosta", ha commentato il sindaco Giuseppe Falcomatà. All'orizzonte c'è la sfida più dura: trovare i soldi per una vasta campagna di scavi e, soprattutto, individuare il modo migliore per valorizzare le nuove scoperte. E riportare nel tempo attuale le tante Reggio del passato.

Un piccolo sarcofago per un bimbo mai nato

Il piccolo sarcofago trovato dagli archeologi nel 1907
(Foto: The Fitzwilliam Museum)
Recentemente è stato sottoposto ad accurate analisi digitali un antico sarcofago egizio in miniatura, di appena 44 centimetri di lunghezza. Il sarcofago conteneva il più giovane esempio di essere umano mummificato, un feto di sole sedici o diciotto settimane di gestazione.
Questa scoperta è una prova della grande importanza rivestita dai rituali di sepoltura nell'Antico Egitto, anche per quel che riguardava giovani vite terminate precocemente. Il piccolo sarcofago venne scavato a Giza nel 1907 dalla British School of Archaeology ed entrò ben presto nella collezione del Museo Fitzwilliam. E' un perfetto esempio in miniatura di sarcofago del Periodo Tardo e potrebbe risalire al 664-525 a.C.. Il coperchio e il sarcofago sono entrambi in legno di cedro.
Il sarcofago appare piuttosto danneggiato ma, malgrado questo, i ricercatori hanno appurato che era stato accuratamente scolpito con immagini in piccola scala e anche decorato. Il feto custodito nel sarcofago era stato accuratamente imbalsamato. Resina nera fusa era stata versata prima che la bara fosse chiusa. Per molti anni si è pensato che l'interno del sarcofago custodisse i resti mummificati degli organi interni che venivano rimossi durante l'imbalsamazione.
Le immagini della Tac a cui è stato sottoposto il piccolo sarcofago
(Foto: The Fitzwilliam Museum)
Gli esami a raggi X effettuati presso il Museo Fitzwilliam si sono rivelati inconcludenti anche se suggerirono che il sarcofago conteneva, probabilmente, un piccolo scheletro. I ricercatori hanno deciso, allora, di ricorrere alla Tomografia computerizzata, effettuata presso il Dipartimento di Zoologia dell'Università di Cambridge. Le immagini hanno rivelato che il sarcofago conteneva realmente i resti di un piccolo scheletro avvolto nei bendaggi. Una mummia rimasta per tutto quel tempo indisturbata.
La Tac ha mostrato chiaramente le ossa delle mani e dei piedi, e le ossa lunghe delle gambe e delle braccia. Anche il cranio e il bacino sembravano intatti e i ricercatori hanno compreso che la mummia era quella di un feto umano che non aveva superato le diciotto settimane di gestazione. E' stato impossibile capire se i resti appartenessero ad un individuo di sesso maschile o femminile. Gli studiosi pensano si tratti di un aborto spontaneo. La Tac ha anche rivelato che il feto aveva le braccia incrociate sul petto. Questo, unitamente alla complessità del piccolo sarcofago e della sua decorazione, sono chiari segni dell'importanza di questa sepoltura nell'antico Egitto.
Anche nella tomba di Tutankhamon vennero trovati due piccoli feti mummificati, ma questi feti erano di circa 25 e 37 settimane di gestazione. Le sepolture di neonati abortiti finora identificate in Egitto sono molto poche.

Riprendono gli scavi su un antico castello sul Mar Nero

I resti del Castello di Kurul a Ordu, sul Mar Nero
(Foto: Hurriyet Daily News)
Sta per essere iniziata un'altra campagna di scavi al Castello Kurul di Ordu, un edificio risalente a 2300 anni fa, che sorge sulle rive del Mar Nero, in Turchia. Gli scavi potrebbero incentivare, nel tempo, l'arrivo di turisti in questa parte della Turchia.
Il Castello Kurul sorge su uno sperone roccioso nel quartiere Bayadi, a 13 chilometri di distanza dal centro cittadino. Gli scavi sono iniziati nel 2010 e sono proseguiti fino al 2015. Sono stati scavati tra i 250 ed i 300 scalini e sono stati trovati resti di tegole in terracotta e ceramica. L'esame dei reperti ha permesso di stabilire che l'insediamento venne fondato da Mitridate VI Eupatore Dioniso, re del Ponto, una delle personalità più importanti dell'Anatolia durante il tardo periodo ellenistico.
Il Professor Suleyman Senyur, responsabile del Dipartimento di Archeologia della Gazi University, prevede di riprendere il suo lavoro di indagine e scavo nei primi giorni di giugno. Egli pensa che gli scavi potranno impegnare gli archeologi per 10-15 anni almeno. Dal 2010 sono stati rinvenuti molti reperti storici: una porta d'ingresso, monete, ceramiche, punte di freccia, busti di una divinità maschile e di una femminile, centinaia di pezzi di legno bruciati, chiodi, armi in metallo, coltelli, impugnature di pugnali, asce, ancore, frese e telai.

Hala Sultan Tekke, nuove scoperte

Scavi in un pozzo di Hala Sultan Tekke (Foto: Peter Fischer)
Hala Sultan Tekke, la città dell'Età del Bronzo trovata sull'isola di Cipro, è molto più grande di quanto si sia pensato finora. Nuove scoperte archeologiche suggeriscono che i suoi abitanti erano abili commercianti e che intrattenevano traffici fruttuosi con le circostanti culture.
L'estate passata una spedizione archeologica svedese dell'Università di Goteborg ha continuato i suoi scavi ed ha presentato le sue scoperte alle autorità cipriote. La città era estesa su ben 50 ettari e questo ne faceva uno dei più grandi centri dell'Età del Bronzo, forse il più grande del Mediterraneo orientale. Hala Sultan Tekke è situata vicino l'aeroporto di Larnaka, fiorì tra il 1300 e il 1150 a.C. e venne successivamente distrutta e abbandonata per ragioni sconosciute. Molto probabilmente furono i cosiddetti Popoli del Mare a segnare il destino della città.
Decenni di agricoltura intensiva e di aratura dei campi hanno inciso negativamente sui resti dell'antica città cipriota, i cui edifici erano fatti in pietra ed argilla essiccata al sole. Gli archeologi hanno scoperto una struttura simile ad una piscina di 2,1 x 2,7 metri, che era utilizzata, con tutta probabilità, per tingere di viola i tessuti. Il viola era un colore molto utilizzato e richiesto all'epoca di massima floridezza di Hala Sultan Tekke. Dal terreno sono emerse anche ciotole di ceramica, brocche, pesi da telaio, un amuleto a forma di scarabeo e gioielli in oro e argento.
I reperti forniscono prove dell'ampia rete commerciale e dei vasti rapporti interculturali che caratterizzavano il Mediterraneo dell'Età del Bronzo. Gli archeologi hanno scoperto oggetti provenienti dall'Europa occidentale, dal Mediterraneo meridionale e centrale, dal Levante e dall'Egitto. Si tratta di lapislazzuli e di una gemma blu importati dall'attuale Afghanistan e di ambra proveniente dal Mar Baltico.

Smirne, le origini dell'Anatolia

Gli scavi a Ysilova Hoyuk (Foto: Yesilova Hoyuk Website)
I ricercatori della Boston University hanno raccolto campioni di Dna da un osso di un cranio di 5000 anni fa, scoperto durante gli scavi nel tumulo di Ysilova a Smirne, una delle aree di scavo più antiche dell'Anatolia. Il campione di Dna potrebbe fornire indizi importanti legati all'antica storia dell'Anatolia.
Il responsabile degli scavi, il Professor Zafer Derin, ha affermato che gli scavi del tumulo di Yesilova hanno rivelato che la storia di Smirne (l'attuale Izmir), risalirebbe ad 8500 anni fa, consentendo, anche, di accedere ad importanti informazioni sulla vita dei primi abitanti di Smirne.
L'osso temporale ora analizzato, è stato trovato lo scorso anno ed è stato inviato alla Boston University per effettuare ricerche sul Dna che permetteranno di conoscere il colore degli occhi, l'altezza e la salute di questo individuo vissuto 5000 anni fa. Si potrà anche sapere se fosse di origine europea o anatolica.
Il Professor Derin ha, come scopo primario, quello di comprendere l'origine degli attuali abitanti di Smirne e da dove, eventualmente, provenissero. La popolazione anatolica esisteva già 11500 anni fa, mentre la cultura turca si è imposta più recentemente. Purtroppo non è stato possibile recuperare l'intero scheletro dell'uomo morto 5000 anni fa. Probabilmente è stato sepolto direttamente nel terreno, come a Catalhoyuk, o forse il suo corpo è stato lasciato agli uccelli e agli animali selvatici, questo non lo sapremo mai.
Ceramica Calcolitica scoperta a Yesilova Hoyuk (Foto: Yesilova Hoyuk Website)

Novità su una piccola mummia siberiana

La mummia del bambino trovato nella necropoli di Zeleny Yar
(Foto: siberiantimes.com)
I ricercatori siberiani stanno esaminando con attenzione la mummia di un bambino vissuto, anticamente, vicino alla moderna città di Salekhard. Il fanciullo aveva circa sei o sette anni, di lui sono stati subito visibili la parte inferiore del viso ed i denti. Sono stati prelevati dalla mummia campioni di Dna per confrontarli con quelli dei gruppi indigeni siberiani locali, per capire se i lontani "parenti" del bambino percorrano ancora le terre che lo videro nascere e morire.
I resti del bambino sono stati trovati nella necropoli di Zeleny Yar e sono stati inizialmente attribuiti ad un rappresentante di una misteriosa cultura medioevale siberiana collegata con la Persia, malgrado la zona si trovi ai confini della regione artica. Si sta lavorando anche per ricreare i tratti del fanciullo, con l'aiuto di esperti della Corea del Sud. Si è appurato, nel contempo, che la sua dieta era prevalentemente costituita da pesce crudo.
Una delle mummie di maschi adulti trovati nella necropoli
(Foto: Natalya Fyodorova per siberiantimes.com)
Il Professor Petr Slominsky, responsabile del Laboratorio di Genetica Molecolare delle malattie ereditarie presso l'Istituto di Genetica Molecolare di Mosca, ha intenzione di recarsi nei pressi di Zeleny Yar per raccogliere campioni di Dna della popolazione locale per cercare quelle connessioni che potrebbero rispondere ai quesiti sui rapporti tra le antiche genti che abitavano un tempo queste località e gli attuali abitanti.
E' abbastanza complicato estrarre il Dna del bambino rinvenuto nella necropoli di Zeleny Yar, poiché il corpo era avvolto in corteccia di betulla e la resina di betulla ha danneggiato i tessuti umani. Inoltre il corpo ha subito più volte congelamento e disgelo. Il Dna che si potrebbe ottenere non è molto pulito. La ricostruzione del volto del ragazzo sarà parimenti difficile e lunga, perché i ricercatori devono innanzitutto il cranio. Le ossa facciali della mummia non sono completamente formate o sono andate distrutte a causa della lunga permanenza nel terreno. La pelle del viso è quasi intatta, ma le ossa sembrano essersi disintegrate.
Uno dei momenti dell'analisi della mummia del bambino di Zeleny Yar
(Foto: Yamalo-Nenets regional Museum ad Exhibition Complex)
Risultati interessanti sono stati ricavati dall'analisi dell'intestino del ragazzo. I ricercatori hanno effettuato un piccolo taglio attraverso il quale, con una sonda, hanno prelevato i resti presenti nell'intestino. In quest'ultimo non è stato trovato polline, per cui si è certi che sia morto o nel tardo autunno o in inverno. Venne sepolto in un periodo molto freddo dell'anno e questo ha aiutato la conservazione naturale del corpo. L'altra scoperta è stata la presenza di vermi nell'intestino, a dimostrazione che il giovane aveva mangiato pesce crudo o cotto a metà.
In precedenza erano stati trovati simili parassiti durante l'analisi di campioni estratti dai resti di un bambino trovato nel 2014 nella stessa necropoli. L'età di questo bambino era compresa tra i sei mesi e l'anno. Evidentemente tutti i bambini qui sepolti erano stati alimentati con pesce crudo o quest'ultimo è stato cucinato in forma di pappa o mescolato con cereali.
Il volto di una mummia di adulto di sesso maschile
(Foto: Natalya Fyodorova per siberiantimes.com)
Gli archeologi, precedentemente, hanno anche trovato 34 sepolture poco profonde. Alcuni inumati avevano il cranio frantumato o mancante e gli scheletri malridotti. Cinque mummie erano state avvolte nel rame e in un'elaborata pelliccia di renna o castoro. Tra le sepolture finora emerse, una sola appartiene ad un defunto di sesso femminile: una bambina con il volto occultato da lastre di rame. Curiosamente non sono state trovate mummie di donne adulte. Nei dintorni sono emerse altre sepolture infantili con maschere di rame sul volto, ma erano tutte di individui di sesso maschile.
E' stata trovata anche la mummia di un uomo dai capelli rossi, protetto da una sorta di corazza di rame che andava dal petto ai piedi. Accanto a lui giacevano un'ascia di ferro, pellicce ed una fibbia in bronzo raffigurante un orso. I piedi del defunto erano rivolti verso il fiume Poluy Gorny, un fatto al quale i ricercatori hanno attribuito un significato religioso.
Nel sito sono stati anche trovati degli artefatti di chiara origine persiana: si tratta in prevalenza di ciotole risalenti al X-XI secolo d.C.. Una delle sepolture risale sicuramente al 1280 circa, come è stato rilevato dallo studio degli anelli del legno della bara. I ricercatori hanno scoperto, accanto ai resti di una delle mummie adulte, un coltello da combattimento in ferro, un medaglione d'argento e una figurina in bronzo di un uccello, tutti oggetti datati ad un periodo compreso tra il VII e il IX secolo d.C..
Lo scopo di queste particolari sepolture non era quello di conservare i corpi dei defunti. Quest'ultima fu un fatto essenzialmente incidentale. Il terreno qui è sabbioso e non è sempre ghiacciato, una situazione che, in combinazione con la presenza di rame, ha impedito l'ossidazione dei resti ed ha garantito la loro conservazione in buono stato fino ad oggi.

Matariya, Egitto: alla ricerca del tempio di Nectanebo I

Frammento di rilievo scoperto dalla Missione archeologica tedesco-egiziana
a Matariya, in Egitto (Foto: AnsaMed)
(Fonte: AnsaMed) - La missione archeologica tedesco-egiziana a Matariya ha scoperto nuove prove della presenza di un santuario di Nectanebo I (380-363 a.C.) nel recinto del tempio di Heliopolis.
Il Dottor Aiman Ashmawy, capo della squadra egiziana che fa parte della missione, ha detto che il numero dei blocchi provenienti da un'area circoscritta dimostra che il luogo dove si sta attualmente scavando è quello dove sorgeva la costruzione originale del tempio, costituito da rilievi calcarei e colonne, con la parte inferiore delle pareti realizzate in basalto nero. La porta orientale era stata ricavata da arenaria e decorata con iscrizioni e scene rituali.
La Missione archeologica ha anche trovato prove ulteriori della rappresentazione di processioni delle divinità nilotiche con testi esplicativi. Un gruppo di lastre in basalto mostra la processione del VI nomo (regione) dell'Alto Egitto.
Nella stessa area sono stati anche rinvenuti oggetti quali quelli su cui solitamente facevano pratica gli scultori e una statuetta in bronzo della dea Bastet. Il Dottor Dietrich Raue, del Museo Egizio dell'Università di Lipsia (Germania), si è concentrato sugli scavi di una seconda area nella parte sudest del tempio, dove sono stati scoperti un laboratorio del IV secolo a.C. ed un superiore strato di epoca tolemaica. "Questo conferma l'enorme attività dei sovrani della XXX Dinastia in questo santuario", ha detto l'archeologo. Un nuovo tempio di Ramses II, poi, è stato scoperto tra il sito attuale del tempio dello stesso faraone a Suq el-Khamis el-Amis e l'area del tempio di Nectanebo. Sono emersi frammenti di statue colossali e grandi blocchi con rilievi che facevano parte delle pareti.

sabato 7 maggio 2016

Vino nuragico

Il pozzo in Sardegna in cui sono stati rinvenuti gli antichi vinaccioli
(Foto: "Repubblica.it")
(Fonte: Repubblica) - Una scoperta che riscrive la storia della viticultura dell'intero Mediterraneo occidentale. A farla gli studiosi dell'Università di Cagliari. L'équipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità (CCB), guidata dal professor Gianluigi Bacchetta, ha rinvenuto semi di vite di epoca nuragica, risalenti a circa 3000 anni fa. E ha avanzato l'ipotesi che in Sardegna la coltivazione della vite non sia stata un fenomeno d'importazione, bensì autoctono.
Sino ad oggi, infatti, i dati archeobotanici e storici attribuivano ai Fenici, che colonizzarono l'isola attorno all'800 a.C., e successivamente ai Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo occidentale. Ma la scoperta di un vitigno coltivato dalla civiltà Nuragica dimostra che la viticultura in Sardegna era già conosciuta: probabilmente ebbe un'origine locale e non fu importata dall'Oriente. A suffragio di questa ipotesi, il gruppo del CCB sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo: dalla Turchia al Libano alla Giordania si cercano tracce per verificare possibili "parentele" tra le diverse specie di vitigni.
L'area di scavo (Foto: "Repubblica.it")
Nel sito nuragico di Sa Osa, nel territorio di Cabras, nell'Oristanese, la squadra di archeobotanici del professor Bacchetta, grazie alla collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano, ha trovato oltre 15.000 semi di vite perfettamente conservati in fondo a un pozzo che fungeva da "paleo-frigorifero" per gli alimenti. "Si tratta di vinaccioli non carbonizzati, di consistenza molto vicina a quelli 'freschi' reperibili da acini raccolti da piante odierne. - Spiega Bacchetta - Grazie alla prova del Carbonio 14 i semi sono stati datati a 3000 anni fa (all'incirca dal 1300 al 1100 a.C.), età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica".
Gli archeosemi ritrovati e analizzati sono quelli della Vernaccia e della Malvasia, varietà a bacca bianca coltivate proprio nelle aree centro-occidentali della Sardegna. "Affermare che la viticoltura in Occidente sia nata nell'Isola sarebbe esagerato - spiega ancora Bacchetta - e non sarebbe supportabile in base alle evidenze scientifiche attuali. Quello che è certo, però, è che la vite in Sardegna non è stata portata dai Fenici, che in Libano già la coltivavano ancor prima dell'età Nuragica. Più che un fenomeno di importazione, dunque, noi pensiamo che in Sardegna si sia verificata quella che noi chiamiamo 'domesticazione' in loco di specie di vite selvatiche, che ancora oggi sono diffuse ampiamente in tutta la Sardegna. Va tenuto conto, però, che i Nuragici erano un popolo molto attivo negli scambi commerciali e hanno avuto contatti anche con altre civiltà, come quella cretese o di Cipro, che conoscevano la vite".
Vinaccioli conservati nella Banca del Germoplasma
della Sardegna (Foto: "Repubblica.it")
La scoperta è il frutto di oltre 10 anni di lavoro condotto sulla caratterizzazione dei vitigni autoctoni della Sardegna e sui semi archeologici provenienti dagli scavi diretti dagli archeologi della Soprintendenza e dall'Università di Cagliari. I risultati sono giunti anche grazie all'innovativa tecnica di analisi d'immagine computerizzata messa a punto dai ricercatori del CCB in collaborazione con la Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia. L'analisi sfrutta particolari funzioni atematiche che analizzano le forme e le dimensioni dei vinaccioli (semi di vite), mettendo a confronto i dati morfometrici dei semi archeologici con le attuali cultivar e le  popolazioni selvatiche della Sardegna. Ciò ha permesso di scoprire che questi antichissimi semi erano appartenuti alle varietà coltivate mostrando, come visto una relazione parentale anche con quelle silvestri che crescono spontanee sull'isola.
I ricercatori del BBC dell'Università di Cagliari che hanno fatto la
scoperta degli antichi vinaccioli (Foto: "Repubblica.it")
"Adesso abbiamo la prova scientifica che i Nuragici conoscessero la vita domestica e la coltivassero. - Spiega Andreino Addis, presidente di Assoenologi Sardegna. - Una buona occasione per rilanciare in grande stile la viticoltura sarda, che pesa ancora troppo poco sul piano nazionale".
Questi semi di vite provenienti dal passato sono dunque un patrimonio prezioso per valorizzare le produzioni vitivinicole doc e dei vitigni in via di sparizione. Che poi è lo scopo per cui l'Università di Cagliari è scesa dalla cattedra e si è calata nel territorio: "Da anni diciamo che la ricerca scientifica può aiutare molto le produzioni locali - conclude Bacchetta - e avere importanti ricadute economiche. Caratterizzare un prodotto, conoscerne le origini costituiscono elementi essenziali per riuscire a dare un valore aggiunto. Di fatto stiamo operando di comune accordo con numerose cantine sociali che credono nel nostro lavoro. E cerchiamo di dare il nostro contributo concreto allo sviluppo economico della Sardegna".

Deir el-Medina: la mummia tatuata

I tatuaggi di due babbuini e, tra loro, l'occhio wadjet trovati sul collo
della mummia femminile di Deir el Medina (Foto: Anne Austin)
Anne Austin, bioarcheologa della Stanford University che sta studiando le mummie trovate a Deir el-Medina, in Egitto, ha scoperto un particolare tipo di antichi tatuaggi. Mentre la maggior parte delle mummie egizie hanno tatuaggi con punti e linee, la mummia di una donna vissuta circa 3000 anni fa, il primo esempio di mummia del periodo dinastico egizio, presenta tatuaggi rappresentanti animali e simboli apotropaici.
La dottoressa Austin, utilizzando l'illuminazione a infrarossi ed un sensore ugualmente ad infrarossi, ha scoperto su una mummia più di 30 tatuaggi, molti dei quali invisibili ad occhio nudo. Uno di questi tatuaggi raffigura proprio l'occhio wadjet, simbolo di protezione contro il male. Il tatuaggio è stato ripetuto sul collo, sulle spalle e sulla schiena della defunta.
Ma la mummia ha, impressi sulla pelle, ben altri tatuaggi: sul collo la dottoressa Austin ha identificato dei babbuini tatuati, sulle braccia vi sono delle mucche e sui fianchi della donna sono presenti dei fiori di loto. La posizione e la dimensione dei disegni, secondo la bioarcheologa statunitense, dimostrano che i tatuaggi dovevano avere un significato ben preciso, molto probabilmente connesso al credo religioso della defunta. Le mucche, ad esempio, sono comunemente associate alla dea Hathor, mentre i simboli impressi sulla pelle della gola e delle braccia avevano il compito di evocare il potere magico della dea mentre la donna cantava o suonava durante i rituali in onore di Hathor.
Diverse altre mummie femminili con tatuaggi relativi ad Hathor sono state rinvenute nel tardo XIX secolo a Deir el-Bahari, il luogo in cui venivano sepolti i funzionari reali e le loro famiglie. Le donne sono state soprannominate "le sacerdotesse tatuate di Hathor", la più famosa si chiamava Amunet, sacerdotessa della dea. Solitamente le donne avevano tatuaggi composti con punti e linee, la cui funzione era, oltre che religiosa, anche terapeutica.
La dottoressa Emily Teeter, egittologa dell'Università di Chicago (Illinois), ritiene che i tatuaggi della mummia di Deir el-Medina hanno un carattere marcatamente religioso. Alcuni dei tatuaggi sono più sbiaditi rispetto ad altri presenti sulla pelle della donna, a dimostrazione che furono praticati quando ella era ancora giovane e sono, praticamente, "cresciuti" con lei. La scoperta, a detta della dottoressa Teeter, ha lasciato sbalorditi diversi egittologi che non sapevano dell'esistenza di questo particolare genere di tatuaggi.
La dottoressa Austin ha dichiarato che ha già trovato altre tre mummie, a Deir el-Medina, tatuate allo stesso modo e si è augurata che lo studio di questi tatuaggi possa presto portare ad allargare la conoscenza sull'utilizzo di questi simboli nel mondo dell'antico Egitto.

Le sorprese di Piazza della Luna a Teotihuacan

Fori collocati nell'angolo meridionale della Struttura A della Piazza
della Luna di Teotihuacan (Foto: INAH)
Per lungo tempo gli archeologi dell'Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH) del Messico hanno scavato ed esplorato le viscere di Piazza della Luna a Teotihuacan. Recentemente hanno fatto una scoperta sorprendente: la piazza di fronte alla maestosa Piramide della Luna, vista dall'alto, aveva l'aspetto di un paesaggio lunare, ricco di crateri.
I ricercatori hanno esaminato la serie di crateri ed hanno scoperto che contenevano, al loro interno, delle stele lisce di pietra verde ed hanno anche scoperto una serie di passaggi che segnano il centro di questi crateri e che si sviluppano in direzione dei punti cardinali. Una serie di fori, poi, all'interno dei crateri, contengono delle pietre di fiume.
Gli scavi a Piazza della Luna
(Foto: INAH)
Queste evidenze, prese tutte insieme, restituiscono un codice simbolico che l'antica popolazione di Teotihuacan sviluppò nelle fasi iniziali di vita della città, quasi duemila anni fa. "Siamo di fronte ad un nuovo ombelico della città, di fronte a un nuovo centro cosmico. La Piazza della Luna non era come la vediamo noi oggi. Era piena di crateri, canali, stele, edifici e la Piramide della Luna era molto più piccola". Ha detto l'archeologa Veronica Cabrera Ortega, direttore del progetto di ricerca. "Il calcare con cui fu edificatala Piazza della Luna è stato modificato. Abbiamo identificato oltre 400 cavità utilizzate, poi, per oltre cinque secoli; piccoli fori di 20-25 centimetri di diametro e profondi 30 centimetri che ricoprono la piazza, anche se alcuni di essi sono concentrati particolarmente in alcune zone. Molti di questi fori avevano, al loro interno pietre di fiume che sono state trasportate da qualche altro luogo".
Questi nuovi scavi della Piazza della Luna, iniziati nel 2015, si sono concentrati in modo particolare nella zona di fronte alla Piramide della Luna conosciuta come Struttura A: si tratta di un patio chiuso di 25 metri di larghezza, contenente dieci piccoli altari. Lo scavo mira a cercare le origini dello spazio rituale di Piazza della Luna e dei crateri trovati in essa. Per procedere, gli archeologi si stanno avvalendo del radar a penetrazione ed hanno già individuato una serie di alterazioni apportate dagli antichi abitanti di Teotihuacan.
Le pietre trovate nei fori di Piazza della Luna
(Foto: INAH)
Le modifiche fatte dagli antichi abitanti suggeriscono che la zona era, un tempo, molto diversa da quella che si vede oggi. La piazza era delimitata un tempo da 13 basi e dalla Piramide della Luna, costruita nelle fasi finali della vita di Teotihuacan (350-550 d.C.). Finora sono state trovate cinque stele, di altezza variabile dagli 1,25 agli 1,50 metri e pesanti tra i 500 e gli 800 chilogrammi. In attesa di esami più approfonditi, ad una prima analisi si pensa che le pietre verdi siano originarie di Puebla, al pari di un'altra dozzina di stele trovate in precedenza a Teotihuacan.
Anni fa l'archeologo Otto Schondube affermò che la Struttura A doveva avere una base che sembrava un "quinconce" o "croce di Teotihuacan", associata ad un ordine cosmologico, ma non sono stati trovati elementi a supporto di questa tesi. Sicuramente, a detta degli archeologi, la Struttura A era uno spazio che metteva in collegamento, simbolicamente, il mondo degli inferi con il piano celeste. I fori che contengono le stele sono stati scavati nella fase iniziale della città (100 d.C.), come la Piramide del Sole, eretta nello stesso momento in cui si cominciavano i lavori per la Piramide della Luna.
Le stele sono state collocate all'interno dei fori per santificare lo spazio della piazza o per legittimare il potere assegnato alle divinità. Le pietre verdi, inoltre, si collegano con le divinità dell'acqua proprio nel luogo - Piazza della Luna - dove sono state trovate delle grandi sculture della dea della fertilità Chalchiuhtlicue, ad indicare che doveva esserci, nei pressi, un tempio a lei dedicato.
Un'altra importante scoperta è quella di due canali associati con l'altare centrale della Piazza della Luna, situati entrambi ad appena 10 centimetri di profondità. Sembra che anche questi canali abbiano avuto una funzione simbolica piuttosto che un uso pratico per il drenaggio delle acque. Entrambi misurano 1,5-2 metri di larghezza e si diramano da nord e da sud rispetto ai gradini dell'altare centrale.

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